Claudio Damiani: poesia e percezione

La sinestesia e il ritorno alla natura

In questa intervista il poeta Claudio Damiani esplora una figura retorica che, tra fortune altalenanti, ha fatto della percezione e dei meccanismi percettivi il suo fulcro: la sinestesia. La sinestesia associa due termini che si riferiscono a due sensi diversi: un giallo squillante ad esempio, è una sinestesia molto comune, dove giallo riguarda la vista e squillante l'udito.

Già nel mondo antico, basti pensare alla Retorica di Aristotele, si indagarono quei casi della lingua che associavano in maniera non logica termini lontani tra di loro per esprimere ciò che il linguaggio ordinario non riusciva ad esprimere, ma che pure aveva un senso.

Figure retoriche le chiamiamo: sono tante, e sicuramente la principale è la metafora. Un classico esempio di metafora è Achille è un leone. Naturalmente, dal punto di vista logico, si tratta di un'espressione errata, perché un uomo non può essere un leone. In realtà la si può leggere Achille è (un uomo forte come) un leone, portando alla luce una qualità di Achille che difficilmente sarebbe emersa in modo così efficace e immediato. Sotto questo aspetto anche la sinestesia rientra nella grande famiglia della metafora, perché è capace di accostare sensazioni differenti creando un senso nuovo.

Nel mondo antico e nelle poetiche più classicistiche l'uso di tali figure retoriche era contenuto, perché l'arte veniva intesa come mimesis, ovvero come imitazione della natura. A partire dalla fine dell'Ottocento, invece, alcune correnti poetiche come il simbolismo e alcuni poeti come Baudelaire e Rimbaud fecero largo uso delle sinestesie.

Baudelaire cercava i legami segreti tra le cose (le famose correspondances), anche tra le più lontane e inaspettate, e apriva in tal modo la strada a un uso sempre più massiccio dell'analogia, che è una metafora più spinta, dove i termini sono più lontani, e l'astrazione rispetto alla logica e al mondo della normale rappresentazione è maggiore.


La poesia del ‘900 è dominata dall'analogia, con l'astrazione e a volte l'arbitrarietà che comporta, col desiderio di stupire, di dire cose nuove e di straniare. Come una corda che si tira troppo, e alla fine poi si spezza, nel secondo Novecento la poesia, un po' dovunque, è arrivata in molti casi a una sorta di afasia, con conseguente auto-segregazione dalla realtà e allontanamento del pubblico.

Verso la fine del ‘900, negli anni ‘70-‘80, c'è da parte di molti un ritorno alla natura, all'arte che manifesta la chiarezza, un desiderio di dire non tanto le relazioni segrete tra le cose, ma di chiudere dentro di sé la presenza delle cose stesse. Petrarca ad esempio ci parla solo di Laura come presenza nella poesia. Tornare dunque a una lingua semplice e logica, senza analogie e sinestesie, concentrata sulla cosa, sulla presenza, la cosa che con la sua semplice esistenza genera più stupore e meraviglia della sinestesia più bizzarra.