Marco Bussagli, Orkney
Una chiesa italiana alle Orcadi
Così dopo mesi di lavoro spiegò Emanuel, arrivò il momento della cerimonia di inaugurazione. Per fortuna, quel giorno c'era il sole. Il maggiore si era messo la divisa delle grandi occasioni e i soldati avevano piantato un nuovo pennone sul quale sventolava, accanto a quello con il solito Union Jack, il tricolore anche se un po' scolorito
Marco Bussagli ha insegnato Iconologia per la specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna all’Università L.U.M.S.A. di Palermo e Arte Contemporanea alla Facoltà di Architettura de La Sapienza di Roma (Valle Giulia). Ha al suo attivo più di duecento pubblicazioni tra testi scientifici, voci enciclopediche, articoli di alta divulgazione e libri, tradotti in Inglese, Francese, Tedesco, Polacco, Russo, Giapponese e Coreano. Curatore di mostre di successo, come Il ‘400 a Roma (con Claudio Strinati) ed Escher (Roma, Chiostro del Bramante), fra i libri più recenti: Bosch. Tavole di diverse bizzarrie e Il Cristo velato. È cavaliere della Repubblica Italiana per meriti artistici e scientifici.
Di seguito l'intervista per Rai Letteratura.
Per prima cosa vorrei chiederle come mai un affermato storico dell’arte e curatore di mostre, invece di scrivere uno dei suoi dotti e accuratissimi saggi, ha scelto la forma romanzo, per raccontare questa storia ?
Scrivere mi è sempre piaciuto. Lavorare come giornalista esterno per quotidiani e mensili e svolgendo contemporaneamente anche attività accademica con libri di ricerca e saggi scientifici mi ha insegnato a usare la meravigliosa lingua italiana come un armadio da cui prendere il vestito che serve secondo il luogo che bisogna frequentare. Naturalmente, ciascuno di quei ‘vestiti’ ha, nel bene e nel male, il mio stile. Così, per una storia come quella di Orkney, mi pareva più bella e adatta la dimensione del romanzo che, per me, era pure la più divertente. Non che scrivere un romanzo sia meno impegnativo di un saggio scientifico. Dopo aver pubblicato il libro, ho fatto i conti e ho dovuto constatare che ho impiegato sei anni a scrivere il testo. Per incastrare storie e personaggi ho costruito veri e propri schemi che, però, non si colgono leggendo. Mi sono mosso un po’ come per una sceneggiatura, con la cinepresa in mano, trasformata prima in penna e, poi, nella tastiera del computer.
Come è venuto a conoscenza della storia dell'Italian Chapel?
È stato inaspettato e divertente. Nel 2008 prima e nel 2012 poi, insieme a Maria Grazia Bernardini, curai due mostre per quella che allora si chiamava Fondazione Roma, dedicate a due stagioni artistiche importanti della città eterna: Il ‘400 a Roma e Rinascimento a Roma. Una delle particolarità di queste esposizioni era la presenza di riprese digitali ad altissima definizione realizzate con l’ITR 100, una sofisticatissima macchina laser inventata dall’équipe dell’ENEA guidata allora dal suo inventore, Giorgio Fornetti. Come spesso accade in questi casi, diventammo amici. Un bel giorno, mi chiamò l’ENEA e mi dissero: dobbiamo vederci perché c’è un lavoro da fare a Orkney. Mi precipitai e Luigi De Dominicis, inventore anche lui di una versione subacquea dell’ITR100, mi spiegò che per avviare al meglio il rapporto con l’Università di Edimburgo, avevano pensato di realizzare una scansione totale dell’Italian Chapel. “E io che c’entro?” dissi. “Come? Tu devi studiare l’Italian Chapel!”. Così iniziò quell’avventura. Poi della scansione e dei rapporti con le multinazionali del petrolio che erano interessate alla versione subacquea dell’ITR 100, non se ne fece nulla. Però, tutti i miei sforzi e quelli di Luigi De Dominicis non andarono perduti. Insieme a Gabriella Tamburello, allora titolare della società Livoil, realizzammo una bella mostra fotografica sull’Italian Chapel esposta prima a Roma e poi a Lamb Holm, l’isoletta dove si trova l’Italian Chapel.
Potrebbe raccontare in breve la trama e quanto ha inventato e quanto invece è invece realmente accaduto?
Beh, è difficile tracciare una linea di demarcazione netta fra quello che è inventato e quello che è vero, anche perché, a differenza di quanto deve accadere in un saggio scientifico, dove si deve capire con chiarezza quel che è certo quel che è ipotetico, qui il bello è proprio il contrario e più sembra vero quello che non lo è, più il romanzo è riuscito. Anzi, l’abilità di chi scrive un racconto come questo, sta proprio nell’intrecciare verità e fantasia. Faccio un paio di esempi. Frank Chapman è un personaggio inventato, ma Roy Chapman, che nel romanzo risulta come il padre, è un paleontologo realmente esistito. In quanto personaggio di fantasia, Chapman non è mai andato a Londra, ma quando la trama del romanzo ce lo porta, l’American Embassy dell’epoca si trasferiva davvero, quell’anno, dal numero 1 di Grosvenor Square alla nuova sede del Chancery Building, al numero 3 di New Mill Road, vicino a Batteresa. Così, nelle sue peregrinazioni di fantasia, incontra personaggi reali, come per esempio Sir Charles Cunnigham che aveva veramente la delega del governo inglese per gli affari scozzesi. Insomma, dietro c’è una ricerca storica profonda di cui si vede, com’è giusto che sia, solo la parte funzionale alla narrazione. Infine, tutti i giorni della settimana che Chapman vive, sono davvero i lunedì, i martedì, i mercoledì, i giovedì, i venerdì, i sabato e le domeniche del luglio e agosto del 1959, sono proprio quelli. La trama, poi, è presto detta. Tre lustri dopo la Seconda Guerra Mondiale, John Rocker, patron della grande compagnia petrolifera americana Standard Oil cerca nuovi giacimenti di petrolio. L’interesse si appunta sulle isole Orcadi. Frank Chapman, brillante ingegnere minerario – grazie all’aiuto dalla fidanzata Marilyn Jefferson, segretaria del patron – viene incaricato, di acquistare l’isoletta di Lamb Holm che pare il luogo migliore per collocare le trivelle, senza ricorrere a una più costosa piattaforma marina, come aveva proposto prudentemente Anderson, il rivale di Chapman. Quando Chapman si reca sul luogo, convinto, sulla base di documenti realmente esistenti, che l’Italian Chiapel sia stata abbattuta con lo smantellamento di quello che era il campo di prigionia, si accorge che la chiesetta del “Campo 60”, costruita come omaggio all’Italia dai prigionieri italiani (i P.O.W.) impiegati nella costruzione delle Churchill Barriers, è sempre in piedi. Chapman è disperato, ma conosce il giovane cameriere Emanuel che con i suoi racconti gli fa vivere quegli anni. Il cameriere rievoca personaggi coloriti e vari episodi che rievocano, davanti agli occhi dell’ingegnere, l’atmosfera singolare di quel luogo, le piccole gioie e gli affanni giornalieri di un microscopico universo che diffondeva, però, una luce di pace e di fede nella tempesta della guerra. Chapman comprende l’importanza di quel monumento e si adopera perché il progetto sia mutato in una piattaforma marina. A questo punto, arriva nelle Orcadi John Rocker che tenta di acquistare l’isola. In una riunione concitata Chapman capisce che Emanuel è il figlio di uno dei prigionieri e che quella chiesa è anche un monumento all’amore. La chiesetta si salverà, ma non la carriera di Chapman.
Mi è sembrato che lei volessi con forza anche sottolineare e portare alla luce l'elemento simbolico che sta dietro a questa storia e cioè il forte messaggio di pace, concordia, comprensione tra i popoli che si legge ben chiaro tra le righe. È stata questa la molla che l'ha spinta a scrivere, dato anche il momento storico che stiamo vivendo, oppure è stato qualcosa di diverso?
Non solo! L’idea che mi affascinava era che il denaro non può comprare né la Storia – quella con la “S” maiuscola, ma nemmeno quella di ciascuno di noi, con la “s” minuscola – e meno che mai i sentimenti. Tutti i milioni di dollari di John Rocker non sono serviti a niente davanti alla forza della memoria e a quella dei sentimenti. L’altro aspetto che mi affascinava è che una piccola comunità, come quella degli Orcadiani, ha sfidato e vinto un gigante economico come la Standard Oil che, in realtà, solo fino negli anni Trenta, aveva il monopolio del mercato petrolifero. Nel romanzo, lo strapotere della compagnia petrolifera è stato prorogato fino agli anni Sessanta per ragioni narrative, ma per la verità a quell’epoca l’anti-trust americano l’aveva già ‘spacchettata’ in compagnie minori per favorire la concorrenza di mercato. C’è poi l’aspetto della guerra e della pace cui si faceva cenno della domanda. Non voglio fare facile retorica, ma devo dire che solo agli italiani poteva venire in mente, in quei momenti neri come la pece, di dedicarsi alla realizzazione di un’opera come la Italian Chapel. Quando andare a sentir la Messa ha qualche cosa di straordinario in un periodo in cui cadono le bombe. La voglia di normalità, un po’ come oggi, no? Mi si permetta un parallelismo con queste giornate d’emergenza dovute al Covid-19, anche perché nel romanzo c’è un corposo inserto sulla pestilenza di Edimburgo del 1644, quando centinaia di persone furono murate vive nelle loro case per evitare il propagarsi del contagio. Chapman visita, per errore, il Mary’s King Close che non era ancora museificato come oggi e tocca con mano l’assurdità e la crudeltà della Storia, quella che passa sulle teste di tutti senza guardare in faccia nessuno. Allora, anche nel Campo 60, come dimostrano le fotografie che ci sono arrivate, volevano che i giorni fossero “normali” e che, al di là del lavoro per la costruzione delle Churchill Barriers, ci fossero il biliardo, lo sport, gli incontri di calcio e di pugilato. In tutto questo, l’arte era una straordinaria alleata. I POW italiani realizzarono prima il monumento a San Giorgio e, poi, la chiesetta. Nel romanzo, ho immaginato – ma non credo di essere molto distante dal vero – che quel manipolo di artisti improvvisati si sia servito di un mazzo di preziose cartoline perché le citazioni delle opere d’arte e dei monumenti italiani che hanno costituito il programma decorativo della Cappella di Lamb-Holm sono troppo precise e puntuali per essersi affidati alla sola memoria. C’è poi la luce della Fede che illumina tutto questo e trasforma in un faro di speranza quella piccola chiesa.
La Baltimora della Standard Oil ma soprattutto Edimburgo e le Orcadi sono anch'esse protagoniste, nemmeno tanto occulte del libro. Si comprende che lei ha visitato quei luoghi e che questi hanno lasciato traccia in lei. Cosa può dirci a questo proposito?
Sì, i luoghi nel romanzo sono protagonisti, almeno quanto i personaggi! Sono tutti luoghi veri e, in gran parte, visitati personalmente, anche se in epoche e situazioni nelle quali non avrei mai pensato di scrivere un romanzo. Sono ricordi che risalgono ai primi anni di università, quando giravo i musei europei per la mia formazione professionale. Poi sono tornato in quei luoghi altre volte, ma le vivide impressioni che stanno nella mia mente sono di quegli anni. Eravamo un manipolo di ragazzi che, con un pulmino, per un paio d’anni, d’estate, siamo andati girando in Svizzera, Francia, Olanda (studiavo anche quella lingua – che mi è stata utile, nonostante le mie limitate conoscenze, per le grandi mostre su Escher che ho curato, fra il 2014 e il 2017 in tutta Italia – sotto la guida di Franco Maria Messina, uno dei più grandi linguisti italiani) e Gran Bretagna. Tutti guidavamo a turno e, a furia di guidare, arrivammo fin sulle coste settentrionali della Scozia, oltre il Vallo di Adriano, l’Adrian Wall. Non avrei mai pensato che, vari anni dopo, avrei superato lo stretto per visitare le Orcadi. Quando arrivai con i miei amici ad Edimburgo era appunto agosto e c’era davvero il Royal Edinburgh Military Tatoo. Avevamo prenotato negli ostelli della gioventù (allora la mia età me lo poteva permettere) e non avemmo nessun problema come nel romanzo è capitato a Frank Chapman. Edimburgo è bellissima e nelle vetrine dei negozi non è affatto difficile trovare il Nessie di ceramica che il protagonista compra e vede nella vetrina del Miss Katie Cupcake che esiste veramente. Non so se oggi lo venda ancora, ma io l’ho visto lì. In ogni modo, la sfida della mia scrittura era fare in modo che il lettore avesse i miei occhi e ricevesse le mie impressioni. A farsi da tramite è Frank Chapman che racconta le sue peripezie. Lì dove non sono andato, ho visto il mondo attraverso internet, come per la California University di Los Angeles il cui edificio principale è stato davvero costruito con le forme e lo stile romanico del Sant’Ambrogio di Milano. Non basta, però, la mia ricerca si è estesa anche agli oggetti, che sono tutti quelli dell’epoca: dal Boeing 707, alla fiammante Chevrolet Bell Air del 1957 che Chapman ha comprato con i primi soldi, all’Olivetti Lettera 22 che si porta sempre dietro fino a concludere con il Titan bus della Leyland che attraversa la piovosa campagna scozzese.