
Daniele Barbieri: i linguaggi del fumetto
Linguaggi, tendenze, influenze della "letteratura disegnata"
Hai scritto nel tuo libro "I linguaggi del fumetto" che la differenza tra l'illustrazione e la vignetta sta nel fatto che la prima commenta mentre la seconda racconta. Come si connota la narrazione dei fumetti?
L’immagine dell’illustrazione appare in un contesto del tutto diverso da quello in cui appare l’immagine del fumetto. L’illustrazione illustra – appunto – un testo che già esiste autonomamente, e che esisterebbe anche senza di lei: di conseguenza il suo ruolo non può che essere quello di aggiungere, di proporre un punto di vista specifico.
Vale la pena di specificare oggi, a qualche anno di distanza dall’uscita del mio libro, che, nel dire questo, avevo in mente l’illustrazione dei testi narrativi. Se si allarga il campo ai testi didattici e scientifici, il ruolo dell’illustrazione diventa comunicativamente molto più centrale, e buona parte dell’informazione può passare proprio da lì. Non si tratta però di testi narrativi. Restando nel campo specifico di questi ultimi, esistono però, soprattutto nel campo della letteratura per l’infanzia, una serie di produzioni visive delle quali è davvero difficile dire in che misura si tratti di racconto illustrato o di racconto per immagini (cioè fumetto).Viceversa il racconto del fumetto è basato in maniera sostanziale sulle immagini, senza le quali il racconto non ci sarebbe nemmeno.
Qual è secondo te la differenza tra il linguaggio dei fumetti e quello prettamente letterario?
La differenza è quella che c’è tra raccontare a parole e raccontare per immagini (corredate di parole, anche se non necessariamente). In questo senso il fumetto è probabilmente, come linguaggio, più vicino al cinema che non al romanzo. Tuttavia il fatto di essere realizzato su carta – richiedendo quindi un’attività del fruitore maggiore per “mettere in moto” gli eventi di quanto non sia richiesto allo spettatore del cinema – lo avvicina al romanzo più di quanto non accada al film.
È possibile parlare di un tipo di narrazione letteraria più "fumettistica"? In quali termini?
Quando si usano espressioni di questo tipo si fa di solito riferimento non tanto al fumetto in quanto tale, che è un linguaggio, ma ai generi narrativi fumettistici più noti al momento. Quando per esempio si dice che Banana Yoshimoto ha uno stile fumettistico, si sta facendo riferimento in realtà ad alcune caratteristiche specifiche di un genere specifico di manga. Se cerchiamo dei casi con maggiore fondamento, e pensiamo a definizioni come quella di “stile cinematografico” che viene tipicamente attribuita, ante litteram, a un noto frammento di Leonardo Da Vinci, ci accorgiamo che l’attribuzione è dovuta al fatto che, leggendo quel testo di Leonardo, abbiamo l’impressione di leggere la descrizione di un’esperienza di visione simile a quella che potremmo avere vedendo un film. In questi termini, può esistere una narrazione verbale fumettistica anziché cinematografica? Ho il sospetto che, nei termini in cui si può esprimere la parola, qualsiasi stile “fumettistico” sarebbe anche “cinematografico” – e poiché il cinema gode, nella nostra cultura, di maggiore conoscenza e considerazione, si finirebbe per definirlo in questo secondo modo. Mi piacerebbe tuttavia essere smentito, e sarei molto contento che mi venisse segnalato uno stile letterario che possa legittimamente essere definito “fumettistico” senza che questa definizione faccia riferimento a qualche genere specifico, ma a caratteristiche proprie del linguaggio del fumetto che non siano comuni a quello cinematografico.
Nella cultura contemporanea il fumetto si è andato "letterarizzando", ovvero è ricorso a riferimenti e linguaggi sempre più colti. Sei d'accordo? Se sì, perchè?
Il fumetto è davvero ricorso con maggiore frequenza a riferimenti a linguaggio più colti negli ultimi trent’anni, ma come sa ogni buon lettore di McCay, di Feininger, di Herriman, questi riferimenti ci sono in realtà sempre stati – e nonostante questo non trovo che il fumetto si sia “letterarizzato”. Mettere le cose in questi termini significa presupporre che la letteratura sia comunque più colta del fumetto, il che è una palese falsità, come sa ogni buon lettore di Liala.
Il fenomeno ha avuto caratteristiche diverse in paesi diversi, perché diversa è la considerazione pubblica di cui gode storicamente il fumetto: in Francia e in Argentina, per esempio, il fumetto ha sempre avuto lettori colti, mentre in Italia no – con poche e illuminate eccezioni.Quello che è accaduto è che, a partire dagli anni Sessanta, e poi in maniera più spiccata dai Settanta, la produzione a fumetti che si rivolge a un pubblico colto, o addirittura molto colto, è diventata molto maggiore che in precedenza. Questo non significa di per sé che si siano prodotti fumetti migliori di prima – ma significa certamente che il fumetto ha incominciato a considerare i lettori colti tra quelli che potevano essere i suoi.
Graphic novel e romanzo visuale. Possiamo parlare di genere letterario?
La graphic novel è nata come genere “letterario”, perché Will Eisner l’ha creata con caratteristiche stilistiche e narrative estremamente specifiche. Ma è diventata in brevissimo tempo semplicemente un formato editoriale. Trattare la graphic novel oggi come genere letterario sarebbe come trattare il romanzo come un genere letterario – cosa che ha senso solo a patto di assumere un’accezione così slabbrata dell’espressione genere letterario da renderla pressoché inutile.
Al di là di questo, ci sono romanzi visuali straordinari, come quelli di Eisner, di Mattotti, di David B., di Taniguchi, di Spiegelman, di Miller, che appartengono a generi letterari molto diversi tra loro – e c’è, né più né meno che nel mondo della letteratura e del cinema, la pletora dei mille prodotti di livello medio o scadente.Il romanzo visuale non è un genere letterario, bensì un romanzo realizzato in un linguaggio che non è quello delle parole. Mi rendo conto che l’espressione non è felicissima, perché allora dovremmo definire romanzo cinematografico il film; ma è nata per cercare di dare una dignità culturale alle produzioni di un linguaggio, come quello del fumetto, a cui ne è sempre stata riconosciuta pochissima.
Quali le differenze tra la realtà italiana e quella americana o anglosassone?
La situazione anglosassone non sarebbe così diversa da quella italiana, se non fosse per il fatto di avere una lingua in comune con gli USA (e con un sacco di altri posti) – il che permette comunque, a priori, di avere un mercato di ben altra portata del nostro. Il paragone va fatto piuttosto con gli Stati Uniti, dove il fumetto è un’industria (anzi, una grande industria), mentre da noi è fatto da una serie di piccole o piccolissime case editrici che rischiano continuamente il proprio futuro, perché il mercato è minimo. Fanno eccezione Disney e Bonelli – ma, se si va a vedere da vicino, anche in questi casi (soprattutto Bonelli) la gestione è molto poco di carattere industriale.
E il pubblico italiano è affezionato a Bonelli perché riconosce nelle sue pubblicazioni questa stessa passione. Bonelli è cioè, in un certo senso, il simbolo migliore di come funziona il (piccolo) mondo del fumetto in Italia, un mondo sostenuto, sia dalla parte della produzione (creazione e pubblicazione) che da quella del consumo, sostanzialmente dalla passione personale. Questa situazione anomala costituisce il limite e il vantaggio del fumetto italiano. Ne è il limite perché i migliori autori italiani finiscono di solito per lavorare per la Francia, gli USA o addirittura il Giappone, (in passato era stata l’Argentina) per poter campare. Il vantaggio è quello dell’assenza di una standardizzazione industriale forte, come quella che governa il fumetto americano di supereroi, il che permette con maggiore facilità l’affermarsi di novità.Sergio Bonelli, che è il maggior industriale italiano del settore, è prima di tutto un appassionato di fumetti che è riuscito (come peraltro suo padre Gian Luigi prima di lui) a trasformare questa passione in un successo commerciale – ma che continua ad agire in una logica in cui la passione con cui si fanno le cose conta più del successo commerciale stesso.