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Il diavolo in Francia secondo Enrico Arosio

Il diavolo in Francia secondo Enrico Arosio

Il romanzo di Lion Feuchtwanger

È probabile che il nome di Lion Feuchtwanger non dica molto al lettore italiano di oggi. Eppure quest'autore tedesco ha goduto di grande popolarità e successo internazionali negli anni venti e trenta del secolo scorso, soprattutto grazie al romanzo Süss l'ebreo e alla trilogia dedicata a Flavio Giuseppe. Oggi possiamo però riscoprirlo attraverso le pubblicazione presso Einaudi del Diavolo in Francia, in cui racconta la sua prigionia e poi la sua fuga da un campo di internamento in Provenza, dove fu rinchiuso, proprio lui che era scappato dalla natia Germania per via dei nazisti. Cronaca di una vicenda paradossale, grottesca, se non fosse anche drammaticamente vera, il libro non è solo preziosa testimonianza storica, ma anche un appassionante viaggio in un piccolo inferno di un'Europa ormai precipitata nel baratro. Un viaggio che il lettore non dimenticherà facilmente, anche grazia allla prosa lucida, razionale, acuta e persino ironica di Feuchtwanger. Uno stile asciutto, privo di retorica e autocommiserazione, "in cui l’autore riesce a vedere se stesso con l’occhio di uno scrittore e non di una vittima".

RaiLetteratura ha scelto di farsi giudare alla scoperta di questo testo dal curatore e traduttore, Enrico Arosio, che con pazienza ha a lungo cercato un editore per questo libro, fino al felice incontro con la casa editrice Einaudi.

Di chi in Europa faceva la bella vita, si usava dire che viveva "come Dio in Francia". Ma nel 1940 anche il diavolo non doveva passarsela malaccio.


Lion Feuchtwanger nasce a Monaco nel 1884 in una famiglia ebrea osservante. Studia filosofia e filologia: nel 1907 si laurea con una tesi su Heine. L'anno dopo fonda una rivista culturale, Der Spiegel. Nel 1918 stringe con Bertolt Brecht un'amicizia che durerà tutta la vita. Dopo alcune scritture per il teatro, nel 1925 arriva al successo con il romanzo Süss l'ebreo, tradotto in molte lingue. Nel 1932 prende parte a un ciclo di conferenze in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. È ancora all'estero quando Hitler va al potere, nel gennaio del 1933. Decide di non tornare in Germania: con la moglie Marta si stabilisce in Francia, a Sanary-sur-Mer. Nel 1933 esce un altro romanzo di immediato successo internazionale: I fratelli Oppermann. Fra il 1936 e il 1937 compie un viaggio nella Russia staliniana. Al ritorno in Francia pubblica un reportage molto favorevole al sistema sovietico. Nel 1940 viene internato in un campo per cittadini tedeschi o, come lui che era stato privato della cittadinanza, apolidi provenienti dalla Germania. Dopo alcuni mesi riesce a fuggire con l'aiuto della moglie, raggiunge la Spagna e poi gli Stati Uniti. Muore a Los Angeles nel 1958.


Enrico Arosio, le chiederei anzitutto di presentare brevemente ai lettori italiani Lion Feuchtwanger, scrittore di grande successo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ma oggi dimenticato.

È vero, è stato a lungo un autore dimenticato. Purtroppo. Alcuni suoi romanzi anteguerra come Successo, Süss l’ebreo e I fratelli Oppermann, avevano conquistato un pubblico internazionale, anche in America. In Italia Feuchtwanger era pubblicato nella celebre collana “Medusa” di Mondadori. Primo Levi, per citare un caso illustre, nel suo Sistema periodico scrive che fu la lettura dei Fratelli Oppermann ad aprirgli gli occhi sul pericolo reale di un’Europa sotto la svastica. Feuchtwanger era così tradotto e letto che negli anni del suo esilio in Francia (1933-40) riuscì a mantenersi grazie ai diritti d’autore, caso raro tra gli scrittori emigrati. 

Ne Il diavolo in Francia centrale si presenta il ruolo della Francia e soprattutto della sua ottusa macchina burocratica. A finire sul banco degli imputati sono infatti la sciatteria, l'incuria, la colpevole ignavia, la pigrizia, che però costano carissime a chi ne patisce le conseguenze. Viene in mente Hanna Harendt; pensa che questa pigrizia di cuore e azione dei francesi sia riconducibile alla "banalità del male"?

L’autore descrive il campo d’internamento di Les Milles, in Provenza, e i militi francesi a tratti con durezza e sarcasmo, ma non inventa nulla. La cosiddetta “Francia libera”, dopo l’armistizio e il tracollo dell’esercito, era uno staterello collaborazionista retto da un governo-fantoccio. Quella è la cornice. I soldati che sorvegliano, ora con incuria ora con cattiveria, duemila esuli di lingua tedesca, in gran parte ebrei, tra cui tanti oppositori di Hitler che nella Francia avevano creduto di trovare la salvezza, sono visti da Feuchtwanger in duplice chiave: sono rotelline di un ingranaggio che li sovrasta, ma anche simboli del tradimento francese ai danni degli antifascisti mitteleuropei. In questo senso, sì, è la "banalità del male". Il male inflitto dai mediocri. Del resto, Il Diavolo in Francia si svolge nell’estate 1940: la Resistenza francese, quella vera, doveva ancora nascere.

In questo senso Il Diavolo può essere considerato una testimonianza storica di prima mano, oltre che un’opera letteraria? 

Sì, ne sono profondamente convinto. Questo testo autobiografico (che uscì in primissima edizione in lingua inglese, a New York nel 1941, e in tedesco a Città del Messico nel 1942) è una preziosa testimonianza storica. Un testo importante della “letteratura dell’esilio” di lingua tedesca, cronaca della sopravvivenza in un campo di prigionia francese. Io lo avvicinerei a un libro molto importante di Arthur Koestler, il celebre giornalista ebreo ungherese: Schiuma della terra, che si svolge nel medesimo fatale 1940. Ricordo che il tema imbarazzante del collaborazionismo è stato a lungo rimosso dalla società francese. E aggiungo che Les Milles (da dove nel 1942 duemila ebrei mitteleuropei furono inviati a Auschwitz) è oggi l’unico campo francese restaurato e visitabile in un percorso museale: l’unico.

La storia narrata è spesso paradossale, al limite dell' assurdo. In certi momenti vien da pensare a Beckett o a Buzzati. Ad esempio quando i prigionieri finiscono per spostare inutilmente mattoni da una parte all'altra mentre si attende l'arrivo di una fantomatica commissione che dovrebbe selezionare e smistare i detenuti e che non arriverà mai. Concorda?

È vero, la vicenda è paradossale. La commissione che dovrebbe scegliere chi far fuggire, chi mantenere al campo, è quasi una sfuggente autorità kafkiana. E l’assurda avventura del convoglio di prigionieri in fuga verso l’Atlantico è una cronaca piena d’angoscia e di minuziosi dettagli. Ma, al tempo stesso, Il Diavolo in Francia è una narrazione dagli accenti biblici. Il leggendario esodo degli ebrei d’Egitto è un riferimento ben presente, che l’autore richiama più volte in passaggi toccanti.

Questo coinvolgente racconto autobiografico colpisce anche per la lingua: piana, analitica, quasi fotografica; razionale, nonostante la durezza delle situazioni vissute e descritte: inoltre stupisce per la mancanza di odio, rabbia, rancore. L'autore sembra osservare le cose con sbalordita sorpresa senza mai cedere al vittimismo. Non crede siano due tra le qualità migliori di questo testo?

È stato per me un piacere profondo tradurre in italiano il limpido tedesco di Feuchtwanger, così lucido, mai stravolto dalle emozioni, che certo non mancano. Colpisce il lettore la finezza da psicologo con cui tratteggia i compagni internati: dall’erudito viennese mattoide al borghese ridotto a pezzente coperto di stracci. Del resto, il nostro aveva familiarità con la dottrina di Freud. Ma stupisce anche l’assenza di odio e di rancore. Il suo sguardo, pur nella sofferenza, è uno sguardo da umanista, che non cova ira o vendetta, ma cerca di ragionare, di immedesimarsi nell’altro. Di individuare anche tracce minime di bontà e giustizia.

È quasi impossibile leggere oggi Il Diavolo in Francia senza pensare ai tanti disperati, spesso apolidi, braccati, costretti alla fuga per cercare una via di salvezza, di cui le cronache di questi anni sono piene. Quali riflessioni sull'oggi  pensa che possano ispirare queste pagine scritte oltre settant'anni fa in piena Seconda Guerra Mondiale?

 Agli occhi di oggi, del nostro mondo turbato da nuove migrazioni, guerre civili, violenze etniche, Il Diavolo in Francia è un monito. Ci esorta a non dimenticare che cosa è stato il XX secolo in Europa. Il tema dell’esule, dell’individuo strappato alla propria “Heimat” - uso la bella parola tedesca per “terra natia” -  si è riproposto a ondate dal 1945 a oggi: dai profughi tedeschi dall’Est Europa all’espulsione degli italiani dalla Libia, dai massacri nei Balcani alle fughe dei disperati dalla Siria. In questo senso, il cosiddetto “secolo breve” continua a mostrarci le tracce  delle sue ferite.