Gian Mario Villalta, L'apprendista

Gian Mario Villalta, L'apprendista

In sagrestia

Gian Mario Villalta, L'apprendista
Due uomini con la vita alle spalle che tengono in ordine una chiesa di paese con dentro una celebrata opera d’arte: è questo lo scenario di L’apprendista, il romanzo di Gian Mario Villalta pubblicato da Sem. Fredi, il sacrestano, è stato nell’esercito come suo padre, si doveva sposare, ha lasciato tutto, è andato a fare il missionario in Giappone, poi è tornato; Tilio, l’apprendista sulla settantina, è un ex operaio rimasto vedovo con un figlio ricco con cui non va d’accordo. Nei loro sommessi dialoghi affiorano il passato, le scelte compiute, l’atmosfera soffocante del paese, i dubbi sulla religione, la sensazione che il mondo stia cambiando in peggio. Tra un funerale e un matrimonio, tra il passaggio di un prete e l’altro, il rapporto tra i due diventa quasi un’amicizia. Una potente riflessione sull’oggi che parte da un luogo sperduto e diventa subito universale.

Tilio guarda il viso di Fredi, è severo, sereno, tiene nascosta la dolcezza come una vergogna. Le labbra troppo carnose con quella mascella squadrata, i capelli bianchi tagliati a scodella, lunghetti sulle orecchie, le palpebre ben disegnate, due conchiglie. Quanti sono, ottantaquattro, ottantasei? Tilio non gli ha mai chiesto gli anni. Fa il confronto con i suoi settantadue: più di dieci di differenza, sì, più di dieci sicuro. Tilio pensa che la faccia di Fredi cambia di continuo espressione, ma ogni volta è come una nuvola che passa, e sotto resta sempre severa, serena, di una serenità senza letizia, fatta di fiducia nella disciplina.


Gian Mario Villalta è nato a Visinale di Pasiano (PN) nel 1959, vive a Porcia. Ha pubblicato i libri di poesia: Altro che storie! (Campanotto, 1988), L’erba in tasca (Scheiwiller, 1992), Vose de Vose/ Voce di voci (Campanotto, 1995 e 2009), Vedere al buio (Sossella, 2007), Vanità della mente (Mondadori, 2011, Premio Viareggio). Ha curato i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura (Mondadori, 2001) e, con Stefano Dal Bianco, Andrea Zanzotto, Le Poesie e prose scelte (Mondadori, 1999). Del 2009 è il non-fiction Padroni a casa nostra (Mondadori). I suoi libri di narrativa: Un dolore riconoscente (Transeuropa, 2000), Tuo figlio (Mondadori, 2004), Vita della mia vita (Mondadori, 2006), Alla fine di un’infanzia felice (Mondadori, 2013), Satyricon 2.0 (Mondadori, 2014), Bestia da latte (SEM, 2018). È direttore artistico del festival Pordenonelegge.

Di seguito l'intervista di Rai Letteratura.


Qual è stato il punto di partenza di questo libro? 
A dirlo sembra incredibile. Mi sono ritrovato a scrivere il primo capitolo guidato dalla voce di Tilio, il primo dei protagonisti a comparire. C’era solo quello, la sua voce, e con la voce ha preso vita il suo armeggiare con le candele, la chiesa, l’oscurità, il gelo … Fredi invece, l’altro protagonista, è venuto fuori prima come presenza di uno sguardo, una fisionomia, un corpo. 
Certo, era da tempo che mi giravano in testa alcuni temi che danno corpo alle vicende narrate, e pure avevo avuto motivo di prestare attenzione alle chiese fissandomi sul loro speciale habitat e sulla continuità di “relazione a distanza” che riguarda anche chi non le frequenta per niente, ma poi si ritrova per i battesimi, le cresime, i matrimoni, i funerali, il turismo (e quest’ultimo non lo aggiungo a caso). Però il punto di partenza vero è stato, come ho detto, una voce, che è diventata Tilio.


I due protagonisti hanno avuto vite molto diverse, l’uno ha fatto l’ufficiale, è stato missionario in Giappone, l’altro ha fatto l’operaio e non si è mosso dal paese. Si può dire che quello che hanno in comune è il fatto che continuano a porsi domande sulle scelte fatte?
Potremo dire la stessa cosa, un po’ a rovescio, ovvero che le scelte fatte continuano a porre domande a loro. La vicinanza che si viene a creare, inattesa da entrambi, crea un’intimità (forzata all’inizio, poi accettata e infine apprezzata) che li obbliga al confronto su tutto. Così le scelte fatte in passato ritornano a chiedere del presente. È però anche la vita stessa che ci espone sempre a considerare chi siamo diventati, se è così che possiamo affrontare quello che abbiamo davanti giorno dopo giorno, se dobbiamo adattarci, cambiare o non cambiare per nulla rispetto a qualcosa che ci crea disagio o presenta un’opportunità. Certo, a vent’anni è una cosa e a settanta, a ottanta, è un’altra. La diversità delle vite di Fredi e di Tilio è tale da far sì che il confronto apra margini di coscienza inattesi.


L’azione del romanzo si svolge quasi tutta all’interno di una chiesa eppure il modo di concepire la religione di Fredi e Tilio è problematico, sono un sacrestano e un apprendista sacrestano molto particolari…
C’è un impianto “teatrale” che permette di far parlare i corpi, gli sguardi, i silenzi. Da questa creaturalità, da questo primato della prossimità che crea una sfera biologica, prima ancora che discorsiva, scaturiscono scintille metafisiche. Nessuno dei due si trova dove si trova in obbedienza a una vocazione. E l’esposizione alla liturgia e alle parole del Vangelo ha risposte diverse. Che cos’è la religione, oggi? Non voglio affrontare la questione in termini filosofici. E neppure ragionare a un livello di comunicazione che toglierebbe al vissuto la sua forza. Per questo è un romanzo e non un saggio o un pamphlet. Mi limito, per un assaggio, a una domanda: “Che cos’è pregare?”. È vero che noi non praticanti, noi razionali, scientifici e tecnologici, addirittura noi agnostici, non preghiamo mai? 


Tra i temi dominanti del libro c’è la vita del paese, l’impossibilità di sfuggire alla maldicenza, al controllo che tutti esercitano su tutti. Può dirci qualcosa a questo riguardo?
Spero che a chi legge il romanzo avvenga spesso di confrontare la comunità che intorno alla chiesa si va sgretolando con le altre forme di relazione che oggi la sostituiscono, non meno dedite alla maldicenza e sottoposte al controllo. La domanda diventa questa: fino a che punto queste nuove forme di relazione determinano un disagio sul piano che – forse con parola altisonante – si potrebbe definire “antropologico”? La risposta del romanzo porta verso il cinismo, da un lato: è necessario non fidarsi di alcuna gerarchia di valori, non dare per valida alcuna forma vigente degli affetti. D’altro lato però c’è anche la convinzione che senza valori e affetti non si può vivere, e quindi il cinismo, preso sul serio, costringe a credere alla vita, senza illusioni, ma con tenacia.