Francesco Guccini e la narrativa

Francesco Guccini e la narrativa

Intervista di Giancarlo Susanna

Francesco Guccini e la narrativa
Francesco Guccini, uno dei più amati tra i nostri cantautori, parla a ruota libera del suo ultimo romanzo e della sua passione per la scrittura in questa intervista di Giancarlo Susanna.

Pàvana, 12 dicembre 2003. Ci lasciamo il sole alle spalle sui tornanti della Porrettana. Bastano i pochi metri della galleria che buca l'Appennino Tosco-Emiliano e ci ritroviamo in un paesaggio radicalmente mutato. C'è la neve, sul versante bolognese, e il ghiaccio ci costringe a rallentare. Francesco Guccini ci aspetta nella sua casa di Pàvana, la stessa che si vede sulla copertina di Radici e che per gli appassionati cultori della sua arte di autore di canzoni e scrittore è diventata parte di una piccola leggenda. Ci accoglie cordialmente e si sottopone volentieri al fuoco di fila delle nostre domande, che spaziano liberamente e si affastellano una sull'altra come se fossero rimaste compresse per un tempo eccessivo. Parliamo di Cittanova blues, naturalmente - forse il più bello tra i libri che compongono la trilogia gucciniana - ma l'ultimo romanzo è appena uno spunto per toccare gli argomenti più vari.

Si dice che la scrittura e quindi la lettura stiano diventando sempre più veloci e superficiali. Come pensi reagiscano i tuoi lettori a un libro come Cittanova blues, che invece richiede un certo impegno?
Sono sicuro che se non avessero conoscenza di me per le canzoni, difficilmente avrebbero comprato il mio libro. È ovvio che una cosa fa aggio su quell'altra. Ma non è tanto la comunicazione veloce o meno quanto la difficoltà della scrittura, che non è facilmente decifrabile e quindi richiede un impegno. Sostengo che la lettura oltre che essere un grande piacere - ma questa è una teoria mia - a volte può costare anche un po' di fatica, un piccolo sforzo. Ma questa, voglio dire, è una teoria mia... Si vede che, facendo aggio il nome del cantautore, se lo prendono: qualcuno poi lo lascerà lì e altri lo leggeranno, insomma.

Si diceva che Il nome della rosa, questo enorme successo, è stato letto credo dal venti per cento di quelli che l'hanno comperato, speriamo che ci siano dei lettori del mio.

Le reazioni che hai potuto registrare negli incontri con loro sono state positive?
Il rientro è positivo, ma sono amici e quindi sono molto favorevoli nei miei confronti. Mi hanno detto, 'ah, molto bello, soprattutto questo o quell'altro', però sono solo amici. Aspetto magari di sentire qualche conferma o meno da lettori meno amicali.

E le critiche? Sono state quasi tutte buone, no?...
Sono tutte positive, meno - io penso per problemi ideologici - (quella) di un critico dell'Avvenire, che ha esercitato un suo più che legittimo diritto di critica e dice che mi preferisce più sulle canzoni che sulla scrittura. Credo per ragioni ideologiche, perché non è che io sia cattolicissimo. Non è neanche il contrario... Evito l'argomento, non ne parlo.

Pensi sia corretto parlare di un ampio romanzo di formazione che stai costruendo a partire da Croniche epafaniche e raccontando la tua biografia?
Sì, da Croniche epafaniche a quest'ultimo, certamente. La biografia però può essere una falsa biografia. Nel secondo (libro), Vacca d'un cane, ho messo una citazione di Borges che dice ogni scrittore è autobiografico. Questo può essere detto: c'era un re che aveva tre figlie o sono nato il giorno tale nel posto tale, perché parla sempre di se stesso anche se racconta avvenimenti apparentemente a lui estranei, ma è dal proprio bagaglio che tira fuori queste cose. Quindi c'è biografia, ma c'è anche qualcosa di diverso dalla biografia. La biografia è un pretesto tutto sommato, un pretesto narrativo come ce ne sono tanti altri. Formazione perché ci sono diversi momenti, anche se questi momenti coincidono, a volte coincidono, e nell'ultimo c'è un ritorno al primo. Il capitolo finale di Cittanova blues si riallaccia al mondo di Croniche epafaniche, quindi si chiude il cerchio.

L'autobiografia è un semplice spunto narrativo o c'è anche un'esigenza, in questo momento particolare, di ritornare su un certo periodo della tua vita?
No, non è stata esigenza. È stata proprio la partenza che è stata così e la partenza la devo a un amico che mi aveva chiesto di rievocare quando andai da Modena ad abitare a Bologna. Mi sono messo lì - un amico giornalista, peraltro - e dico 'ma perché non parlo invece di Pàvana?' Ho lasciato perdere quell'articolo e mi sono messo a scrivere le prime pagine di Croniche epafaniche, prendendo però spunto da... non mi è venuta questa illuminazione... da Meneghello di Libera nos a Malo soprattutto. Dico, 'se Meneghello ha potuto raccontare la sua Malo, perché io non posso raccontare la mia Pàvana?' Devo precisare però che non è stata la scoperta della scrittura una vocazione improvvisa.

Da ragazzino avevo l'idea che da grande avrei fatto lo scrittore. Ho sempre scritto in mille modi, prima con delle penne, poi con la macchina da scrivere, poi ho scoperto il computer... cosa che per le canzoni assolutamente non uso... strumento utilissimo per la scrittura, il computer, e non per altro, perché utilizzo il computer come una macchina da scrivere molto più pratica. E quindi è una cosa che avevo da tempo, quella della scrittura. Il computer mi ha permesso di ordinare tutto, di tenerlo lì, di non perderlo.

Come vedete c'è un po' di confusione in giro, io sono molto disordinato... Questo mezzo forse mi ha reso possibile la stesura del primo (libro) ed è venuto proprio istintivo, questo fatto di parlare di Pàvana, senza però cercare, non so, un rimpianto, la memoria... anche se poi sono anni che ricerco storie locali eccetera e questo atteggiamento è presente in me. Forse sono fuse le due cose.

Quella che colpisce di più, poi, è proprio l'ironia... Il capitolo sulla 500, per esempio, è divertentissimo. E chi conosce un poco Bologna la ritrova puntualmente, nonostante non sia sempre facile comprendere la lingua che usi.
Ci vuole il glossario... (Per) il capitolo sulla 500 mi hanno fatto i complimenti, anche perché pur non avendo la patente, pur non interessandomi nella maniera più assoluta...

Uno si chiede come tu facessi a entrarci!
Non solo, ma la 500 era magica... adesso non vorrei addentrarmi in una dimensione erotica, diciamo, possibile nella 500. Si racconta anche nel libro come egualmente in quattro - l'autista ed io davanti, due ragazzi di dietro e due enormi chitarre - siamo andati da Bologna a Trieste e non c'era ancora l'autostrada. Sono imprese eroiche che solo la 500 poteva permettersi.

Trieste che chiami sempre Tergeste... non tutte le parole sono nel glossario.
Be'... Tergeste è un nome latino. A questo proposito, proprio quello dell'Avvenire dice, 'perché Fiorenza invece che Firenze e Tergeste...' Non è un aulicismo, è ironia. È chiaro che io gioco su queste parole. L'ironia poi a volte non si capisce, forse è oscura, forse è sciocca anche, ma c'è questo atteggiamento nei confronti della parola.

A proposito di Bologna, ci sono i libri di Jimmy Villotti, che tu conosci bene, visto che per uno, Gli sbudellati, hai scritto anche la prefazione.
Un genio!

Il suo punto di vista su Bologna è fondamentalmente quello di un jazzista, mentre il tuo è quello di un appassionato di rock e folk.
Sì... da ragazzo abbiamo tutti ascoltato il jazz, prima del rock'n'roll. Quando è arrivato il rock'n'roll, era la nostra musica, quindi io ho abbandonato e mi sono fermato a quello che avevo ascoltato fino ad allora, mi sono fermato a Gerry Mulligan, insomma... però non è stato un brutto percorso dal dixieland primigenio a Gerry Mulligan, eccetera.

Il rock è la nostra musica... è tutto sommato facile da suonare, si poteva imitare. Dal rock nasce il primo strumento e le prime canzoni. È stata la mia strada, quella lì.

Villotti ha fatto un'altra strada, è passato dal rock ad essere un jazzista, però ogni tanto si stanca, ogni tanto... ma bisogna conoscere Villotti per capire esattamente.

E anche ascoltare i suoi dischi a dir poco stravaganti.
Lo definisco un genio, perché credo che sia l'unica persona al mondo che riesce ad accavallare le gambe mettendo giù tutti e due i piedi, impresa per ogni comune mortale impossibile. Però lui ci riesce. Non solo, ma sia con me sia quando era con Lucio (Dalla), suonava con il cotone nelle orecchie perché gli dava fastidio la musica. Suonava praticamente sordo. Tanto è vero che molte volte gli abbiamo fatto lo scherzo: noi abbiamo smesso di suonare e lui è andato avanti per suo conto. È un personaggio incredibile.

Cittanova blues è stato pubblicato da Mondadori, che come tutti sanno appartiene all'impero economico del nostro premier. Hai ricevuto delle critiche, per questo?
Dico subito anzitutto che il conflitto d'interessi non l'ho io e questo mi sembra già (qualcosa). (Cittanova blues) non è stato il primo libro che ho fatto con la Mondadori, perché i quattro gialli, fatti assieme a Loriano Macchiavelli, sono usciti con la Mondadori. Quando è nata l'idea del primo giallo, Macaronì, dissi a Loriano, 'Guarda, io sono con la Feltrinelli: vedo se vogliono pubblicarlo a pari condizioni'. Ho telefonato e mi hanno detto, 'A noi i gialli non interessano'. Strana risposta, perché loro pubblicavano Montalban. Da allora, se pensi che Macaronì è uscito diversi anni fa, non li ho più assolutamente sentiti. Mentre invece due grandi editor della Mondadori, Antonio Franchini (un ottimo scrittore, che ha vinto recentemente un premio letterario) e Renata Colorni si sono visti, abbiamo parlato, anche in atmosfere conviviali ed è nata questa idea, attraverso poi gli altri tre gialli usciti. Feltrinelli zero. Non ho proprio più sentito nessuno. Finché, la scorsa primavera, ho visto Carlo (Feltrinelli) e m'ha detto, 'A che punto sei col romanzo? Ho letto sul giornale del nuovo romanzo, quando ce lo dai?' Dico, 'Non ve lo dò'. 'Ma come non ce lo dai?' 'No, non ho più sentito nessuno!' Che devo fare? Telefonargli dopo che da alcuni anni sono in contatto con queste persone? Sia Antonio Franchini che Renata Colorni sono due personaggi non confondibili con una certa categoria.

In ogni caso con la Mondadori ti senti libero...
Mi sento liberissimo. Non vorrei dire molto libero, perché 'Vedi, che lascia poi liberi'... Questo non mi interessa. Mi sento legato culturalmente e affettuosamente alle due persone che ho citato e quindi mi vanno bene queste due persone, questi con cui ho lavorato. Poi, non solo, (c'è stata) un'esperienza per me nuovissima: ho fatto un editing - non ho altra parola, scusatemi se uso l'inglese - che non avevo mai fatto, con Feltrinelli. E di fatti ci sono diversi errori sia nel primo che nel secondo. Una certa Giulia Ichino ha fatto un lavoro stupendo; è venuta qui anche due o tre giorni a curare tutto quanto il glossario. Abbiamo lavorato assieme, tutti i riferimenti... ogni tanto mi telefonava. L'esperienza dell'editing fatto in questo modo - non mi hanno toccato naturalmente il vivo del romanzo... ma lì metti un accento e là non lo metti, perché? Sono cose importanti, queste. Hanno fatto un piccolissimo errore, comunque, che rimane nonostante tutto. Gli errori sono drammatici.

Anche usando il computer... leggi e rileggi ciò che hai scritto e non ti accorgi degli errori finché non è troppo tardi.
Posso raccontare un piccolo (episodio)? Non ricordo in quale giallo - forse nel secondo - si doveva citare il famoso Alcazar, che era questa antica fortezza spagnola dove ci fu un famoso assedio con i franchisti dentro e i repubblicani fuori, eccetera. È diventato Alcatraz, che non c'entra assolutamente niente! No, perché li rivedevamo seimila volte, sia Loriano che io. Niente. È rimasto Alcatraz, con nostra grande vergogna. Come si fa l'Alcatraz? Da dove è saltato fuori? Sapevamo benissimo cos'era, almeno Alcatraz... che non è più una prigione, adesso. È rimasto così. Gli errori sono drammatici. (Bisogna) guardare con grandissima attenzione e anche questa esperienza, dicevo, è stata... non mi era mai successo.

Leggendo Cittanova blues - e in generale tutti i tuoi libri - si capisce benissimo da che parte stai. Cosa pensi degli scrittori e degli intellettuali che prendono posizione come Andrea Camilleri o Antonio Tabucchi?
Dipende anche dal carattere. Io preferisco... a parte il fatto che io sono dotato di grandissima timidezza e (che) quindi impegnarmi in un certo modo mi sfugge. A volte mi chiedono, 'Ma t'hanno mai offerto, non so, cariche politiche?' Sì, cento volte, ma le ho sempre rifiutate accuratamente. Ma non perché non saprei impegnarmi, proprio per il rifiuto di un certo tipo di attività che non mi è congeniale. Posso raccontare un brevissimo episodio. Da stamattina a mezzogiorno fino alle due, mi hanno telefonato in cinque per andare in cinque posti diversi a sostenere cinque cause diverse. E, mentre una l'ho accettata, la seconda, e un'altra stavo per accettarla (poi per vari motivi non posso), a un'altra ho detto di no e ho litigato con questa persona che diceva, 'Uno come te non può non esserci'. Come non posso non esserci? Allora cosa faccio? Passo la mia vita ad andare di qua e di là come un cane da caccia a girare? Ne accetto una. Ne accetto massimo due, ma non posso accettarne cinque contemporaneamente. E quindi c'è stata questa lite, io mi sono arrabbiato, alla fine. Perché poi era la quinta telefonata e si era assommata a tutta la cosa. Non è un mio rifiuto a intervenire direttamente o meno. È proprio un modo di essere: faccio le cose che trovo, sento di poter fare o di fare. Non posso essere da tutte le parti in tutti i momenti.

Non dev'essere facile affrontare certe situazioni e d'altra parte è evidente che il modo in cui hai vissuto la tua vicenda artistica ti ha dato una grandissima credibilità.
Sì... di questo ringrazio. Ma io penso di saperlo far meglio con una canzone. Magari con uno scritto come un romanzo. Anche un articolo, a volte... ma anche lì, gli articoli, quanti me ne chiedono? Sono diplomato in prefazioni... tu hai citato prima quella di Villotti, ma ormai certe prefazioni... l'ho anche detto, 'guardate che riciclo'. Non posso, per esempio, scrivere sedici prefazioni sull'Appennino e la montagna! L'ho già fatto. Le cose che ho da dire le ho già dette, al massimo riciclo. Posso cambiare qualche cosa, ma...

Ti è capitato spesso di lavorare con altre persone, sia per delle canzoni sia per dei libri. Ci puoi dire come funziona per te questo particolare approccio alla scrittura?
Sono due cose diverse. La canzone, di solito, se lavoro su un testo già fatto, la cambio io di mia iniziativa - col permesso naturalmente dell'autore - dicendo, 'Guarda, mi interessa questa cosa, però voglio rivedere il testo e non accetto discussioni su quello che farò. Se ti va bene... se no lasciamo perdere'. Ho cambiato a volte moltissime cose, a volte poche. Nella canzone Keaton, che nasce di Claudio Lolli, ho cambiato delle piccole cose che a me non andavano, ma il testo di Claudio andava benissimo, intendiamoci. Altre cose invece le ho riviste quasi completamente.

Per quanto riguarda invece la scrittura a quattro mani del romanzo... Io non sono un giallista, anche se mi piace molto il genere. Non riuscirei forse a inventarmi un plot. E di fatti è nata così. Io pensavo a una piccola trama - parlo di Macaronì - su un avvenimento che si è veramente svolto qui a Pàvana, è accaduto a Pàvana negli anni '20. Poi il finale - dato che sono un giocatore di carte, come diceva prima un signore qui presente - avrebbe dovuto svolgersi durante una partita a carte. Una frase pronunciata durante la partita avrebbe dato al maresciallo Santovito l'idea di risolvere...

E poi ci doveva essere una parte centrale che avevo pensato. E però non riuscivo a costruire questa cosa. Ne ho parlato con Loriano, è nata questa collaborazione e noi lavoriamo così: stabiliamo una trama di massima - un inizio, una fine, grosso modo - qualche personaggio - molto spesso non sappiamo neanche chi è l'assassino, essendo un giallo, o gli assassini, in un giallo ci vogliono. E poi, fatto questo, ci dividiamo per capitoli di preferenza: 'io preferisco scrivere di questo, tu preferisci scrivere di quello'. Per esempio, certe cose - dato che sono gialli appenninici i nostri - sulle tradizioni forse le conosco meglio io e allora lavoro più su quello lì. Fatto questo primo lavoro, ce li scambiamo e li riscriviamo. A modo nostro, cambiando anche parecchio. È una collaborazione che è andata benissimo, non abbiamo mai avuto nessuna impuntatura, niente da dire, andava benissimo quello che l'altro cambiava eccetera. Questo è il nostro sistema di lavoro.

Avete un altro libro in cantiere?
Santovito ormai è diventato abbastanza vecchio, troppo vecchio per fare un'ulteriore indagine, però mi è venuta un'idea: con un piccolo escamotage potrebbe risaltare fuori prima. Forse verrà fuori un altro giallo con un Santovito giovane, finalmente.

La tua capacità di improvvisare con le parole ha dato dei frutti particolari?
No... Forse. Le canzoni che una volta si chiamavano da cabaret, quelle che si trovano in Opera buffa, nascono proprio perché, frequentando quelle atmosfere e quegli ambienti della Bologna di allora, mi veniva facile e spontaneo scrivere queste cose. Adesso quell'atmosfera non esiste più, quell'ambiente non esiste più, e non ho più scritto nessuna canzone di quel tipo, da allora. È un fatto che adopero - adoperavo all'Osteria delle Dame - durante gli spettacoli e non so da dove...

Molti dicono, conoscendo mia madre, che capiscono da dove viene questo modo non tanto di improvvisare quanto di dialogare. Può darsi che sia questo...

A proposito di canzoni, è da un po' che non esce un tuo disco in studio.
Sono stato in sala d'incisione recentemente e diciamo che il lavoro è fatto al settanta per cento. Mancano un paio di pezzi, che dovrei fare - in teoria, in pratica non lo so - ma c'è già un buon corpus per dire che probabilmente nella tarda primavera dovrebbe uscire il nuovo prodotto. Non si sa più come chiamarlo... Io lo chiamo disco.

I musicisti sono sempre gli stessi?
Sì, sì, i soliti... Tavolazzi al basso, Bandini alla batteria, Flaco alle chitarre, Antonio Marangolo al sax, Roberto Manussi sax e polistrumentista, Tempera alle tastiere e Renzo Fantini produttore.

Squadra che funziona non si cambia.
Perché poi uno deve cambiare, a un certo punto? A volte - non sono i cantautori a fare questo - certi poi cambiano il look cosiddetto, cambiano atmosfere, cambiano cose... perché?

Io so far quelle canzoni lì. Di più o di meno io non so fare. Se va bene così, va bene, sennò pazienza.

Avere accanto persone che ti conoscono bene è rassicurante, no?
È un atteggiamento mio. Se vado a Milano, a Roma o a Genova, vado sempre nello stesso albergo, perché mi ci trovo bene, conosco ormai la gente, il personale, eccetera. Non devo far dei salti misteriosi nel buio. Tendo sempre... certo se mi va bene, sennò cambio.

Tornando al punto di partenza e in particolare alla critica dell'Avvenire, qual è il tuo atteggiamento nei riguardi non tanto della religione quanto della spiritualità?
A mente fredda direi che sono agnostico. Non frequento... vagamente panteistico. Ma questo deriva forse dal fatto di Pàvana, qua attorno... Il pensiero della gente che c'era prima di me e c'è ancora, ma credo più illusioni letterarie o sentimentali, da un certo punto di vista. E quindi freddamente direi 'No, non è vero'. Però mi piace immaginare che questa gente in qualche modo esiste ancora. E forse esiste, per esempio, in quelli venuti dopo. Parte dei miei vecchi sicuramente esiste ancora in mia figlia, anche se lei non l'ha ancora capito... ma questa è ancora un'altra cosa. Non sono assolutamente religioso, ma ho una mia religiosità naturale... nel senso che mi piace moltissimo, da quando poi sono su quasi fisso, vedere il passaggio delle stagioni che mi riporta poi all'infanzia - allora poi non capivo queste cose - vedere come da gennaio in avanti la natura spinga per uscire. Le gemme che escono, vedere i primi fiori che cominciano a fine gennaio o ai primi di febbraio, arrivano fuori. È bello vedere tutto che ritorna, che va avanti, aspettare i fiori sugli alberi da frutto, poi i frutti verdi, acerbi...

Come sono entrati i libri nella tua vita? Mi pare che giocare nei campi non ti abbia impedito di amare la lettura.
I libri sono arrivati prestissimo. Ho letto il primo libro che non ero ancora andato a scuola. Ho letto Pinocchio che avevo cinque anni e dovevo fare ancora le elementari. Sapevo già leggere e scrivere prima di andare a scuola. E da allora leggere è sempre stata la mia passione più grossa, preferita. Soprattutto quando ero giù al mulino, ma anche in città... Allora poi non c'era la televisione e uno come passava il tempo? Al mulino poi non c'erano neanche amici... a Modena magari uscivo con gli amici, ma lì (passavo il tempo) leggendo. C'è una piccolissima bibliotechina che avevano lasciato mio padre e le sorelle e poi c'era anche una cosa curiosissima: dato che questa casa d'estate la affittavano dei villeggianti, questi lasciavano lì un giallo, delle riviste... I miei nonni, quando venivano a far le pulizie, prendevano e portavano giù tutto. Il materiale non lo buttavano via perché la carta era preziosissima - non è come adesso che siamo sommersi dalla carta - si usava per mille cose. Le cose più interessanti e più importanti le tenevano, non le buttavano via e quindi erano libri da leggere.

E poi c'era una mia zia - quella che io definisco sempre l'intellettuale di famiglia perché aveva fatto la cameriera a Genova - che si era portata da lì tutta una serie di romanzi d'appendice, Il fiacre numero 13, La portatrice di pane, I misteri di Parigi, Il medico delle pazze, eccetera e io da ragazzino me li sono letti tutti. Mi piacevano moltissimo e qualcuno me lo sono riletto da grande, perché con occhio diverso era più divertente. C'era un'agnizione ogni pagina e mezza. 'Quella medaglia! La metà ce l'ho io! Fratello!' Bellissimo! Ho letto, ho letto sempre tutto quello che mi capitava sotto mano.

Torniamo un momento sulle canzoni. Una delle tue qualità principali è riuscire a porre le grandi domande sull'esistenza attraverso i tuoi testi puntando molto sulla realtà, su piccoli particolari della realtà. Da dove nasce questo approccio? C'è un fatto o una persona che ti abbiano influenzato in questo senso?
No. Posso dire quello che hanno detto recentemente. Era un'osservazione di Montale su Gozzano, che parlava di una quotidiana aulicità, grosso modo, e quindi il trasformare - non è questa la formula esatta di Montale, ma (il senso) è quello - le piccole cose quotidiane in questioni di altro tipo, di maggiore valenza. Ma non so se viene proprio da lì o da una mia misteriosa storia personale che non saprei dire qual è. Cerco poi sempre di parlare... anche nelle canzoni parlo spesso di me, quasi sempre di me. Mi muovo sempre da delle domande che magari mi faccio io. Prima si parlava di autori che possono o meno ispirare. L'ultima canzone che ho fatto si chiama Odisseus e naturalmente parla - perdonerete questo piccolo vezzo aulico - di Ulisse. Mi sono impadronito barbaramente di cinque poeti: Omero, Dante, Kavafis, uno scrittore francese scomparso qualche tempo fa che ha scritto tre gialli ambientati a Marsiglia e Alberto Prandi, sconosciuto ai più, un mio cugino che ha scritto delle poesie su Omero. Anche per quel libro ho scritto un'introduzione! (ride)