"Arte e Poststoria" di Demetrio Paparoni e Arthur C. Danto

"Arte e Poststoria" di Demetrio Paparoni e Arthur C. Danto

Un libro sulla fine dell'estetica e altro

"Arte e Poststoria" di Demetrio Paparoni e Arthur C. Danto
Abbiamo incontrato una delle voci più autorevoli della critica d'arte italiana,  il saggista, critico d'arte e curatore Demetrio Paparoni per parlare con lui del suo nuovo volume Arte e Poststoria. Conversazioni sulla fine dell'estetica e altro,  (Neri Pozza, 2020), ideato insieme a Arthur C. Danto (1924 -2013).

Dalla fine degli anni ottanta e fino a poco tempo prima della sua morte hai ripetutamente incontrato Arthur Danto per visitare mostre nelle gallerie o studi di artisti insieme. In quegli anni avete anche collaborato. In cosa consisteva la vostra collaborazione?

Demetrio Paparoni: Negli anni Novanta sono stato editore e direttore della rivista d’arte contemporanea Tema Celeste che aveva anche un’edizione americana. Nonostante i suoi libri e nonostante fosse il critico d’arte di The Nation Danto era allora poco conosciuto in Italia. Gli spedii una copia della rivista chiedendogli un appuntamento. I suoi testi erano inediti in italiano, questo mi diede l’opportunità di pubblicarne molti sull’edizione italiana della rivista che dirigevo. Nel 1992 ho pubblicato, come editore, la prima edizione italiana di The Philosophical Disenfranchisement Of Art. Trovare una corretta traduzione in italiano di quel titolo fu un’impresa. Alla fine, dopo essermi confrontato con lui, mandai il libro in stampa con il titolo La destituzione filosofica dell’arte  con un’opera di Sean Scully in copertina. Eravamo entrambi amici di Scully ed entrambi lo ritenevamo uno dei pittori viventi più interessanti. Con Danto ci sentivamo spesso e abbiamo molto dialogato anche per fax prima e per e-mail dopo. Un altro pittore astratto a lui caro e amico comune è stato David Reed. 


Sean Scully, Arthur C. Danto e Demetrio Paparoni alla John Good Gallery, New York, in occasione della mostra La meta sica della Luce, a cura di Demetrio Paparoni, novembre 1991. Alle loro spalle: Sean Scully, Catherine, 1989, olio su tela, 259,1 × 345,4 cm. 
 
Anni di scambi di punti di vista sull’arte con uno dei critici e filosofi più letti dell’era postmoderna rendono questo libro un punto di riferimento sia per chi si accosta all’arte contemporanea, al pensiero di Danto e al tuo, sia per chi gli argomenti trattati li conosce già. Nel testo introduttivo si evidenzia che ci fu un momento cruciale in cui egli mise a fuoco la sua personale teoria sulla fine dell’arte. 
 
D.P.: Danto non ha mai scritto e tantomeno pensato che non avesse più senso fare arte, che l’arte fosse morta. Nella prefazione al mio libro L’astrazione ridefinita scrisse che gli piaceva che io ritenessi che stavamo vivendo in un periodo storico in cui si stava facendo grande arte.  Secondo la sua tesi, con le Brillo Box esposte da Warhol nel 1964 alla Stable Gallery, l’arte ha destituito definitivamente il suo primato a favore della filosofia. Cosa portò a ritenere arte una copia in compensato quasi perfetta delle scatole di cartone accatastate nei supermercati contenenti delle confezioni di pagliette per pulire le pentole? Non c’era supermercato che non avesse le Brillo e non c’era donna americana che non le usasse. Ci si trovava dunque dinanzi a qualcosa di assolutamente banale sul piano puramente visivo. Danto evidenziò che la versione warholiana di quelle scatole incarnava un significato che stava alla filosofia indagare e chiarire. In altre parole: dinanzi all’opera non bastava più il colpo d’occhio e scavare nella sua narrazione, occorreva affrontarne il significato sul piano filosofico. Tutte le volte che si parla di morte dell’arte non si intende che l’arte sia morta, ma che ci troviamo dinanzi a una svolta, a un nuovo modo di intenderla. Ipotizziamo di trovarci in un museo dinanzi a tre opere: una scultura di Canova, lo scolabottiglie rovesciato di Duchamp e una Brillo Box di Warhol. Dal confronto di queste tre opere appare chiaro che non possiamo far riferimento al concetto di bellezza così come è stato elaborato dall’estetica dalla seconda metà del Settecento alla fine dell’Ottocento. Se un’opera nasce per lasciarci indifferenti, come teorizzato da Duchamp, allora anche l’estetica è morta. È morta con Duchamp prima, che però manipolava i suoi oggetti e dava loro un titolo; e muore di nuovo con le Brillo Box di Warhol, che invece si proponevano come la copia quasi fedele di qualcosa che esisteva già. Per le sue Brillo, Warhol non opera alcuna manipolazione della forma, né dà loro un titolo per caricarle concettualmente di senso. Esse sono “semplicemente” quel che vediamo. Da qui la domanda “cos’è l’arte?” posta da Danto.



Arthur C. Danto e Demetrio Paparoni mentre revisionano le loro conversazioni. New York 2011

Con Danto avete avuto in comune la passione per l’arte astratta degli anni novanta e insieme avete frequentato Sean Scully, astrattista americano di origini irlandesi che non ritiene però che i suoi quadri siano astratti.

D.P.: L’opera di Scully è stata una passione comune e per me lo è ancora. Non è un artista incline a caricare di discorsi filosofici la sua opera, ma certamente i suoi quadri sono carichi di significati che si è portati a leggere in chiave figurativa. Le sue geometrie riprendono la struttura delle città, ci parlano delle relazioni tra gli uomini. Le città, si sà, sono studiate in modo da facilitare queste relazioni. Ma il suo è anche un lavoro intriso di spiritualità. Uno dei suoi temi è l’anima.


Sean Scully, Any Questions, 1984-2005. Olio su tela, 259 x 324 cm. Courtesy dell'artista © Sean Scully.

In che misura Danto ha inciso nel tuo modo di intendere la critica d’arte? 

D.P.: Sono convinto che la critica d'arte sia una disciplina parallela ma non sovrapponibile all'arte. La critica d’arte non trova il suo senso nel promuovere o nel bocciare il lavoro di un artista, ma nel tentare di organizzare nuovi e imprevisti strumenti di conoscenza e interpretazione attorno all’opera. Non so se questo mi derivi dalle mie conversazioni con Arthur o dalla lettura dei suoi testi. Mi interesso di arte dal 1972, da quando avevo diciotto anni. Allora però non pensavo di fare il critico d’arte. D'estate viaggiavo per vedere concerti e mi piaceva andare per mostre. Dall’inizio degli anni ottanta sono stato editore e direttore di una rivista d'arte ben presto ritenuta importante a livello internazionale. La mia scuola di formazione non è universitaria: da ragazzo bussavo alla porta di personaggi come Emilio Vedova, Jannis Kounellis, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Arturo Schwarz, Tommaso Trini. All’inizio degli anni ottanta ho esposto tra gli altri il giovane Anish Kapoor, e questo ha cambiato la mia vita. Per buona parte degli anni ottanta, prima di conoscere Danto, ho avuto un approccio più istintivo con l’arte. Probabilmente è stato lui ad avvicinarmi a un modo di concepire la critica in chiave  analitica e a spingermi a cercare il significato delle opere nel confronto con altre opere. 

 Il ritratto di Demetrio Paparoni in copertina è di Ferdinando Scianna