Morte e filosofia
Vittorio Alberti
In questa intervista Vittorio V. Alberti - professore di Filosofia a Roma presso la Pontificia Università Lateranense, e direttore della rivista on line “Sintesi Dialettica" - ci parla della connessione tra morte, mito, religione e filosofia.
La nascita della filosofia può essere descritta come il primo tentativo dell'uomo di dominare la morte. Prima della filosofia c'era il mito, inteso come qualcosa di reale, come lo stato delle cose. Ma il mito è poi risultato dubitabile, mentre la necessità di dare una risposta indubitabile contro l'orrore della morte ha generato la filosofia, che è la tensione verso la verità.
La filosofia attiva il ragionamento, l'argomentazione e l'aporia su tutti quegli oggetti, quegli argomenti, quegli elementi della vita che la doxa, ossia l'opinione comune, non indaga perché li dà per scontati. L'opinione comune, ad esempio, vede la morte come un dato di fatto, mentre la filosofia la analizza.
Bisogna distinguere la morte in sé e per sé dalla morte come fatto personale. Epicuro diceva: dove c'è la morte non c'è l'io, quindi non me ne devo preoccupare. La morte, dunque, è sempre dell'altro, non la posso concepire come un fatto mio perché nel momento in cui la subisco io non sono più. A meno che non si tratti di quella che i greci chiamavano la “bella morte”, ad esempio la morte in battaglia: in questo caso diventa un fatto mio e mi rende capace di morire, di includere la morte nella mia vita. Anche il pensiero è un “mettere a morte” qualcosa. Quando penso opero sempre una scelta, decido cosa includere e cosa no. Ciò che è escluso viene in qualche modo “ucciso”, messo a morte tramite un atto di volontà che entra a far parte della mia vita.
Tutti i discorsi e gli atteggiamenti intorno alla morte evidenziano la tensione verso la vita, l'angoscia della vita. La filosofia insegna a sopportare l'angoscia e la contraddizione: non offre una risposta definitiva e rassicurante sulla morte, a differenza del mito.
La risposta data dal cristianesimo, per chi crede, è ancora più spinta, perché la figura del Cristo, che muore sulla croce e risorge tre giorni dopo, offre un'ulteriore prospettiva riguardo la morte. Non è stato Nietszche a dire che Dio è morto, è stato il Vangelo. Il cristianesimo ha introdotto la morte nella divinità.
La nascita della filosofia può essere descritta come il primo tentativo dell'uomo di dominare la morte. Prima della filosofia c'era il mito, inteso come qualcosa di reale, come lo stato delle cose. Ma il mito è poi risultato dubitabile, mentre la necessità di dare una risposta indubitabile contro l'orrore della morte ha generato la filosofia, che è la tensione verso la verità.
La filosofia attiva il ragionamento, l'argomentazione e l'aporia su tutti quegli oggetti, quegli argomenti, quegli elementi della vita che la doxa, ossia l'opinione comune, non indaga perché li dà per scontati. L'opinione comune, ad esempio, vede la morte come un dato di fatto, mentre la filosofia la analizza.
Bisogna distinguere la morte in sé e per sé dalla morte come fatto personale. Epicuro diceva: dove c'è la morte non c'è l'io, quindi non me ne devo preoccupare. La morte, dunque, è sempre dell'altro, non la posso concepire come un fatto mio perché nel momento in cui la subisco io non sono più. A meno che non si tratti di quella che i greci chiamavano la “bella morte”, ad esempio la morte in battaglia: in questo caso diventa un fatto mio e mi rende capace di morire, di includere la morte nella mia vita. Anche il pensiero è un “mettere a morte” qualcosa. Quando penso opero sempre una scelta, decido cosa includere e cosa no. Ciò che è escluso viene in qualche modo “ucciso”, messo a morte tramite un atto di volontà che entra a far parte della mia vita.
Tutti i discorsi e gli atteggiamenti intorno alla morte evidenziano la tensione verso la vita, l'angoscia della vita. La filosofia insegna a sopportare l'angoscia e la contraddizione: non offre una risposta definitiva e rassicurante sulla morte, a differenza del mito.
La risposta data dal cristianesimo, per chi crede, è ancora più spinta, perché la figura del Cristo, che muore sulla croce e risorge tre giorni dopo, offre un'ulteriore prospettiva riguardo la morte. Non è stato Nietszche a dire che Dio è morto, è stato il Vangelo. Il cristianesimo ha introdotto la morte nella divinità.