Jannis Kounellis si racconta

Il rifiuto dei mezzi tradizionali

Jannis Kounellis a vent'anni lascia la Grecia, dove è nato, per trasferirsi in Italia dove ha contribuito al rinnovamento dell'arte negli anni Sessanta. Quando Kounellis allestisce la sua prima personale italiana alla Galleria La Tartaruga, nel 1960, ancora frequentava l'Accademia, ma aveva già chiaro dove sarebbe arrivato: al coinvolgimento del pubblico, fondamentale per completare l'opera d'arte. La sua ricerca, iniziata dal quadro nudo e puro, sfonda i limiti della pittura e sfocia presto nel rifiuto dei mezzi tradizionali. Il passo successivo e la svolta definitiva sono la performance e l'uso di materiali organici e inorganici, che rimandano comunque alla realtà, come ferro, legno, carbone, iuta, animali vivi, brandelli di carne. Nel 1969 espone dei cavalli vivi da Fabio Sargentini, a Roma, e rappresenta il conflitto ideale tra cultura e natura, in cui l'artista è ridotto al ruolo marginale di artefice e l'opera si realizza nella partecipazione e nella relazione tra pubblico e opera.
Nell’intervista, è Kounellis a parlare della sua esperienza e dell’importanza fondamentale, per l’artista, dei presupposti ideologici dai quali deve prendere le mosse la ricerca artistica.

Io penso che l’errore sia di prendere troppo sul serio il progresso. Il problema sta nella nostra ipocrisia, nei nostri interessi. La gente avverte certe necessità solo perché indotta. Non si può chiedere a un abitante dell’Amazzonia di essere come un cittadino di New York che gioca in borsa. E’ la nostra violenza che produce questi effetti.  E la globalizzazione è lo strumento estremo di tale pratica. Rende tutti uguali: apparentemente, però. E, in fin dei conti, è una bolla di sapone.
Jannis Kounellis