Ines Testoni. Il senso della verità

Dalla domanda iniziale di Heidegger alla risposta originaria di Severino

Ines Testoni, intervistata in occasione del congresso internazionale Heidegger nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, che si è tenuto dal 13 al 15 giugno a Brescia, illustra i punti essenziali della sua relazione, di cui pubblichiamo di seguito il testo dell’abstract. 

La questione del congresso “Heidegger nel pensiero di Severino”, suggerita dallo stesso Emanuele Severino nel testo di chiamata (Call For Paper), mette a nudo implacabilmente il problema da cui Heidegger non riesce a svincolarsi e che fa di lui l’autore di successo quale è stato per tutta la seconda metà del Novecento: l’affermazione disarmata e disarmante che la salvezza può essere garantita solo da un Dio.
Tutta l’opera del filosofo tedesco, infatti, manifesta in modo magistrale il disorientamento in cui ogni pensatore si trova quando, guardando i ruderi delle cattedrali della metafisica demolite dalla loro stessa incapacità di reggersi sulle proprie basi, ne riconosce la primitiva magnificenza eppure la pericolosa inconsistenza. La ricerca dell’errore architettonico che ha impedito allo splendore di quei sistemi di leve logiche e di contrappesi dialettici, tesi a supportare una teologia imponente come un cielo stellato lasciando presagire le luci del paradiso per raccontare l’incanto, è alla base del lavoro archeologico dell’autore di Sein und Zeit. Per un verso concentrato sul proprio smarrimento e per l’altro determinato a dare senso a quello sgomento, il lavoro di Heidegger che grandi masse di studiosi ritengono di condividere è consistito nel tentativo di riordino dei magnifici resti con la pala dello scavo teoretico. Detto in altri termini, dare senso, quindi direzione, al tormento di dover fare i conti con Nietzsche, proprio con colui che aveva appena prima intercettato il sordo scricchiolio delle imponenti costruzioni della fede e che inclemente aveva deciso di metterne alla prova la solidità con un martello. Perché se era a Dio che quei mirabili affreschi si riferivano, allora non poteva essere una questione di buone maniere o di morale a impedire un’energica azione di verifica.
La questione cruciale del Novecento che ha decretato la popolarità di Heidegger è dunque consistita nell’intento di ristabilire la referenza ontologica del linguaggio e il suo valore euristico rispetto alla condizione di esse gettati nel mondo alla nascita per un tempo che da ultimo consiste solo nel precedere la morte. Ed è proprio qui che la ricerca di Heidegger si è fermata, in un incessante lavoro di ricatalogazione di reperti, immaginando su quali colossali impianti quei frammenti linguistici poggiassero e perché il loro sostegno non avesse retto. Rinominare quei residui significava mettere alla prova nuove architravi per vedere se fossero in grado di sostituirsi ad un fallace precedente travisamento. È così che la “verità” è stata intesa come “disvelamento”, certamente pensata guardando un cielo stellato di notte, rigorosamente in solitudine, per stabilire se le stelle fossero diventate davvero mute. Sull’esempio della poetica heideggeriana si sono quindi incamminati tutti coloro che, corrotti dal sì alla vita di Nietzsche, hanno sperato di poter evitare l’inganno di una promessa senza fondamento. Ma proprio su questo stesso percorso costoro – più o meno ignari dell’esito dei loro intenti – hanno infine trovato la condanna peggiore: l’angoscioso sì alla morte quale unica risposta autentica a una vita votata al non tradimento dell’essere. Una condizione estenuante, soffocante, che lascia solo all’arte il compito di dare sollievo o forma all’orrore evocato dallo spettacolo della fede nella disintegrazione. Ove di fatto l’autenticità in cui consiste l’angoscia, se non viene chiarito il fondamento che giustifica il perché dell’incommensurabilità decretata dalla differenza ontologica, è solo un sacrificale “sì alla morte”. Attenzione, sto dicendo che Heidegger per contrastare Nietzsche afferma da ultimo solo un “sì alla morte”. È forse cosa da poco capire questo e denunciarne la portata, l’implicazione? Siamo certi che questo sia stato interamente compreso dalle stesse masse che entusiasticamente poetano imitando la cifra heideggeriana? Siamo sicuri che i teologi, quelli che affidano alla desolata affermazione “solo un Dio ci può salvare” - da parte di colui che aveva fino ad allora sostenuto la distruzione di qualsiasi teologia, considerata colpevole di entificare il puro essere - l’ultimo barlume di fondazione del discorso su un Dio inevitabilmente minore (purché sia!), abbiano capito che questa affermazione non significa affatto “bisogna tornare alla metafisica”, bensì “dopo il tramonto della metafisica e data l’impossibilità di tornare alla sua edificazione, io filosofo non ho trovato alcun fondamento su cui erigere il senso dell’esistenza rispetto all’essere. Se Dio è in causa rispetto a tutto questo, non possiamo che sperare che appaia, ovvero che si renda intelligibile”. E che sappiano che Heidegger ha detto esattamente questo proprio durante una banale intervista, affidando al linguaggio che caratterizza l’esistenza anonima, ovvero nel contesto del Verfallen. Siamo certi che poeti e credenti in cerca di un profeta contemporaneo abbiano capito che Martin, infine, evidentemente stanco e chiuso in sé, ha da ultimo ammesso di non aver raggiunto la meta, quella di ricostruire su un fondamento ontologico sicuro il perché del suo “sì alla morte” preferibile rispetto al “sì alla vita” di Nietzsche?
Il giovane Severino intercetta immediatamente l’istanza metafisica heideggeriana. Anzi, giovanissimo, la discute forse addirittura per primo in Italia, nella sua tesi di laurea. Già un’opera definitiva su Heidegger. Una di quelle che fanno la storia. E di questo ne viene a conoscenza lo stesso Heidegger, come all’interno del congresso, che Giulio Goggi e io insieme ad alcuni altri che lavorano all’interno dell’Ases abbiamo voluto, verrà messo in luce.
Al filosofo italiano appare infatti lo stesso scenario apocalittico, come pure simile è il percorso di riflessione rispetto all’insegnamento fenomenologico e dunque la capacità di guardare ciò che appare senza sovrastrutture concettuali. “Epoché”, la chiamava il loro comune riferimento – Edmund Husserl -, metodo necessario, questo, sempre, dopo una catastrofe, se si vuole riprendere il viaggio senza ripetere gli stessi errori del passato. Ma proprio nell’inziale fase dello scavo teoretico qualcosa a Emanuele Severino accade, che Martin Heidegger, immerso nel cammino notturno e rapito dall’incanto del suo cielo stellato, non poté comprendere anche se ne ebbe notizia, come ancora diremo in questo stesso congresso: bisognava ritornare a Parmenide per riprendere il sentiero, ma questa volta quello del giorno, quello che già da sempre è oltre ogni interruzione e che originariamente insegna che nessun Dio ci può salvare, perché siamo già da sempre salvi.
È così che, con l’indicazione di Severino, l’identità dell’esser sé dell’essente che implica necessariamente la sua eternità ha liberato l’uomo dalla propria condizione mortale.
Sto dicendo: la vera rivoluzione, è adesso! È forse poco quel che comprendo, ovvero che conviene che discutiamo rispetto al rapporto Heidegger-Severino, invitando a tener presente che la contrapposizione tra “sì alla vita” e “sì alla morte” sono le uniche alternative implicate dal credersi mortali irreversibilmente superate dal linguaggio che testimonia il destino? Possiamo continuare a raccontarci storie e poesie ignorando esattamente questo? Credo di no, se vogliamo fare seriamente filosofia, anche per rispettare il disorientamento di Heidegger con il quale ci identifichiamo con tanto entusiasmo. Se convenite con questo, significa che è dunque venuto il tempo di cominciare una vera rivoluzione teoreticamente fondata, ancora tutta da definire nella storia a venire. Quella che siamo chiamati noi, che partecipiamo a questo evento, a scrivere, sapendo che la risposta di Severino a qualsiasi questione sulla morte mostra come sia impossibile separare l’essente dal suo essere e come il linguaggio che ne dà testimonianza si riferisca in modo necessario, quindi incontrovertibile, all’eternità che questa identità implica.
Per queste ragioni Giulio e io abbiamo profondamente voluto che questo secondo congresso dell’Ases fosse dedicato al rapporto Heidegger-Severino. L’idea era nata durante il primo congresso “All’alba dell’eternità: I primi 60 anni de ‘La struttura originaria’”, quando nei corridoi dell’Università cattolica già parlavamo con Paolo Barbieri e altri componenti dell’associazione del prossimo appuntamento scientifico. Fu allora che Francesco Totaro fece la proposta di considerare il rapporto tra Severino e Heidegger, subito accolta con entusiasmo, perché non solo teoreticamente interessante ma anche perché culturalmente cruciale. L’idea infatti è quella di suggerire a coloro che studiano i due filosofi che molto c’è da dire su un passaggio di testimone da parte del primo al secondo, perché le domande del primo sono interamente risolte a priori, prima ancora di qualsiasi formulazione, dall’indicazione di Severino.
È stata una emozione intensa, durante la complessa organizzazione del congresso, venire a conoscenza del lavoro di Friedrich-Wilhelm Von Herrmann e di Francesco Alfieri, capaci di dissotterrare quanto già Cornelio Fabro sapeva e che altresì egli ha lasciato nell’ombra, ovvero che Heidegger stava prendendo in considerazione quanto il giovane filosofo Italiano stava dicendo. Ma forse era troppo tardi per Martin. Era esistenzialmente tardi per lui capire che l’altra strada era già stata aperta, cosicché la familiarità con la notte gli fece girare le spalle al giorno.
Ciò che voglio dire, affinché abbia senso tutto il lavoro che stiamo facendo, è dunque che proprio coloro che più appassionatamente si dedicano al filosofo tedesco, nel momento in cui più autenticamente eserciteranno l’epoché essenziale, si troveranno a comprendere che la domanda di Heidegger, come testimonia la sua speranza in una salvezza garantita da un Dio qualunque, ha già da sempre una risposta necessaria: quella indicata da Emanuele Severino, consistente nel testimoniare come nessun essente sia mortale. Ecco dunque che l’angoscia, la follia che ci tormenta quotidianamente, si manifesta come la più autentica espressione dell’errore, derivante dal non capire che Dio è ciò che inerisce alla nostra più profonda identità, al nostro essere-con (Mitsein) ciò che più autenticamente siamo. Non solo dunque Dio è un ente, ma ogni ente è Dio e nessun Dio è mai morto o potrà morire.



Ines Testoni è Professoressa Associata di Psicologia Sociale, presso il Dipartimento FISPPA (Università di Padova) - Psicologa e Psicoterapeuta e research fellow at the Emili Sagol Creative Arts Therapies Research Center, University of Haifa, Israel.