Camilleri: come nasce una nuova lingua

Camilleri: come nasce una nuova lingua

Intervista a cura di Gianni Bonina

Camilleri: come nasce una nuova lingua
L’accipe è un gioco che consiste nell’evitare di dire parole in dialetto. Chi ne pronuncia una prende l’accipe e fa penitenza. Su come nascono i libri di Andrea Camilleri neppure lui ha le idee chiare se ha detto che forse è stato l’accipe a portarlo a scrivere un personalissimo italiano dialettato. Che ha molte analogie con la parlata siculo-americana, fatta di termini desueti e di proposizioni miste. 

Avendo amato e frequentato Jerre Mangione, non può darsi che certe suggestioni siano venute a Camilleri da lui?
Può darsi. Ma devo dire che onestamente un certo interesse per il dialetto l’ho sempre avuto. Cominciamo da questo punto se vogliamo trovare le mie radici. Io avevo una nonna, Elvira, che mi leggeva non solo Alice nel paese delle meraviglie ma mi recitava anche a memoria, io appena un bambino, le poesie dell’abate Meli.

E ricordo che mi piaceva molto sentire il suono del dialetto, per cui stavo lunghe ore ad ascoltarla. A casa mia del resto si parlava esclusivamente il dialetto e solo dopo molto tempo si è cominciato a parlare anche italiano.

Sa che cosa mi faceva scialare? Qua, sotto casa, c’era una volta – sto parlando di quando potevo avere sei annuzzi – una sorta di magazzino. Ora c’è un negozio di tessuti. Là dentro facevano l’opera dei pupi con tanto di cartellone fora con le scene. Era un teatrino vero e proprio, con le panche e tutto quanto. Mi piaceva molto la storpiatura che facevano dell’italiano, cioè il tentativo che facevano di parlare in italiano. Cercano uno. “Andiamo a lo castello così lo potiamo trovare”. Non era una presa in giro di quei poveracci che si sforzavano di trovare la parola italiana, ma mi divertiva quello che veniva fuori da quei tentativi. Un giorno, diventato più grandicello, mi capitò tra le mani un libro straordinario di poesie. Non so dove è andato a finire. Era un libro stampato a New York negli anni Trenta e conteneva poesie d’amore scritte in quella lingua strepitosa che era l’italo-siculo-americano. Versi come “Tengo uno storo abascio città” mi rivelavano una lingua stupenda. Poi, tempo ancora dopo, lessi un romanzo di cui non ricordo l’autore, Stella, La Stella, che fu pubblicato da Garzanti: una storia deliziosa scritta in italiano ma con vocaboli della Bassa Padana. Lì fu che ebbi la prima intuizione che si poteva scrivere in quel modo. Io, naturalmente col mio dialetto... 

Mangione?
Mangione scriveva in un bellissimo americano e quando parlava usava quella lingua siciliana desueta che nemmeno io riprendo più. 

Ma allora La mossa del cavallo, con il recupero di idioletti infantili e giocato com’è sul significato di una parola sufficiente a imbastire un imbroglio, è frutto di questo terreno di coltura?
Io ci ho giocato eccome con le parole. Da piccolo passavo gran parte dell’anno in campagna, che poi era a due chilometri dal paese. E lì c’era un mezzadro, Minicu, col quale trascorrevo giornate intere ad ascoltare. Minicu mi raccontava le storie dei contadini e io lo pagavo con le sigarette Milit di mio padre. Con una di queste storie ho terminato per esempio l’intervento che ho fatto per la laurea honoris causa della IULM. L’uomo con due teste che parlano due lingue diverse che non gli fanno capire niente trasformandolo in un mostro, ma che torna normale quando parlano la stessa lingua. 

Insomma lei ha ripreso il mestiere dei demopsicologi ottocenteschi che andavano alla ricerca di tradizioni popolari, leggende e “parità”. Del resto anche Verga e Pirandello chiedevano da fuori ai loro corrispondenti in Sicilia di spedire loro proverbi e modi di dire siciliani...
Il mio corrispondente si chiamava Peppe Fiorentino, al quale ogni tanto facevo leggere i miei manoscritti. Lo chiamavo e gli dicevo:

Peppi, quando siamo in questa situazione come si dice?”

Quando lei fa leggere a Sciascia La strage dimenticata lui l’avverte che il dialetto non si usa in un saggio come in un romanzo e lei alleggerisce la parte saggistica. Anni dopo terrà ben conto della raccomandazione di Sciascia scrivendo Biografia del figlio cambiato... 
In Biografia del figlio cambiato mi pare evidente che la presenza del dialetto via via viene meno con l’età di Pirandello fino ad arrivare a un italiano permanente. L’idea era infatti di mitizzare attraverso il dialetto l’infanzia di Pirandello e dunque l’uso che ne faccio è estremamente strumentale. Quanto alla raccomandazione di Sciascia, alleggerii molto il testo di dialetto, certo. La prima versione di La strage dimenticata, che dovrebbe trovarsi ancora alla Sellerio (perché io butto tutto: non c’è traccia del lavoro che faccio, nemmeno le bozze corrette), si intitolava “Digressioni per una doppia strage”. Poi prese un titolo più narrativo. Vede, il mio problema si poneva nei modi di un aut aut: o scrivevo in quel modo o niente. 

Sciascia in realtà arrivava ad ammettere il “dialetto borghese”, quell’ibrido, diceva, di lingua e dialetto che con qualche arrotondamento diventa lingua.
È la stessa opinione che aveva Pirandello. Ma attenzione. Quando scrive, in quell’articolo intitolato "il teatro siciliano", col punto interrogativo, che solo il linguaggio borghese può essere in dialetto in quanto oggetto del dialogo stesso, io poi dico sissignore, ma poi scrive Liolà. 

Pirandello diceva in un saggio su “La vita nuova” che non esiste una lingua nazionale e che ovunque si parla il provinciale. E semmai la lingua italiana esiste solo nell’opera scritta.
Nell’opera scritta ma anche nelle scuole. In questa polemica furibonda lui arriva a dire che è un errore pacchiano sostenere che Dante si è inventato l’italiano. 

Sciascia ammette che Liolà riesce meglio in dialetto che in italiano, ma è perché conosciamo la versione in lingua che apprezziamo quella in dialetto. Insomma sia Sciascia che Pirandello non erano entusiasti del dialetto. E sia l’uno che l’altro sono suoi conterranei e suoi padri putativi: padri che l’hanno però contrariata.
È vero, ma torno a ripetere che ci sono spazi di necessità nei quali non posso muovermi per mia natura.

Sono anche disposto ad alleggerire un saggio, ma nei romanzi storici non ce la faccio.

Diverso è il caso dei libri di Montalbano che non hanno, se ci fa attenzione, la stessa carica dialettale dei romanzi storici – anche perché mi sono messo dalla parte dei lettori di romanzi gialli che devono soprattutto fare i conti con l’enigma della scrittura. 

Tutto chiaro. Resta il fatto che lei è il solo a usare al massimo il dialetto. D’Arrigo si è fermato molto prima. Ci sarà qualche scaturigine particolare. 
Vediamo. In realtà io venivo da un’esperienza che mi dava una certa fiducia. Ho avuto ragione a insistere e fidarmi della mia intuizione. È una cosa difficile a spiegarsi a parole perché si tratta di un’intuizione appunto. Ho cominciato a scrivere in italiano, veda i miei racconti e le mie poesie giovanili. A un certo momento, via via che vedevo aprirsi una certa strada, parlo di esperimenti di scrittura, mi sono trovato supportato dall’esperienza teatrale. Successe che nel 1950, a gennaio, venne a Roma una compagnia israeliana. Ohel, che significa la tenda. Recitava non in yddish ma in israeliano e fece tre testi il primo dei quali era “Sotto le mura di Gerusalemme”. Non si capiva nulla. Ma una cosa mi affascinò: il suono delle parole. Ascoltando lentamente capivi qualcosa. Notai nel testo degli accorgimenti per cui chiesi al regista come mai la recitazione era costruita in modo che l’ultima sillaba di una frase pronunciata da un attore fosse musicalmente legata alla prima dell’attore successivo. Mi disse: “Perché è liturgico. Stiamo ricostruendo questa lingua da una liturgia”. Ebbi un’illuminazione: guarda! Volendo si può! Gliene racconto un’altra.

Sono stato presidente di giuria al Cairo dove c’erano 66 Paesi e decine di lingue. Io e il critico della Repubblica assistemmo a una rappresentazione teatrale e dopo un quarto d’ora non avevamo capito ancora niente. Finché all’improvviso capimmo. Era “Amleto”. Come lo capimmo non lo so, ma lo capimmo. E tenga presente che Ofelia aveva la barba. 

Su questo gioco di lingue Pirandello cucì le tre espressioni del Ciclope, ricorda?
Pensò un Ciclope che parlava tre lingue. Una è il linguaggio di Minicu, del massaro. Prenda la parola “gramusceddru”: se uno non è un contadino non la conosce. È il vitellino appena nato, che trema sulle gambe e casca. L’altra lingua del Ciclope è quella di Catarella ed è parlata da Ulisse che usò un linguaggio più ricercato. La terza è la lingua del mafioso, tutta per cenni, accenni e sottintesi. 

E di queste nuances lei ha tenuto fortemente conto dunque.
Soprattutto nel barare, cioè nel portare una parlata da un livello a un altro. Sa che ci si può commuovere su una parola persa e ritrovata? È capitato a me per Pirandello.

Mia nonna Elvira mi chiamava “Pizzichiturro”, un termine adoperato solo da lei. “Chi nipoti pizzichiturro chi aiu”.

Quando stavo scrivendo Biografia del figlio cambiato mi capitò di trovare qui sotto in cartoleria un libro con una cinquantina di lettere inedite di Pirandello alla sorella. Una di queste cominciava così: “Cara sorella pizzichiturra”. E a mia mi spuntarono i lacrimi. La parola si era persa nell’età di Pirandello e di mia nonna ed è morta lì. 

Vittorini non scrisse una sola parola in dialetto; Sciascia usava il dialetto solo per gli epiteti, le massime e le citazioni; Brancati si preoccupava di tradurre subito un’espressione siciliana. Lei lascia il lettore solo a sbrogliarsela con termini che, come “gana” o “tambasiare”, non trova nemmeno nel vocabolario siciliano. È stata una prova di presunzione e di orgoglio la sua?
Di disperata presunzione diciamo. Quando per dieci anni nessuno mi ha pubblicato Il corso delle cose ero dispiaciuto ma mi rendevo conto che aveva ragione l’editore a dire “Ma come scrive questo?” E però sapevo anche che quella scrittura era un po’ un mio limite e un po’ la mia fortuna, ma non avevo una via di mezzo. 

Però mise un glossario in filo di fumo. Ciò che non volle D’Arrigo. Chi aveva ragione, lei o lui?
D’Arrigo. 

Pirandello diceva che il dialetto di Girgenti è uno strumento perfetto di espressione letteraria. Lei è d’accordo? 
È quello che più di tutti si avvicina all’italiano. Condivido pienamente la sua opinione e infatti uso l’agrigentino. 

Che non è in realtà il siciliano. È una particolarità. 
È vero, tanto che Pirandello quando scriveva per il teatro si serviva del siciliano e non del girgentano perché sapeva che Musco, Rosina, Anselmi e gli altri attori non erano agrigentini: 99 per cento catanesi e uno per cento palermitani. E quando mi vengono a raccontare della zuffa con Musco io dico nossignore: non ci credo che sia nata per le gag di Musco e le libertà che si prendeva rispetto al copione. Uno come Pirandello vuole che non capisse? Non gli piacque la deformazione della parlata in catanese rispetto a quella che aveva scritto in agrigentino. 

Sciascia diceva che in Liolà Pirandello non apriva ma chiudeva il dialetto. E spiegava perché: perché scritto in stato di ebbrezza, in pochi giorni, calandosi interamente in quella che chiamò commedia-villeggiatura, commedia-campagna. Ma lei è autore di lunga stesura.
Bisogna vedere. Io posso scrivere un racconto di Montalbano riprendendolo dopo sei giorni d’interruzione, ma Il re di Girgenti non l’ho mai potuto scrivere se non rileggendo tutto quello che avevo scritto prima. 

Lei legge a voce alta il testo che scrive per fare alzare i personaggi in piedi. Solo Montalbano le rimase nel primo romanzo, La forma dell’acqua, con un piede in aria, che mise a terra solo nel secondo romanzo, Il cane di terracotta.
Anche prima, in teatro, leggevo sempre a voce alta. Ma questo non ha a che fare con la mia pronuncia dialettale. 

Una volta lei ha detto che le piace leggere i documenti storici ma poi si lascia prendere dalla lettura e ci trova presenze gogoliane al punto da farsi vincere dalla “voglia di sgorbio”. 
Lei mi dirà che è prova di scarsa fiducia nella storia. Può darsi. Per uno che come me ha certe convinzioni politiche non è segno di felicità dire una cosa simile. Ma in Il birraio di Preston c’è l’ultimo capitolo che è la storia come la si legge. 

Già, solo che è tutta falsa o perlomeno ci sono forti sospetti.

La verità sa qual è? Che io scrivere saggi-verità non lo so fare. 

Tanto che quando Sciascia le disse di scriverla lei La stagione della caccia ne fece un romanzo mentre lui ne avrebbe fatto un saggio. Anche Biografia è un racconto che parte come saggio. E infine c’è La bolla di componenda: lei vuole fare un saggio, ma poi decide di fare un esempio e finisce per scrivere un romanzo.
Sì, lo ammetto. Non sono mai riuscito a stare nei termini del saggio. Dopo un po’ mi sento stretto. 

Eppure lei non parte mai da un dato inventato. Ha sempre bisogno di uno spunto di cronaca, di un punto di verità.
Sempre. Anche i romanzi di Montalbano che sembrano inventati partono da fatti di cronaca. E nell’ultimo, Il giro di boa, lo dico apertamente che la vicenda è ispirata a due inchieste giornalistiche. Anche nel primo, La forma dell’acqua, la trama parte da un fatto accaduto, il ritrovamento a Viterbo di un povero deputato morto in casa dell’amante. Io l’ho preso e l’ho fatto trovare tra i canaloni con i pantaloni abbassati. 

Lei dice che non si occupa di mafia ma proprio “la forma dell’acqua” non è una bella metafora della mafia? Del resto, non credo per caso, Luparello viene trovato cadavere tra i canali di irrigazione che sono allegoria delle diramazioni dei comitati d’affari.
“La forma dell’acqua” è un’espressione pronunciata davvero da un bambino. Ma della mafia mi sono in realtà occupato nei romanzi storici, pur se di una mafia particolare. 

C’è un libro sul quale lavora da anni e riguarda un martire fascista di Caltanissetta, Gigino Gattuso. Perché è rimasto per strada?
Per un motivo strano.

Più che i fatti a me interessano due cose: il linguaggio (in La scomparsa di Patò le corrispondenze, oppure “Cose dette” e “Cose scritte” in La concessione del telefono) e la struttura.

Io faccio un piano mentale, come un architetto fa un villino: quanti capitoli dovrà essere, che durata ha il respiro di ogni capitolo. Tutto questo io per Gattuso non ce l’ho ancora chiaro. 

Non è perché non se la sente di fare i conti con il fascismo?
No, perché questi conti li faccio con La presa di Macallè, la cui struttura è però più tradizionale come romanzo. Gattuso esige una “planimetria” difficile. L’esperienza è mia, personale, di quando vidi a un’adunata di marinaretti a Caltanissetta, organizzata per celebrare Gattuso, un uomo piangere in un porticato. Mio padre mi disse che era l’assassino, ma non era vero. L’assassino era un altro, anche se quell’uomo sparò. 

Cosa la intriga di questa storia? Il fatto che dal monumento hanno poi tolto la specificazione “fascista” e lasciato solo la parola “martire”? 
Ma no. Mi interessa la contemporaneità dei fatti. Tutti sono convinti che ad ammazzare è stato quell’uomo. E invece no. Ne ho scritto una settantina di pagine e mi sono fermato. 

I suoi libri non rivelano grande spiritualità, eppure lei è un uomo che sa piangere. Lo ha fatto anche leggendo Montale in treno. E lo ha fatto ritrovando, come diceva prima, una parola desueta. Veramente l’ha fatto anche quando fece la prima regia teatrale e su un giornale apparve una recensione positiva. 
No, non posso dire come Flaubert “Madame Bovary c’est moi”. 

Il giro di boa ha un finale aperto: Montalbano finisce in ospedale e non conosciamo né la diagnosi né la prognosi. Già allora lei pensò forse a un sequel che ora sarebbe La pazienza del ragno? 
No. È andata così: per me Il giro di boa finiva lì; poi bisognava vedere come se la risolveva Montalbano. La ferita comunque non era grave. Semmai è più grave la crisi che sta attraversando. Vennero quelli della Mondadori: “Ce lo dai un altro libro di racconti di Montalbano?” Io l’anno scorso, da febbraio in poi, stetti male e scrivevo poco. A luglio, quando venni qui a Porto Empedocle, mi portai il computer (ciò che quest’anno non ho fatto) e presi l’impegno con la Mondadori più che altro per vedere se ero capace di mettermi all’opera. I racconti che do alla Mondadori diventano sempre più lunghi perché in sette o dieci cartelle non ce la faccio a starci e mi ci trovo a disagio. Quindi mi dissi che in linea di massima dovevo preparare tre racconti lunghi. Uno l’avevo scritto tempo addietro ma era tutto da rivedere, quello della cabala e del pesce: lo feci e attaccai col secondo, “La prima indagine di Montalbano”, e lo portai a termine. Restava il terzo e cominciai a scrivere “La pazienza del ragno”, ma mi resi presto conto che non ci stava nemmeno nella lunghezza delle cento pagine. La cosa era seria. Lasciando perdere il terzo racconto per la Mondadori, cominciai a scrivere quest’altro che diventava sempre più romanzo. Ora, siccome per i tre racconti mondadoriani mi ero proposto di escludere ogni fatto di sangue, La pazienza del ragno sarà privo di morti e feriti. Però mi venne come dire quasi naturale riattaccarlo ai momenti immediatamente successivi al ricovero di Montalbano. E infatti tutto il primo capitolo è un seguito de Il giro di boa: una lunga notte che Montalbano passa in ospedale pensando a quello che gli sta succedendo. Ma stavolta la sua posizione è marginale: lui è in convalescenza e Livia viene a trovarlo, ma è pregato di prestare il suo appoggio a un collega impegnato in un’indagine su un rapimento. Si trova perciò dentro e fuori l’indagine, ma quando l’inchiesta ufficiale si conclude, lui svolge un’indagine personale. 

Entra in azione o fa lavoro di deduzione da fermo? 
Entra in azione. Trova la conferma di una sua supposizione, saluta e ripiglia la sua convalescenza lasciando le cose come sono state messe dall’indagine ufficiale. 

Diciamo allora che è il più irregolare dei romanzi di Montalbano. 
Totalmente irregolare. Ma anche qui troviamo il Montalbano contrario a intervenire in una situazione illegale. 

Sta per caso cadendo in depressione? 
Non è depresso. È invece una persona che comincia a chiedersi troppo spesso il perché del continuo contrasto tra la sua coscienza e la legge. E questo pensiero a un certo punto lo logora. 

Ne Il giorno della civetta compare alla fine una Livia parmense che dice di amare la Sicilia ma di non esserci mai stata. La sua Livia ligure invece non ama la Sicilia ma viene spesso. Uno strano caso di omonimia che integra anche un rovesciamento della stessa figura femminile. 
Probabilmente è stato un transfert inconscio. Sa che me ne sono accorto dopo? Rileggendomi Il giorno della civetta mi sono detto: “Mannaggia, potevo cambiarle il nome!”. Devo dire però che la Livia di Sciascia non mi aveva colpito particolarmente forse perché scorciata e finale. Mi colpì di più quanto dice in tre frasi la moglie dell’eccellenza, nuda e bellissima, quando zompa fuori dal letto scocciata dalla telefonata notturna che riceve il marito. 

In realtà, ancorché non si dica altro, lei è il meno sciasciano di tutti. 
Non ho niente della lucidità razionale di Leonardo. Semmai sono più cardarelliano che sciasciano, un cinico che ha fede in quel che fa, distante rispetto a Sciascia, del quale comunque condivido il 90 per cento delle posizioni morali e civili: rimango sempre ammirato da questa sua lingua affilata come un bisturi. 

Però ha detto che quando comincia a scrivere un libro non può fare a meno di leggere prima qualche pagina di Sciascia. 
Sì, ho bisogno di una carica. Difficile che io vada a caricarmi con autori che magari leggo più di Sciascia.

Mi carico più su una tensione dialettica che non consolatoria. Come in un buon matrimonio, gli sposi devono essere diversi per amarsi davvero. 

A La pazienza del ragno dovrebbe fare seguito, secondo il suo rituale, un romanzo storico. Che, per quanto se ne sa, cade all’inizio del Novecento con un impegno di tipo sperimentale? 
Preferirei non parlarne perché può darsi che l’idea abortisca e rimanga sulla carta. 

Ma la sperimentazione resta un suo banco di prova irrinunciabile. 
Assolutamente sì. Che cosa ho fatto quando ho scritto La concessione del telefono? Non ho che evitato il romanzo tradizionale scrivendo qualcosa che attiene più che altro al teatro, senza passaggi temporali e senza descrizioni. Quando ho scritto La scomparsa di Patò come autore mi sono completamente chiamato fuori dalla narrazione, per quanto ciò sia possibile. Come dire, sto cercando di portare ancora più a fondo un tipo di ricerca strutturale all’interno del romanzo. 

È da tempo in realtà che lo fa, diciamo da sempre. Ma a me pare che non sia per niente soddisfatto dei risultati ottenuti e che stia provando a rompere il romanzo al suo interno. 
Non credo al romanzo tradizionale, pur piacendomi.

Del resto anche un romanzo che può sembrare tradizionale qual è Il re di Girgenti trovo che abbia una struttura squilibratissima. 

Già. Mentre i gialli di Montalbano seguono un andamento paratattico con uno svolgimento più cronologico e ordinato, tranne forse Il cane di terracotta. 
La scommessa era questa: avendo scritto solo romanzi storici, sono capace di scrivere un giallo? Ma attenzione: è vero che c’è un momento nel quale fai impazzire la maionese, ma è anche vero che dopo la puoi rendere immangiabile. Quindi se scrivi Montalbano non puoi permetterti di fare sperimentazione. 

Il re di Girgenti romanzo tradizionale, ha detto? Beh, lo volle indietro dopo averlo dato a Sellerio per riscriverne metà. Anche lì giocò con la maionese eccome. 
Le racconto tutta la storia. A settembre esce il secondo Meridiano e Silvano Nigro ha voluto i documenti non pubblicati del Re di Girgenti, da mettere in appendice. Dico di che si tratta. Quando scrivevo il romanzo mi trovavo davanti a un problema: “Come faccio a raccontare i fatti di Zosimo da quando ha 16 anni fino a 38 anni? Sono fatti privati ma anche avvenimenti internazionali.” Bisognava fare un libro di 1800 pagine, perlopiù noiosissime. Mi venne allora in testa di occupare questa parte centrale scrivendo tutta una serie di documenti finti, cambiando stile: dalla lettera privata alla nota ufficiale al documento. Mi trovai perciò con circa cinquanta documenti, che erano una meraviglia perché mi risparmiavano spazio e mi evitavano la caduta nella noia. Una volta scritto il romanzo, che mi portavo dietro da anni, fui ben felice di darlo alla mia lettrice primaria che è mia moglie, la quale mi disse: “Il racconto mi piace, però quelle pagine di documenti sono una mazzata in testa al lettore perché interrompono bruscamente il filo narrativo e dopo non lo riprendi”. Mi arrabbiai perché non convenivo.

Mandai il libro a Elvira Sellerio: “Bellissimo, però…” Anche lei trovava pesanti i documenti centrali. Allora mi cominciai a preoccupare. Lo feci leggere a mia figlia Elisabetta: “Papà, ci sono quelle cinquanta pagine centrali che…” Va be’, mi sono detto, non è cosa. E lì il romanzo si fermò perché non sapevo trovare una soluzione. Finché la trovai.

“Ma perché - mi dissi - mettere tutti i documenti? Metto quello che mi interessa”. E così ho fatto. Quando Nigro ha saputo che c’erano questi documenti espulsi me li ha chiesti per il Meridiano. “Non ce l’ho” gli dissi. Io non lascio tracce, butto via tutto quando un libro è finito. Il Fondo manoscritti di Pavia non avrà mai niente di mio. “Ma Elvira deve averli” dissi a Nigro. Elvira Sellerio li aveva ma aveva strappato le pagine per cui mancavano frasi e parole che Nigro si è messo a ricostruire e che ora escono in appendice. 

Bene. Si ha la prova che Il re di Girgenti è anch’esso di tipo sperimentale. 
Le dico una cosa. Nel Re di Girgenti il buon Zosimo copia le regole dell’abate Meli sul buon governo, sicché la mia sperimentazione non sarà mai come quella del Gruppo 63, anche perché non ho l’età, ma è una ricerca sulla struttura. Io ho rubato a tutti. E dico che è un mestiere di ladri il nostro. Non può essere diversamente: perché a me viene da ridere a scrivere Il re di Girgenti perché uno si trova di fronte alle tragedie greche e vede che tutto è stato scritto. A questo punto su che lavori? Sugli scampoli, sulle mollichine. 

Senza evocare Saint-Beuve né gli strutturalisti, secondo lei un suo romanzo può essere letto senza conoscerla? Un suo testo richiede o no che sia nota la biografia dell’autore per essere compreso a fondo? 
Il testo non ha niente che fare con l’autore, mi deve credere. 

Ma nei suoi libri lei è presentissimo. 
Certo, ma Il processo non riguarda la vita di Kafka. Io adopero materiali, che rivolto e riciclo. 

Diciamo che più esattamente sperimenta. In realtà, a stare ai risultati utili, lei è andato ben oltre il Gruppo 63. 
Piano, piano. Io ai lettori ci tengo e non faccio niente che non capiscano. Il massimo mio azzardo - e sapevo che avrebbe avuto reazioni negative - è stato La presa di Macallè, ma riguardava i contenuti e non il linguaggio. 

Questa vocazione all’azzardo non le viene forse da Pirandello che innovò il teatro con la trilogia? E quella trilogia fu una proposta di teatro-verità o un gioco di astrazione? Alla stessa maniera, la sua ricerca tende al romanzo-verità o ne prefigura la rottura? 
Allora. Nel momento in cui irrompono i sei personaggi che nella didascalia entrano in scena da un luogo terzo che non è né quello degli attori né quello del pubblico, abbiamo una finzione di irruzione della verità.

La ricerca della massima verità è inevitabilmente la ricerca della massima astrazione, a mio avviso. Ma non scriverei mai una cosa che non avesse un relativo consenso.

È il caso dell’autore teatrale: vuole che il pubblico capisca quello che sta dicendo, che dissenta o approvi non importa perché conta per lui stabilire la comunicazione. Per lo scrittore è la stessa cosa. 

Ma dopo 110 regie teatrali, un migliaio di regie radiofoniche e un centinaio di regie televisive, lei ha maturato una capacità di comunicazione che le permette di rivolgersi a un pubblico dal target diversissimo. Come fa a cambiare così facilmente abito?
Non so spegarmelo. Forse la lunga militanza teatrale mi ha dato la misura della destinazione di ciò che faccio. Quindi ne consegue che se faccio una cosa televisiva so che sarebbe un errore di comunicazione mettermi a fare sperimentalismi troppo azzardati. Tanto è vero che quando mi trovo tra le mani una sceneggiatura di Montalbano, io intervengo nel dialogo: primo, per evitare che uno degli attori non siciliani parli scorrettamente il siciliano; secondo, per rendere appunto più comprensibile quanto viene detto. Il senso della destinazione di ciò che scrivi ne importa anche un adeguamento.

L’oralità, ha detto, è per lei fondamentale. Oralità è soprattutto estemporaneità ma anche studio, copione, ciò che nel romanzo è stesura. Lei, che è autore di cento stesure, in che senso ritiene fondamentale l’oralità?
È una questione di tecnica. Io scrivo una pagina e naturalmente poi la revisiono. C’è dunque un primo grado della scrittura: cambio una frase, la esprimo meglio, e vado avanti così per diverso tempo.

Quando penso di avere raggiunto quello che volevo dire scatta in me un secondo piano che è la lettura ad alta voce del testo.

Leggendo, prendo un certo ritmo, do un certo colore, tanto che potrei raccontarla quella pagina come se l’avessi inventata in quel momento. L’inceppamento nel racconto orale è pregiudizievole sicché riscrivo tutto. 

Le è capitato di scrivere un testo currenti calamo? 
Mai. C’è sotto sempre una forte applicazione. Il mio ideale di scrittura è da trapezista: al circo lei vede eseguire un triplo salto mortale da parte di un acrobata che sorride e che non dà alcun segno di fatica mentre è chiaro che è stata grande la fatica cui si è sobbarcato per realizzare quel numero. La sua è una leggerezza sudata. Com’è la mia: mai fare capire al lettore che un libro trasuda di fatica.