Capogrossi. Dietro le quinte. Seconda parte

L'invenzione del segno: 1950-1972

Vi sono ancora molte persone che rimpiangono il mio talento perduto, mentre i più benevoli si meravigliano della mia conversione alla pittura astratta. Io però sono convinto di non avere sostanzialmente cambiato la mia pittura, ma di averla soltanto chiarita. Fin da principio infatti ho cercato di non contentarmi dell’apparenza della natura: ho sempre pensato che lo spazio è una realtà interna alla nostra coscienza, e mi sono proposto di definirlo. Al principio ho usato immagini naturali, paragoni o affinità derivate dal mondo visibile: poi ho cercato di esprimere direttamente il senso dello spazio che era dentro di me e che realizzavo compiendo gli atti di ogni giorno.
La mia ambizione è di aiutare gli uomini a vedere quello che i loro occhi non percepiscono: la prospettiva dello spazio nel quale nascono le loro opinioni e azioni.
Giuseppe Capogrossi, 1955

Il filmato documenta la mostra Giuseppe Capogrossi. Dietro le quinte organizzata per i cinquant'anni dalla scomparsa dell'artista dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, a cura di Francesca Romana Morelli. In questa seconda parte la curatrice presenta la stagione astratta dell'artista, un linguaggio radicalmente diverso da quello praticato fino al 1949, in apparente discontinuità con la ricerca precedente.

Dalla fine degli anni Quaranta l'artista vive una profonda crisi che lo costringe ad un totale ripensamento della sua produzione. Capogrossi si dedica alla realizzazione di opere legate a uno stile neocubista; trascorre lunghi periodi di studio che lo portano ad abbandonare del tutto la pittura figurativa con risultati visibili nelle opere esposte nel 1948 alla XXIV Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia. E' l'ultimo stadio della transizione verso la conquista del nuovo linguaggio.
Nel gennaio 1950 apre alla Galleria del Secolo di Roma una mostra nella quale Giuseppe Capogrossi espone i quadri frutto delle sue ultime, intense, riflessioni. Le opere esposte sono composte attraverso  l'utilizzo di una forma -segno che diviene d'ora in poi la caratteristica distintiva della sua produzione. Corrado Cagli, autore della presentazione in catalogo, spiega questa nuova pittura attraverso richiami alla psicologia di Jung e alle prime forme di scrittura. La nuova produzione di Capogrossi, di respiro internazionale, trova negli anni Cinquanta adeguata collocazione all'interno delle coeve e più avanzate ricerche della pittura "informale" europea e americana, definizione utilizzata dal critico francese Marcel Tapié per descrivere lo stile di artisti come Pollock, de Kooning, Hartung, Mathieu. Nel 1952, il mercante d'arte e gallerista Carlo Cardazzo, che seguirà sempre attentamente la carriera di Capogrossi, inserisce il pittore romano all'interno del gruppo dello Spazialismo, una nutrita compagnia d'artisti, vicina alle idee epsoste da Lucio Fontana nel Manifesto bianco alla metà degli anni Quaranta.  

Anche lavorando in questo modo nuovo, continuavo a rispettare la regola delle arti visive basata da sempre su: linea forma colore

La rivoluzionaria visione dei contenuti pittorici maturata in questi anni è accompagnata da una nuova e più adeguata definizione e dal 1953, le sue opere fino ad allora denominate in maniera generica, ad esempio "composizione", o con titoli di tipo descrittivo, acquisiscono il titolo di Superficie seguito dal numero con il quale l'opera è registrata  nei documenti di catalogazione.  
L'alfabeto segnico, essenziale, rigoroso, inventato da Capogrossi è, all'apparenza, privo di regole: l'artista non sembra prevedere alcune direzione al suo motivo strutturale e desiderava, infatti, che le sue opere si potessero appendere o guardare anche capovolte o in orizzontale o in verticale, rispetto alla concezione originaria. Come spiega Giulio Carlo Argan, "il segno è una formula spaziale, che ha in sé le caratteristiche dello spazio: la curva dell’orizzonte mentre i segmenti che lo incontrano, sono i piani di visione".
La ricerca di Capogrossi si estende all'uso di materiali diversi e l'artista si dedica anche al collage come tecnica autonoma, materica, in cui sperimenta e mescola componenti diversi, cercando di conferire all’opera un effetto tridimensionale attraverso la sovrapposizione di trasparenze, carte lucide, talvolta di riciclo. 

La mostra romana Capogrossi. Dietro le quinte ha proposto una selezione di dipinti non esposti da lungo tempo come l’iconica Superficie 274 (1954). Inoltre, tra le opere Superficie 76 bis (1954-1958) i cui segni si dispongono in modo articolato, creando degli spazi vuoti che hanno un peso determinate nella struttura compositiva; l’essenziale ed enigmatica Superficie 538 (1961), caratterizzata da un piano nero che si incardina su rapporti e forze in atto nello spazio, potenziati dalle proprietà del colore e da sottili gradi di luminosità e di opacità dei pigmenti neri, interrotti diagonalmente da una fenditura bianca, su cui esercita una forza dinamica la combinazione di segni neri e di più grandi arancioni. Infine, Superficie 419 (1950 circa), imponente marouflage verticale il cui carattere bidimensionale è accentuato da una griglia su cui poggiano i segni grandi, che impongono un ordine ai segni più piccoli, e Superficie 106 (1954). L'opera  si può considerare una sorta di genitrice delle opere con formato ovale, non così usuale nella produzione di Capogrossi, che ne ha realizzate una ventina, in particolare tra il 1956 e il 1957. Il formato ovale ha una lunga storia: come osserva il critico Maurizio Fagiolo dell'Arco " è il formato dell'elelganza e della grazia e quindi il prediletto dai francesi fino a Braque e Picasso (che però lo intendono come formato continuo, in rotazione, come è ruotante e continua la loro figurazione)". .
Nella produzione di Capogrossi, rappresentata in mostra, anche una serie di  Rilievi bianchi, ideati dall’artista negli anni Sessanta, che dimostrano la sua inesauribile volontà di sperimentazione. Non ultimo, il grande arazzo Astratto (1963), ideato per la Turbonave Michelangelo.

Un Importante contributo critico nel delineare e illuminare la poetica del segno inventata da Capogrossi è offerto proprio da Maurizio Fagiolo dell'Arco, che così si esprime in un intervento del 1966: "C’è anche un impegno morale: rinunciare alla facile bellezza. La forma archetipa poteva essere raggiunta nel modo più scarno possibile: il bianco e nero. Inoltre la forma libera nasce direttamente dal quadrato: come dire la fantasia all’interno del rigore costrutttivo. E questo è contro quell’errore che crede alla arbitrarietà e casualità di queste opere [...]" 
    
In copertina: Giuseppe Capogrossi, Superficie 600 (dettaglio)1960, olio su tela – Galleria Nazionale