Rai Cultura

Jan Brokken, I giusti

Una grande storia di coraggio

Ne I Giusti, Jan Brokken (Iperborea, traduzione di Claudia Cozzi) ricostruisce, attraverso viaggi e testimonianze di prima mano, la straordinaria impresa del console olandese Jan Zwartendijk, che nel 1940 a Kaunas, con la collaborazione del console giapponese Chiune Sugihara, firmò migliaia di visti per consentire a profughi ebrei di prendere la Transiberiana e fuggire dai nazisti, trovando riparo a Kobe e poi a Shanghai. Gli ebrei che rimasero in Lituania furono sterminati; Zwartendijk, che aveva escogitato il sistema dei visti per Curaçao, morì nel 1976 senza sapere se il suo sforzo avesse portato risultati. All’epoca dei fatti, Zwartendijk era il direttore della filiale della Philips e il titolo di console onorario gli era stato dato perché il suo predecessore era un filonazista e in quel momento la Lituania era sotto l’Armata rossa; decise di reagire a una situazione di grande pericolo adoperandosi per salvare più vite possibile. Il figlio Jan jr cercò di rintracciare i profughi e s’impegnò perché il padre ottenesse il riconoscimento internazionale per il suo operato. Riuscì a fare inserire il suo nome tra i Giusti solo nel 1997. Ora il libro di Jan Brokken ripercorre l’intera vicenda, dalla storia della famiglia Zwartendijk fino a quelle di alcune delle persone salvate dal console.

Era un uomo riservato. Non gli interessava il ruolo di eroe. Aveva paura come tutti in quei giorni. Ma l’odio e la violenza crescevano sempre di più e a quel punto non ha fatto finta di non vedere, non ha cercato scuse e ha preso le decisioni che doveva prendere.


Jan Brokken è nato a Leida il 10 giugno 1949. Jungle Rudy è stato il suo primo successo internazionale. Iperborea ha inoltre pubblicato Nella casa del pianista, sulla vita di Youri Egorov, Il giardino dei cosacchi, sul periodo siberiano di Dostoevskij, il bestseller Anime baltiche, Bagliori a San Pietroburgo, e I Giusti.


Di seguito la nostra intervista a Jan Brokken.


Nel suo romanzo lei scrive che tutti i Giusti hanno qualcosa in comune: “la volontà di fare davvero qualcosa. I comuni mortali dalla coscienza elastica stanno a guardare con le mani in mano o girano la testa dall’altra parte”. Il libro è anche un invito a reagire alle ingiustizie che ci circondano?
Assolutamente sì. Non è un libro cupo su un periodo cupo. È un libro sulla speranza. Nel 1940 il consule Jan Zwartendijk disse alla figlia di tredici anni e al figlio di undici anni riguardo ai rifugiati ebrei: “devo fare qualcosa. Se non lo faccio, queste persone andranno incontro a una morte certa”. Era determinato a fare qualcosa. Questo colpì molto i suoi figli, come colpisce noi adulti del ventunesimo secolo.


Quali sono gli aspetti che ha trovato più interessanti nel personaggio di Jan Zwartendijk e nel  comportamento che ha avuto nel 1940 a Kaunas in Lituania?
Prima di tutto: vide avvicinarsi il terribile dramma dell’Olocausto già dal 1940. La maggior parte della gente non vide o non volle vedere il pericolo. Ma un aspetto ancora più grande di Jan Zwartendijk è stato il modo trovò una soluzione per i rifugiati disperati. Trovò un modo legale – o quasi legale – per aiutare questa gente. Trovò una via di fuga – attraverso la Transiberiana e il Giappone  - e un modo per finanziare questo lungo viaggio dei rifugiati. Guardate a quello che sta succedendo nel mondo in questi giorni: i rifugiati non ricevono aiuto, anzi vengono derubati e mandati a morire su barche fatiscenti. Jan Zwartendijk è stato più che un eroe, è stato 
un uomo brillante, capace di trovare soluzioni.


Jan Zwartendijk non avrebbe potuto salvare nessuno se non avesse trovato la stessa sensibilità nel console giapponese Sugihara. Questa è anche la storia di una preziosa collaborazione tra due uomini che non si conoscevano e della loro fiducia reciproca?
È stata una grande operazione di salvataggio, sono stati salvati tra seimila e diecimila uomini, donne e bambini. Un esodo così enorme, che attraversò paesi diversi – la Lituania, l’Unione Sovietica, il Giappone, Shanghai - non si può organizzare da soli. Senza l’aiuto del console giapponese Sugihara sarebbe stata impossibile. Questa operazione è un esempio di cooperazione internazionale. Sugihara agì spinto da pietà cristiana, mentre non ho trovato in Zwartendijk convinzioni religiose o politiche. Le sue ragioni furono solo umanitarie. “Se non lo faccio, loro sono perduti”. Si prese le sue responsabilità, le sue responsabilità umane e morali. Bello, no? Il figlio più giovane mi ha detto che il padre si chiedeva costantemente cosa significasse essere una brava persona.


Perché Zwatendijk non fu incluso nei Giusti fino al 1997?
Per molte ragioni. Quello che fece e come lo fece non era noto. Si pensò anche che non avesse messo a rischio la sua vita. Ebbe un richiamo dal ministro olandese per gli affari esteri nel 1964: non si era attenuto strettamente alle regole. A lui di questo non importava, fino alla sua morte nel 1976, volle solo sapere cosa era successo ai rifugiati. Dove erano finiti? Si erano salvati? È crudele che la risposta venne il giorno del suo funerale.


Per scrivere questo libro lei è stato in molti paesi e ha parlato con molta gente. Quanto è importante avere testimonianze di prima mano e cosa succederà della storia dell’Olocausto quando gli ultimi testimoni oculari saranno morti?
Ho scelto di non dare solo un volto e una storia ai salvatori ma anche ai salvati. Naturalmente non a tutti, ma a circa quindici persone. Adulti, uomini e donne, ma anche bambini, Marcello (che aveva 13 anni quando lasciò la sua casa in Polonia), Masha (12 anni), Nina (12 anni, 17 quando lasciò Shanghai). Marcello ora ha 93 anni, l’ho incontrato l’anno scorso in Vilnius per l’ultima volta, Masha è morta a New York, Nina è ancora viva a Gerusalemme. Un giorno tutti questi testimoni non ci saranno più. Io ho assunto l’incarico di raccontare le loro storie anche perché sono storie di speranza, che invitano a non perdere la fede nel futuro. Le loro storie mi hanno scaldato l’anima. I Giusti è una lezione di bontà, data da persone che hanno vissuto una situazione disperata ma non si sono lasciate abbattere.