Marina Cvetaeva secondo Maria Grazia Calandrone

Il mito e l'esilio

Maria Grazia Calandrone, poeta, racconta la "voce femminile eretica della rivoluzione russa”: Marina Cvetaeva. Marina Cvetaeva era pura passione, una passione che traduceva nella sua poesia. “I poeti sono tutti ebrei” diceva, centrando il tema dell’esilio, un nodo che ha dominato la sua opera e la sua vita;  un esilio subìto sia come permanente stato psicologico sia come avvenimento reale. Calandrone legge una lettera della Cvetaeva a Rilke appena morto, dal libro Il settimo sogno, Lettere 1926:

Caro, se tu sei morto vuol dire che non esiste nessuna morte o nessuna vita. Cosa ancora? Ti sento immancabilmente dietro alla mia spalla destra. Hai mai pensato a me? Sì, sì, sì. Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra, come non abbiamo mai creduto in questa vita. Non è vero?

Marina Cvetaeva nasce a Mosca l'8 ottobre 1892, figlia di un filologo e di una musicista. Nel 1911 sposa uno studente di filosofia, Sergej Efron, che allo scoppio della rivoluzione si arruola tra i Bianchi. Nel 1922 segue il marito a Praga e poi si trasferisce a Parigi. Tornata in Unione Sovietica nel 1939, è osteggiata dalle autorità; si suicida il 31 agosto 1941. Dopo i primi volumi di poesie (Album serale, 1910, e Lanterna magica, 1912) non pubblica nulla fino al 1922, anno in cui escono a Berlino le raccolte Versi a BlokCongedoPsicheVerste, e il poemetto Lo zar-fanciulla, seguito da Il mestiere (1923) e Dopo la Russia (1925).

Maria Grazia Calandrone è nata a Milano il 15 ottobre 1964, poetessa, drammaturga, giornalista, artista visiva, autrice e conduttrice radiofonica.