Rai Cultura

Le note di sala del concerto n. 2 stagione 2025/2026

15 e 16 ottobre 2025, Auditorium Rai Torino

Leoš Janáček
Lachische Tänze (Danze Lachiane)

Il Pestalozza, vero e pressoché unico specialista italiano di Janáček, ci ha spiegato come l’evoluzione del musicista moravo si accompagni perfettamente alla sua concezione sociale: e da questa equazione il nazionalismo musicale può trovare il superamento di un vecchio dato descrittivo o narrativo (spesso retorico o «di colore») in una moderna dimensione epico-drammatica. Infatti, lo stesso musicista confessava di sentire un accordo musicale come espressione di sentimenti contrastanti, come «aggregato di emozioni», cosicché una serie di accordi diventava un vero e proprio «dramma». Quanto al folclore, prima di lui (ossia in Smetana o in Dvořák) esso era stato l’approdo del vecchio sistema diatonico a connotati nazionalistici: invece con Janáček il dato popolare diviene lo schermo attraverso il quale la crisi latente della tonalità diventa crisi della vecchia concezione romantica. Ecco che l’analisi ravvicinata del patrimonio popolare (analogamente a quanto Bartók compie in Ungheria) lo indica come struttura armonicamente libera, come proliferazione di gamme armoniche insolite e nuove, come riproduzione ritmica delle inflessioni melodiche della stessa lingua parlata, dei valori fonici della parola.
Di qui la continua invenzione, la fantasia rapsodica, la nervosa impazienza di un linguaggio musicale che s’adatta e fin s’identifica col discorso parlato, con tutti i suoi arresti (ovvero i «rubato») e le sue precipitazioni, le sue sospensioni e le sue apostrofi: fattori che, traducendosi in musica, assumono l’aspetto di figurazioni acerbe, in un certo senso adolescenti: tutto insomma si configura in uno studio (come ha scritto uno dei primi cultori italiani del musicista, il Gavazzeni) «che vien prima dei sensi»
Queste considerazioni generali si mostrano pertinenti anche e proprio esaminando la raccolta (pubblicata anche in versione pianistica) delle sei Danze Lachiane che, sebbene composte tra il 1888 e il 1890, appartengono alle opere giovanili del compositore moravo. In esse Janáček si riferisce al patrimonio popolare della sua regione natale ed esattamente ai distretti moravi della Valacchia e della Lacchia: e ne escono pagine dall’orchestrazione vivida e sapiente che elaborano spunti popolari citati quasi letteralmente. La differenza, rispetto alle Danze slave del pur stimato Dvořák, consiste in questa vera aderenza al folklore, che esce da un tratto generico per evidenziare una spiccata predilezione ritmica nonché un’armonizzazione ricca di continue alterazioni: caratteri nuovi ma evidentemente non graditi a Dvořák il quale, uditi questi pezzi, raccomandò a Janáček di usare «più melodia» e di non «temerla». Ma il folclore moravo, come ci ha spiegato lo Štědroň, differisce da quello boemo per esser più frammentario, più rapsodico e soprattutto meno lirico. Rispetto al folclore culturalizzato di Smetana e di Dvořák, quello usato da Janáček presenta tratti subito individuali, basati sull’insistita ripetizione ritmica, su una densità stratificata di varie figurazioni tematiche e timbriche, sulla presenza di cellule melodiche in continua trasformazione: che sono i primi passi verso il linguaggio aspro, incisivo e potentemente drammatico quale, si manifesterà nella produzione matura del musicista moravo. La cui invenzione si basa sempre su una sottile ed innovativa ricerca armonica, capace di elevarlo a personaggio saliente nel panorama del primo Novecento europeo.

Ecco il tono festivo e rustico della prima danza «L’Antica» che, nelle sue varie sezioni, realizza una cruda armonizzazione non scevra di presagi (o recuperi) modali, capaci di infirmare il vecchio concetto tonale anche con certe suggestioni arcaiche, siglate dagli interventi dell’arpa e della lira. Arguto, con risvolti ritmicamente rudi e primitivistici, è il clima de «La Benedetta», ove il predominio ritmico, che varia anche armonicamente il discorso, conduce ad un crescendo entusiasmante prima della conclusione quasi mistica per la presenza di campane ed organo. Nessuna o quasi concessione è affidata al consueto e facile sentimentalismo slavo, come si nota soprattutto nella terza danza Dymák, scalpitante e selvaggia, col suo incedere festoso e furioso che conferisce alla citazione folclorica un contenuto icastico e primitivo, come nell’acme centrale sottolineato dal lampeggiante temino dei flauti. Più espressiva la seguente danza «L’Antica», affidata melodicamente ai corni in un contesto dapprima glabro e poi più avvolgente per l’intervento degli archi, ove nella conclusione si segnala un bel motivo orientaleggiante esposto dall’oboe e dal flauto: che è una chiara anticipazione della futura tendenza «panslavistica» di Janáček.
Ancora accenti esotici ed arcaici emergono dal contesto modale della successiva danza Celadensky, dopo l’avvio ruvidamente brioso ripreso nella conclusione, quando, il discorso si enfatizza con accenti fin burbanzosamente bandistici, ad esprimere lo schietto e sempre realistico (né nostalgico né sentimentale) umorismo che è cifra costante di tutta la miglior creazione janacekiana
Accenti di filastrocca popolare (ma anche qui sempre esentati da ogni riflessione sentimentale, da ogni melensa ed addomesticata confezione occidentalizzata presente invece in Dvořák) animano l’affettuosa e discorsiva sesta ed ultima danza, anch’essa non scevra fin dal furtivo inizio di uno schietto umorismo che gradatamente cresce e tracima pervadendo la sezione conclusiva di violente accelerazioni fino alla chiusa giovialmente fragorosa.

Sergio Martinotti
(dagli archivi Rai - programma di sala del 16 novembre 1984)



Béla Bartók
Il mandarino meraviglioso
Suite da concerto, BB 82a, SZ 73b

Il debito del grande Novecento musicale verso la danza è incalcolabile. Come molti altri compositori prima e dopo di lui, da Igor Stravinskij a Claude Debussy, da Maurice Ravel a Sergej Prokof’ev, Béla Bartók ha dato uno dei suoi maggiori contributi al repertorio sinfonico con una partitura nata appunto per la danza. Il caso del Mandarino meraviglioso è leggermente diverso da quasi tutti gli altri, visto che l’idea originaria non era venuta da un impresario geniale, ma da un’iniziativa personale dello stesso Bartók. Prima di trasferirsi negli Stati Uniti per lavorare con notevole successo come sceneggiatore di film di Hollywood, fornendo fra l’altro a Ernst Lubitsch i testi di Ninochka e Angelo, il drammaturgo e giornalista ungherese Melchior Lengyel (ma il vero nome era Menyhért Lebovics) aveva pubblicato nel 1916 sulla rivista “Nyugat” (Occidente) la “pantomime grotesque” (così il sottotitolo in francese) A csodálatos mandarin. Nella primavera del 1918 Bartók si incontrò con lui, deciso a ricavare da quello scenario una partitura destinata alla danza; un anno più tardi la maggior parte della composizione era pronta. Ci fu poi una lunga interruzione, segnata da molte difficoltà, finché il 27 novembre 1926 si andò in scena a Colonia.

Il titolo in tedesco suonava Der wunderbare Mandarin: la traduzione letterale italiana ormai entrata nell’uso è Il mandarino meraviglioso; qualcuno peraltro suggerisce “miracoloso”, o “prodigioso”. Erano passati dieci anni dalla pubblicazione del testo di Lengyel, pochi meno da quando Bartók aveva concepito la sua musica, e di fatto la grande stagione dell’Espressionismo che le aveva fatto da sfondo era ormai trascorsa.
Ma il Mandarino manteneva tutta la sua carica provocatoria
Il soggetto, considerato scandaloso, scatenò polemiche vivaci: le reazioni bigotte culminarono nel divieto di ulteriori rappresentazioni emanato dal sindaco di allora, Konrad Adenauer, futuro cancelliere della Repubblica Federale tedesca.

La cornice è quella dell’orrore urbano e dell’emarginazione sociale tanto spesso evocati dall’arte del primo Novecento: tre teppisti obbligano una ragazza ad adescare dalla finestra gli uomini che passano in strada e ad attirarli nel loro covo, per rapinarli. Cadono via via in trappola un vecchio damerino squattrinato, un giovane altrettanto povero, che i tre delusi buttano fuori brutalmente, e finalmente un ricco cinese. La ragazza vince a stento l’orrore per quel personaggio misterioso e sinistro e cerca di intrattenerlo danzando, ma da ultimo si sottrae al desiderio sempre più prorompente di lui. I tre teppisti aggrediscono il Mandarino e cercano di soffocarlo e accoltellarlo, ma invano: il cinese, prodigiosamente, non muore e continua anzi a divorare la ragazza con lo sguardo. Solo dopo che la ragazza lo avrà soddisfatto potrà cadere a terra senza vita.
Non meno scandalosa della trama poteva sembrare la scelta stilistica di Bartók: che complici la gestualità e la plasticità richieste dall’azione e un’inventiva strumentale sulfurea, applicata a un’orchestra ampia e ricca di colori, crea prospettive stravolte e violenze foniche ancora prossime al maggior Espressionismo di inizio Novecento e agli anni Dieci che ne avevano visto la gestazione
A imporre Il mandarino come il capolavoro sinfonico più smagliante di Bartók fu la sintesi da lui stesso ricavata poco più tardi, più una versione abbreviata che non una vera Suite: circa due terzi della partitura, con qualche taglio intermedio e la soppressione del finale. All’episodio introduttivo, pittura musicale aspra e inorridita di una modernità angosciosa e alienante, seguono i tre “giochi di seduzione”, dei quali è protagonista la voce del clarinetto in passi fra i più geniali del suo repertorio; si chiude sullo scontro tutto inseguimenti e fughe fra il Mandarino e la ragazza. La forza primigenia del sesso e l’identità disumana del protagonista - chiaro il valore simbolico dell’etnia cinese, lontana e insolita - disegnano un dramma senza altro esito possibile che l’annientamento.

Daniele Spini
(dagli archivi Rai - programma di sala del 7 marzo 2024)



Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 2 in re maggiore, op.36

La storia compositiva della Seconda Sinfonia è abbastanza lineare. Dopo aver terminato la Prima, eseguita nell’aprile del 1800, Beethoven cominciò ad abbozzare una nuova sinfonia, che dopo qualche interruzione fu terminata nel febbraio 1802. Il fratello Karl, che nel frattempo aveva cominciato a occuparsi dei suoi affari, cercò subito di piazzarla presso l’editore Härtel di Lipsia, ma non ottenne nulla.
Vendere musica sinfonica era difficile anche per Beethoven, molto richiesto invece per la musica pianistica
Lui stesso, a distanza di un anno (25 maggio 1803), scrisse all’editore Simrock di Bonn offrendo la Seconda Sinfonia a soli quattrocento gulden, quasi una svendita, rispetto a quel che chiedeva per le Sonate per pianoforte. Alla fine il lavoro fu pubblicato dal Bureau des arts et d’industrie di Vienna come Grande Sinfonie, con una dedica al principe Karl Lichnowsky. Nel frattempo la Sinfonia era stata eseguita in pubblico, il 5 aprile 1803 al Theater an der Wieden, nel corso di un concerto diretto da Beethoven con sue sole composizioni, assieme alla Prima, al Concerto per pianoforte in do minore (anch’esso in prima esecuzione) e all’oratorio Cristo sul Monte degli Ulivi. Il teatro era ancora gestito dal vecchio Schikaneder, librettista e produttore del Flauto magico. Lo scaltro impresario, che aveva mantenuto intatto il fiuto musicale, offrì a Beethoven un alloggio in teatro affinché scrivesse un’opera per lui, che sarà Fidelio. I legami tra Mozart e Beethoven non si fermano qui. La Sinfonia è dedicata a quello stesso principe Lichnowsky che era stato un tempo mecenate e amico intimo di Mozart. Nel 1800 Lichnowsky regalò a Beethoven un quartetto di strumenti ad arco, oggi d’inestimabile valore, che avrà avuto la sua parte nell’indurre Beethoven a comporre i capolavori che conosciamo.
 
Più complesse, invece, sono le vicende interiori che hanno accompagnato la composizione della Sinfonia. Beethoven, alla svolta del secolo, è un compositore affermato, e la sua musica gode ormai di un riconoscimento che va di là dai confini viennesi. Dentro di sé, al contrario, una ridda di pensieri angosciosi gli squassa la mente: il timore della sordità, le delusioni sentimentali, lo spettro della solitudine. A trent’anni Beethoven traccia un bilancio personale fallimentare, nonostante la consapevolezza delle sue qualità artistiche. Questo fosco quadro psicologico è rispecchiato nel cosiddetto ‘Testamento di Heiligenstadt’, una lettera, mai spedita, ai fratelli Johann e Karl trovata tra le carte di Beethoven dopo la scomparsa. Porta la data 10 ottobre 1802:
O voi uomini, che mi ritenete o mi fate passare per astioso, folle e misantropo, come siete ingiusti con me! Voi non conoscete le segrete ragioni di ciò che vi sembra. Il mio cuore e il mio spirito erano inclinati, sin dall’infanzia, al dolce sentimento della bontà. Fui sempre teso a compiere grandi opere. Ma pensate che, ormai da sei anni, sono caduto in una condizione disperata; che questa situazione mi si è andata aggravando per colpa di medici insensati e che, anno dopo anno, mi sono illuso nella speranza di un miglioramento e, infine, costretto alla prospettiva di un male duraturo, la cui guarigione richiederà forse anni, se non è addirittura impossibile. (...) Poco mancò che io stesso non mettessi fine alla mia vita. Soltanto lei, l’Arte, mi ha trattenuto. Mi sembrava impossibile dover lasciare il mondo prima di aver compiuto tutto quello per cui sentivo di essere stato creato
Queste poche frasi sono sufficienti a mettere in luce una personalità difficile da interpretare. Le ragioni di un simile sfogo sono più che comprensibili. La sordità rende penoso e in fondo tragicamente ridicolo un musicista, che si sente ovviamente smarrito e impotente. Ma il tono e lo stile teatrale sembrerebbero più consoni a una tragedia che a un documento privato. Mai Mozart o Haydn avrebbero pensato di rivolgersi per lettera all’umanità. Il punto non è se le parole di Beethoven sono spontanee o artefatte, né se il Testamento di Heligenstadt serva o no a comprendere le sue composizioni. Il tema su cui riflettere è l’atteggiamento espresso in questa lettera, e quale riflessi abbia negli sviluppi stilistici della sua musica.

Il re maggiore, innanzitutto, è una tonalità sonora. Gli archi hanno tonica e dominante nelle corde vuote, flauto e oboe sfruttano al meglio le risonanze, i timpani intonano più facilmente. Un’orchestra sonora è naturalmente adatta alla musica en plein air, perciò molti divertimenti, cassazioni, serenate del Settecento sono in re maggiore. Anche la Seconda è caratterizzata da uno stile musicale che nasce all’aperto. Nel suo caso, però, non si tratta di eleganti giardini e cortili di palazzi, bensì di maschie piazze d’armi e campi marziali. La banda militare fa capolino dietro le robuste interpunzioni del ritmo, il passo di marcia suggerisce i temi squadrati e gli arpeggi angolati delle melodie, la concitazione dell’Allegro molto finale suggerisce la cronaca di una battaglia. Persino nell’incantevole e sentimentale Larghetto s’insinua un ritmo alla polacca, come un addio notturno tra una bella signora e un ussaro in partenza per la guerra. 
La musica militare, sviluppatasi moltissimo dopo la Rivoluzione francese, ha influenzato certamente Beethoven, come hanno chiarito diversi studiosi. Ma si tratta naturalmente solo di una coloratura di stile, utile per capire da dove provengono certi materiali. Non vi è alcun programma letterario o filosofico nascosto in questa Sinfonia, che si regge esclusivamente sulla logica della forma di sonata. Vi è però un diverso atteggiamento di Beethoven nel modo di trattare la forma, rispetto ai modelli sinfonici di Haydn e Mozart, ed è qui che la Seconda Sinfonia compie uno scarto con i suoi precedenti lavori, compreso il gemello Concerto per pianoforte in do minore, uno stacco destinato a diventare una vera cesura con la successiva l’Eroica. 

La nuova fase beethoveniana emerge chiaramente fin dalle prime battute. Beethoven introduce il classico Allegro di sonata con un Adagio molto, un procedimento consueto anche in Haydn. Ma l’intenzione di Beethoven sembra un po’ diversa. Dopo la strappata di re maggiore in anacrusi a tutta orchestra, oboi e fagotti dettano una piccola frase, la cui risoluzione armonica è ritardata con un’enfasi sproporzionata alla logica del suo petit rien. Questo gesto retorico è ripreso e ampliato dal trillo dei violini, che entrano preceduti da una piccola fanfara di fiati. Una successiva modulazione, ricca di espressive appoggiature armoniche e di sforzati, porta all’imprevedibile tonalità di si bemolle maggiore. Questo episodio è congegnato come una descrizione ciceroniana dei diversi stati d’animo di una folla radunata di fronte a un oratore. L’orchestra combina insieme una varietà di elementi ritmici e melodici distinti tra loro, che sfociano infine in un assertivo accordo di re minore ribattuto dall’orchestra al gran completo. La parte finale di questa introduzione ruota attorno a una frase anch’essa caratterizzata da un gesto patetico, una doppia appoggiatura sul movimento forte della battuta, e da una serie di accordi in sforzato preceduti da trilli. In altre parole, l’Adagio introduttivo ruota attorno a una sequenza di gesti attinti dalla retorica del teatro musicale, dell’opera seria riformata da Gluck in particolare. L’ars oratoria profusa nel "Testamento di Heiligenstadt" si ritrova, dunque, anche nella musica di questi anni. Non c’è spazio, purtroppo, per esaminare dettagliatamente i numerosi gesti musicali sciorinati da Beethoven in questa sinfonia, ma bisogna citare almeno il più sorprendente, quell’arpeggio di fa diesis maggiore suonato all’unisono dagli archi nel Trio dello Scherzo, la cui unica funzione è quella di preparare, con un’enfasi quasi violenta, finora ignota alla musica strumentale, il ritorno della melodia bucolica degli oboi.
Ecco cosa aveva scoperto di nuovo Beethoven, studiando in quegli anni di personale disperazione le partiture delle opere parigine di Cherubini, la possibilità di recuperare gli elementi retorici dello stile antico nell’espressione delle passioni
Lo spirito della Rivoluzione aveva risvegliato a nuova vita le antiche virtù repubblicane, il valore individuale, il sacrificio per un’ideale superiore, la superiorità spirituale rispetto alla condizione sociale. Rivivere le passioni dei grandi uomini dell’antichità non era più un esercizio di stile accademico, ma poteva significava mettere in gioco la vita stessa. È questa nuova coscienza, che le parole avessero recuperato davvero la distanza con le cose, che permette a Beethoven di sentire la forza interiore per riunire anche il linguaggio musicale, già portato a perfezione da Mozart e Haydn, all’intima sostanza della vita.

Oreste Bossini
(dagli archivi Rai - programma di sala del 20 settembre 2020)



I biglietti del concerto del 15 e 16 ottobre 2025 sono disponibili anche online