Federico Perelda e Filippo Casati. Esser Tutto e Nulla

Differenza ontologica e contraddizione in Heidegger e Severino

Relazione di Federico Perelda e Filippo Casati, presentata da Federico Perelda, al congresso internazionale Heidegger nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, che si è tenuto dal 13 al 15 giugno 2019 a Brescia.
 
Sono sufficienti le attestazioni sensoriali nonché un certo grado di astrazione filosofica per rendersi conto che siamo circondati da enti: martelli, numeri, quadri di Pollock e pianeti. Tutti queste cose in qualche modo sono, nei più vari sensi di essere: ci sono, esistono, e ne predichiamo le più varie caratteristiche, essenziali o meno. Tanto per dire, i martelli sono utensili, i numeri sono astratti, i quadri di Pollock sono opere d’arte, e i pianeti sono corpi celesti. Ma che cos'è ciò che li accomuna, a prescindere dalle loro differenze? In altre parole: che cosa è il loro Essere? La filosofia di Martin Heidegger si è lungamente cimentata con questa domanda, riprendendo, ma anche modificando o forse persino stravolgendo l'ontologia tradizionale – a partire dall'antica domanda aristotelica: ti to on? Che cosa è l'essere?
Nonostante la varietà di risposte tentate da Heidegger, ce n'è un’idea che è rimasta costante. Secondo Heidegger, infatti, c'è una radicale differenza tra l’Essere e gli enti – la cosiddetta differenza ontologica: qualsiasi cosa l’Essere sia, è diverso da ciò che gli enti sono. l'Essere degli enti non è un ente. Quindi, l’Essere è un non-ente – un niente. E poiché tutto ciò che è, è un ente, l’Essere – proprio come il niente – semplicemente non è.
Alcuni interpreti (Casati e Priest 2019; Casati 2019; Moore 2012; 2014; Witherspoon 2002; McManus 2013) hanno messo in luce che, proprio a causa della differenza ontologica, Heidegger fronteggia, con la sua nozione di essere, una contraddizione che presenta alcune analogie con l'aporia del nulla su cui è opportuno soffermarsi. Quest'ultima risale per la sua configurazione classica alle celebri pagine del Sofista platonico dedicate al non essere (a partire alla questione del 'falso'). In esse Platone, disambiguando il significato dell'espressione non-essere, da un lato accredita l'accezione del non-essere come ciò che, essendo solo diverso dall'essere, non è incompatibile con questo; ma dall'altro mantiene anche l'altra accezione, quella del non-essere come opposto all'essere, e dunque come puro nulla. Quest'ultima nozione resta aporetica, nonostante le rettifiche platoniche, poiché se il nulla non è, non è possibile riferirsi ad esso in alcun modo – e non perché esso sia qualcosa di ineffabile, ma perché proprio non c'è nulla cui riferirsi. E tuttavia questo riconoscimento avviene impiegando significativamente la parola 'nulla', intendendo che il nulla è nulla, niente. Ma allora si sta predicando qualcosa del niente, quantomeno la sua auto-identità. Russell, in altro contesto (ma richiamandosi al Sofista) affermava che allora il niente in qualche modo è qualcosa (Russell 1903, §73).
La differenza ontologica pone un caso analogo: da un lato, l’Essere di Heidegger non è un ente: questa è proprio la differenza su cui Heidegger sembra incentrare tutto il suo pensiero filosofico. 
Dall’altro, nonostante tutto, l’Essere di Heidegger è un ente: ad esempio, l’Essere è ciò che “fonda tutti gli essenti”  (Heidegger  1991,  p.  23),  l’Essere  è  ciò  “determina  ogni  ente  in  quanto  ente” (Heidegger 2001, p. 13). Dunque, l’Essere non è (un ente) e, allo stesso tempo, l’Essere è (un ente).
Proprio la corretta comprensione di ciò che l'Essere è – o, forse si dovrebbe dire, non è – rende
l'essere soggetto di predicazione, lo rende un termine, lo assimila agli enti; proprio per dire che l'essere trascende la dimensione ontica, lo si accomuna ad essa. Si potrebbe pensare che si tratti solo di un'incongruenza o una difficoltà linguistica, e che un altro linguaggio, o altre vie espressive ancora, potrebbero manifestare la differenza ontologica in modo non incongruo. Heidegger ha tentato anche questa via che si potrebbe definire mistica, ma c'è da dubitare che sia davvero percorribile. L'essere di Heidegger, così come il nulla, appare allora come un concetto intrinsecamente aporetico, nel senso che consta di due lati che si contrastano a vicenda: la necessaria determinatezza del dire, da un lato, e l'intesa indeterminatezza del detto, o la sua trascendenza rispetto a ogni determinazione ontica, dall'altro. L'essere di Heidegger si configura in modo speculare all'aporia del nulla.
Il tema della differenza ontologica è raccolto e ripensato da Severino, in termini certamente diversi rispetto a quelli heideggeriani, ma tali da presentare varie analogie, anche per il tratto aporetico. Ci sono tre premesse generali, qui presupposte: (1) la tesi della eternità dell'essere, e cioè, per Severino, di ogni ente, l'essere essendo la totalità degli enti; (2) la tesi dell'evidenza del divenire, ovvero della variazione di ciò che è manifesto; e, da ultimo, (3) la tesi che le relazioni tra enti, di qualsiasi tipo siano, contribuiscono all'individuazione degli stessi (ciò che potrebbe dirsi la tesi delle relazioni interne, ovvero fondate sulla natura dei relata).
L'autentica differenza ontologica, per Severino, consiste nel fatto che l'essere, in quanto immutabile, differisce da sé in quanto diveniente (RP in EN, p. 29). Per es., c'è un fugace bagliore di luce. Esso c'è per un istante o poco più: appare fugacemente; nondimeno, esso non è qualcosa di caduco, ma è eternamente. Dunque allo stesso ente, sostiene Severino, compete di essere in due dimensioni diverse: quella dell'essere in quanto diveniente, e quella dell'essere in quanto immutabile, laddove quest'ultima “si libra.. al di sopra di sé in quanto diveniente” (ivi). Ci si può dunque chiedere: in che cosa consiste, esattamente, la diversità dell'ente, nelle due dimensioni? La risposta passa attraverso la considerazione della parzialità del divenire. La dimensione del divenire è quella della variazione dell'apparire, che è un tratto innegabile (il divenire non è un'illusione, cfr. DN p. 127). D'altra parte, se l'essere appare variabilmente (ossia se varia il contenuto dell'apparire), sono esclusi due casi estremi: che tutto appaia, perché c'è anche quel che non appare più o che non appare ancora; e che nulla appaia, dal momento che qualcosa comunque appare.
L'essere appare in parte e processualmente; ma la variazione dell'apparire ne implica la parzialità. Quindi, quel che appare non appare assieme al tutto, poiché c'è anche quel che non appare. La totalità di ciò che appare è trascesa, oltrepassata dalla totalità dell'essere, includente anche ciò che non appare. Ora, in base alla terza tesi, qui presupposta, quel che appare, essendo manifesto indipendentemente dalla manifestazione del tutto cui è connesso, appare come alterato. Questa alterazione riguarda di quel tanto di esso cui corrispondono le sue relazioni col tutto, ovvero con tutto ciò che, anche se non appare, è ciò cui l'ente è connesso in modo definitorio per il suo significato concreto. In ciò sta allora la differenza ontologica: nel fatto che il divenire implichi la parzialità di ciò che appare, ovvero che quel che appare appaia isolatamente dalla totalità effettiva dell'essere; e che tale parzialità comporti un'alterazione del contenuto di ciò che appare, tale per cui le determinazioni che appaiono sono, come Severino dice, 'avvizzite'.
Con ciò, la differenza ontologica si lega a due teorie: la prima è quella della contraddizione-C (cfr. SO pp. 346 ss.), ovvero alla contraddizione derivante dal fatto che ogni determinazione implica l'intero, ma che è manifesta senza che sia concretamente manifesto l'intero. La seconda teoria è la dialettica come teoria del significato (cfr. SO cap. IX; Taut.), ovvero il fatto che ogni isolamento o indebita astrazione comporta che venga affermato un certo contenuto quale diverso da ciò che esso è, sì che quel contenuto viene identificato al suo altro.
Mette conto di notare che la contraddizione-C non può essere tolta, poiché l'apparire parziale del tutto non può accrescersi sino a inglobare la totalità concreta (cfr. Oltrepassare). Non tutto, dunque, può apparire, e quindi ciò che appare nell'apparire finito è destinato a restare un contenuto avvolto da una contraddizione. La contraddizione-C avvolge ogni determinazione e non c'è modo di riscattarla completamente.
Le conclusioni sono che sia la differenza ontologica heideggeriana sia quella severiniana si configurano come o implicano delle contraddizioni del tutto strutturali. Quella di Heidegger potrebbe esser definita come l'aporia dell'essere, ovvero come il rovescio dell'aporia del nulla (anche per come quest'ultima è definita da Severino: SO, cap. 4; intorno al senso del nulla). Severino, per parte sua, riduce la differenza heideggeriana a una differenza ontica,  poiché l'essere heideggeriano, secondo lui, per quanto indefinito, non è il nihil absolutum, l'opposto dell'ente, e dunque è ricompreso nella totalità dell'essere. E tuttavia anche la differenza ontologica di Severino, incentrata sullo scarto tra l'essere come totalità e la manifestazione finita di esso, si delinea come una contraddizione che non può essere definitivamente emendata.