
Massimo Bocchiola: tradurre Paul Auster
Intervista di Claudia Bonadonna
Traduttore di lungo corso, voce italiana ufficiale dei vari Welsh, Hornby, O’Connor, DeLillo; una collaterale passione per la poesia (sua la raccolta Al ballo della clinica, Marcos y Marcos, 1997), il Premio Nazionale per la traduzione 1997-2002 conquistato a Roma lo scorso maggio: Massimo Bocchiola racconta la sua esperienza nel tradurre il grande scrittore americano Paul Auster.
Immagino che tradurre un autore, sviscerare e interpretare il suo testo, implichi una certa intimità... letteraria. Mi racconta il suo rapporto con Auster?
In verità, Paul Auster è uno dei pochi autori da me tradotti con i quali i rapporti siano stati sempre mediati e mai diretti. Per motivi del tutto prosaici: lui non ha la posta elettronica e io non ho mai incontrato nei suoi testi problemi di senso così oscuri da dovergli telefonare. Ma naturalmente spero che ci incontreremo, una volta o l’altra…
Un giudizio sullo scrittore dalla sua posizione privilegiata di traduttore.
Auster è un autore che divide. L’intelligenza, lo stile, le suggestioni dei suoi intrecci affascinano. Il costante ripetersi delle tematiche, le non sempre felici escursioni nel cinema, l’apparente freddezza intellettuale dei suoi schemi narrativi possono irritare e, come è accaduto anche di recente, suscitare commenti poco benevoli. Addirittura acidi. Io non pretendo di commentare Auster da una posizione di imparzialità: non si traduce per dieci anni un autore dalle caratteristiche così marcate se non lo si ama nel suo complesso e al di là delle proprie piccole predilezioni (che per me vanno forse a L’invenzione della solitudine, La musica del caso e Mr. Vertigo, dei quali tra l’altro ho tradotto solo il primo).
Tradurre un autore è cercare di trasporre il suo immaginario in un'altra lingua. Com'è stato il lavoro nel caso del suo ultimo romanzo Il libro delle illusioni?
Ho trovato Il libro delle illusioni veramente all’altezza del miglior Auster. E onestamente non so che traduzione ne sarebbe uscita se fosse stata la prima opera di questo autore che avessi affrontato. È chiaro a tutti che le auto-stratificazioni, i rimandi volontari, le tracce solo apparentemente inconsce, in uno scrittore come Auster sono buona parte della sostanza stessa della sua arte. E bisogna andar sempre cauti nel considerare vezzi o gratuiti giochetti le allusioni che balenano fra le pieghe del testo. Credo che - piaccia o no - per Auster siano strutturali. Un esempio: ad un certo punto del romanzo compare un personaggio minore, minorissimo, di cui conosciamo soltanto il nome: Fortunato. Come il murato vivo di un racconto di Poe. E sappiamo quale rilievo abbia in Auster l’immagine del muro, la situazione del seppellimento… Altrove si fa cenno a un campione di football americano. Cercandone notizie nel web, ho scoperto che quello sportivo morì in un incidente aereo, proprio come la famiglia del protagonista. Auster è questo. Lo è sempre. In grande come in piccola scala.
Com'è la sua lingua? Leggendola in versione italiana appare piana ma densa. È davvero così?
Niente di più vero. E lo è sempre meglio, in maniera via via più ricca e varia.
Auster ama erigere storie su storie, come un castello di carte. È difficile ricostruire questo tipo di percorso?
Non è semplice, in effetti, anche se il problema di conoscere bene il resto della sua opera (presupposto scontato per il traduttore) si rivela anche un vantaggio. Cioè, da una parte Auster chiede di tenere le antenne sempre all’erta, dall’altra tende con tutte le sue forze a essere riconoscibile. Le piccole trappole che può disseminare lungo un suo testo (come i due esempi che ho raccontato prima) sono in realtà amichevoli. Significative ma non punitive. Auster non è Nabokov: le sue opere non sono… come dire… “giudicanti” verso chi le legge e le traduce.
Altroché! Ed è interessante (potrei anche aggiungere che mi indispettisce… mannò, sarebbe troppo…) come sovente l’opera del traduttore nelle versioni di Auster non mieta particolari riconoscimenti. Forse perché sparisce, passa inosservata. Invece lo ripeto: sempre di più con l’andare del tempo e il crescere della sua scrittura, i testi austeriani acquistano meccanismi perfetti. Che non consentono cali di tensione, neppure nel senso di rifarsi ai precedenti. Anche a questo proposito, un esempio: Auster crea effetti stranianti, di distanziamento dalla materia che tratta, usando cliché e modi di dire piatti, quotidiani, ma in un contesto sintattico “alto”o generalmente intellettuale. E qui non c’è scampo: in italiano bisogna trovare corrispettivi che abbiano anche una giustificazione ritmica. Insomma, una faticaccia. Bella, però!
Immagino che tradurre un autore, sviscerare e interpretare il suo testo, implichi una certa intimità... letteraria. Mi racconta il suo rapporto con Auster?
In verità, Paul Auster è uno dei pochi autori da me tradotti con i quali i rapporti siano stati sempre mediati e mai diretti. Per motivi del tutto prosaici: lui non ha la posta elettronica e io non ho mai incontrato nei suoi testi problemi di senso così oscuri da dovergli telefonare. Ma naturalmente spero che ci incontreremo, una volta o l’altra…
Un giudizio sullo scrittore dalla sua posizione privilegiata di traduttore.
Auster è un autore che divide. L’intelligenza, lo stile, le suggestioni dei suoi intrecci affascinano. Il costante ripetersi delle tematiche, le non sempre felici escursioni nel cinema, l’apparente freddezza intellettuale dei suoi schemi narrativi possono irritare e, come è accaduto anche di recente, suscitare commenti poco benevoli. Addirittura acidi. Io non pretendo di commentare Auster da una posizione di imparzialità: non si traduce per dieci anni un autore dalle caratteristiche così marcate se non lo si ama nel suo complesso e al di là delle proprie piccole predilezioni (che per me vanno forse a L’invenzione della solitudine, La musica del caso e Mr. Vertigo, dei quali tra l’altro ho tradotto solo il primo).
Come scrive un grande poeta italiano, Raffaello Baldini: “il solitario (nel senso del gioco di carte, quindi dell’attività poetica come conseguenza della vita) deve essere uno solo”.Posso dire che, a parte aspetti più ovvi come la maestria stilistica o l’ampiezza degli orizzonti culturali, di Auster apprezzo proprio l’iteratività: le variazioni su temi fissi, come sofferti (perché è sofferente, più che inquieto, l’impasto esistenziale dell’autore), documenti di una condizione immutabile.
Tradurre un autore è cercare di trasporre il suo immaginario in un'altra lingua. Com'è stato il lavoro nel caso del suo ultimo romanzo Il libro delle illusioni?
Ho trovato Il libro delle illusioni veramente all’altezza del miglior Auster. E onestamente non so che traduzione ne sarebbe uscita se fosse stata la prima opera di questo autore che avessi affrontato. È chiaro a tutti che le auto-stratificazioni, i rimandi volontari, le tracce solo apparentemente inconsce, in uno scrittore come Auster sono buona parte della sostanza stessa della sua arte. E bisogna andar sempre cauti nel considerare vezzi o gratuiti giochetti le allusioni che balenano fra le pieghe del testo. Credo che - piaccia o no - per Auster siano strutturali. Un esempio: ad un certo punto del romanzo compare un personaggio minore, minorissimo, di cui conosciamo soltanto il nome: Fortunato. Come il murato vivo di un racconto di Poe. E sappiamo quale rilievo abbia in Auster l’immagine del muro, la situazione del seppellimento… Altrove si fa cenno a un campione di football americano. Cercandone notizie nel web, ho scoperto che quello sportivo morì in un incidente aereo, proprio come la famiglia del protagonista. Auster è questo. Lo è sempre. In grande come in piccola scala.
Com'è la sua lingua? Leggendola in versione italiana appare piana ma densa. È davvero così?
Niente di più vero. E lo è sempre meglio, in maniera via via più ricca e varia.
Non so se questo dipenda da una scarsa congenialità di questa scrittura ai miei mezzi di traduttore. Sarebbe alquanto beffardo, dopo tanti libri di Auster... No, credo invece che le ragioni fondamentali siano almeno due: il rigore che questo stile impone al traduttore, nel senso che esclude quasi ogni libertà nella resa; e una mimesi che definirei “astratta” ma ben presente in vari luoghi del testo del libro chiave cui Auster dichiaratamente si ispira, le Memorie d’oltretomba di Chateaubriand.Tradurre Il libro delle illusioni è stato molto difficile per me, uno dei miei lavori più complessi.
Auster ama erigere storie su storie, come un castello di carte. È difficile ricostruire questo tipo di percorso?
Non è semplice, in effetti, anche se il problema di conoscere bene il resto della sua opera (presupposto scontato per il traduttore) si rivela anche un vantaggio. Cioè, da una parte Auster chiede di tenere le antenne sempre all’erta, dall’altra tende con tutte le sue forze a essere riconoscibile. Le piccole trappole che può disseminare lungo un suo testo (come i due esempi che ho raccontato prima) sono in realtà amichevoli. Significative ma non punitive. Auster non è Nabokov: le sue opere non sono… come dire… “giudicanti” verso chi le legge e le traduce.
L'impressione è che Auster sia molto bravo a dissimulare la complessità dei suoi testi dietro una apparente semplicità. È d'accordo?Al pari di Irvine Welsh, Auster fa venir voglia di avere con sé o magari di redigere un companion, un libro-guida di riferimento a fatti e personaggi che appaiono e ricorrono nei suoi libri - come ne esistono in relazione a tanti serial letterari e cine-televisivi, da Catherine Dunnett a Star Trek...
Altroché! Ed è interessante (potrei anche aggiungere che mi indispettisce… mannò, sarebbe troppo…) come sovente l’opera del traduttore nelle versioni di Auster non mieta particolari riconoscimenti. Forse perché sparisce, passa inosservata. Invece lo ripeto: sempre di più con l’andare del tempo e il crescere della sua scrittura, i testi austeriani acquistano meccanismi perfetti. Che non consentono cali di tensione, neppure nel senso di rifarsi ai precedenti. Anche a questo proposito, un esempio: Auster crea effetti stranianti, di distanziamento dalla materia che tratta, usando cliché e modi di dire piatti, quotidiani, ma in un contesto sintattico “alto”o generalmente intellettuale. E qui non c’è scampo: in italiano bisogna trovare corrispettivi che abbiano anche una giustificazione ritmica. Insomma, una faticaccia. Bella, però!