Capogrossi: una testimonianza di Giulio Carlo Argan

Costanti e variabili del segno

Giuseppe Capogrossi arriva alla pittura astratta quasi cinquantenne, rinnovando totalmente il suo linguaggio quando già è al culmine di una carriera artistica come pittore figurativo. Protagonista negli anni Trenta e nei primi Quaranta della cosiddetta "Scuola Romana" approda dopo la guerra, con una svolta repentina, a una pittura di segno che non ignora l'esperienza figurativa pur manifestandosi come una netta cesura rispetto alla pratica precedente. Dopo aver dato prova di una grande raffinatezza nella figurazione e averne saggiato i limiti, decide di operare una semplificazione e una riduzione al fine di arrivare direttamente al cuore della pittura, concentrandosi sui problemi che ne costituiscono l'essenza. L'uso di un elemento sempre ripetuto, la classica forchettina, elimina alla radice il problema del soggetto e gli impone di concentrarsi sul colore e la composizione.

In questo filmato delle Teche Rai, trasmesso nel 1975, Giulio Carlo Argan, lo storico e critico d'arte che ha seguito più da vicino Capogrossi e che ne ha più profondamente ed efficacemente intepretato l'opera, analizza le qualità del nuovo segno con cui l'artista si era imposto dal 1950 nel panorama artistico internazionale, inaugurando il percorso verso l'informale.

Tra i pittori d'oggi tu sei uno dei pochi che si preoccupano assai più della forma che del quadro; e si rendono conto che, per salvare la prima, può essere necessario e mette comunque conto di sacrificare il secondo.

Nel 1967 viene pubblicata curata da Giulio Carlo Argan, insieme a Maurizio Fagiolo dell'Arco, un'importante monografia. Nel testo introduttivo Argan definisce la ricerca di Capogrossi come generatrice di un "sistema segnico, di comunicazione" e colloca la sua produzione nell'ambito della coeva ricerca strutturalista.
Secondo Argan il segno di Capogrossi è "una struttura costante con valenze plurime". Si tratterebbe in sostanza di una unità elementare che, ripetendosi e moltiplicandosi, rende possibile qualunque struttura compositiva, permettendo all'autore il massimo della libertà.

Il suo segno è come il mattone in architettura o in un gioco di costruzioni: pur essendo ogni elemento uguale all'altro le realizzazioni possibili sono infinite. Anziché essere una costrizione, la ripetizione diventa così un inno alle infinite possibilità compositive; il segno trova nelle illimitate combinazioni e variazioni possibili la via per rendersi imprevedibile.

Questo è dimostrato con grande chiarezza dall'analisi dei singoli dipinti dell'artista romano, ognuno dei quali è differente e riconoscibile, ha una propria fisionomia e quasi una sua personalità. 
Nella presentazione al catalogo della grafica (1981), lo studioso sottolinea un ulteriore aspetto nella ricerca di Capogrossi: "sorprendiamo l’artista a giocare con carte e forbici, colla e scotch, ma in realtà con forme e colori. Già Schiller aveva capito che l’artista non è mai tanto serio come quando gioca; di Capogrossi potremmo dire che non è mai tanto se stesso come quando si identifica e riconosce nel colore e nello spessore, nel ruvido o nel lucido o nel trasparente delle carte che ritaglia ed incolla".

Giuseppe Capogrossi nasce a Roma il 7 marzo del 1900. Laureato in Giurisprudenza, si è sempre dedicato alla pittura. Nel 1923 frequenta la Libera scuola di nudo di Felice Carena, in quel tempo tra le più accreditate di Roma.
Tra il 1927 e il 1933 compie ripetuti soggiorni a Parigi dove elabora una pittura figurativa e tonale che si ricollega a fonti classiche italiane. Espone per la prima volta nel 1927 in una mostra collettiva alla Pensione Dinesen di Roma con Cavalli e Di Cocco; ancora con Cavalli, Cagli e Sclavi partecipa nel 1933 alla mostra nella Galleria Bonjean di Parigi, presentata dal noto critico Waldemar George che per primo si riferì a questo gruppo con il termine Ecole de Rome (da cui quello di Scuola Romana).D’ora in avanti partecipa a numerose mostre in gallerie private e spazi pubblici. Dagli inizi degli anni Quaranta avvia una trasformazione della sua ricerca pittorica: il colore si accende nelle gamme dei rossi, viola e arancio, e la pennellata si anima.
Con il graduale abbandono della figurazione, dopo un breve periodo di esperienze a carattere neo cubista (1947-1949), approda a un rigoroso e personale astrattismo caratterizzato da una unica forma-segno che coniugandosi in infinite variazioni arriva a costruire lo spazio del quadro, rappresentazione simbolica di una interiore organizzazione spaziale.

Espone le opere della sua nuova maniera in una famosa mostra nel 1950 alla Galleria del Secolo di Roma, poi alla Galleria Il Milione di Milano ed alla Galleria del Cavallino di Venezia.
In questo periodo ha inizio il rapporto con Carlo Cardazzo, titolare delle gallerie Il Cavallino di Venezia e Il Naviglio di Milano, che si definisce nella stipula di un contratto di esclusiva che avvia la diffusione e il commercio della produzione di Capogrossi anche all’estero.
Nel 1951 partecipa alla fondazione del gruppo Origine, con Ballocco, Burri e Colla e raggiunge la notorietà internazionale partecipando nel marzo 1951 a Parigi – unico italiano – alla mostra Véhémences Confrontées.
Nel 1954 viene pubblicata dalle Edizioni del Cavallino di Carlo Cardazzo, a cura di Michel Seuphor, la prima monografia dedicata all’opera di Giuseppe Capogrossi.
Dal 1940 diviene titolare dell’insegnamento di “Figura disegnata” al Liceo Artistico di Roma fino al 1966 anno in cui viene chiamato alla cattedra di “Decorazione” nella Accademia di Belle Arti di Napoli fino al 1970.
Nella sua lunga carriera artistica ottiene numerosi premi e riconoscimenti: nel 1962 con una sala personale alla XXXI Biennale di Venezia il premio per la pittura, ex aequo con Morlotti; nel 1971 il premio “Vent’anni di Biennale” alla Biennale di S. Paolo del Brasile e il Prix d’honneur alla Esposizione Internazionale dell’incisione di Lubiana.
Nel 1968 la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, diretta da Palma Bucarelli, dedica un’intera sala alle opere dell’artista; oltre ai dipinti già presenti nella collezione del museo vi vengono esposti i lavori donati da Renato Cardazzo in memoria del fratello Carlo scomparso nel 1963. Nel 1971 il Ministero della Pubblica Istruzione gli conferisce la medaglia d’oro per meriti culturali.