Canto 29 - Visioni d'incanto

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

E’ ancora mercoledì 13 aprile, anno giubilare. Cielo nono, Primo Mobile.
La teologia predomina anche in questo canto, dove il tono – tranne all’inizio (ma dal verso 13 al 21) e alla fine – è monotono, didascalico. L’incipit, difficile, vuol simboleggiare il breve tempo in cui Beatrice tiene gli occhi al punto infinitesimale che irradia vita all’universo. Questa l’immagine astronomica: quando i figli di Latona (Apollo e Diana, cioè il Sole e la Luna), in congiunzione il primo con l’Ariete e la seconda con la Bilancia (Libra), fanno entrambi cintura all’orizzonte (stanno cioè sulla stessa linea in posizione opposta) in modo che lo Zenit è equidistante da essi; appena uno tramonta e l’altro nasce, l’orizzonte rimane privo di uno di loro, e il tempo è breve in tal movimento: così Beatrice, per un momento non più lungo della sparizione di uno dei due segni zodiacali, prima di parlarmi, fissò Dio.
E qui viene estrinsecato il mistero della creazione degli angeli, fatti da Dio non per acquistare un bene ulteriore (il che è impossibile essendo Egli il culmine del Bene), ma per puro atto d’amore affinché gli esseri potessero dire ‘Io esisto’, e ciò è avvenuto fuori del tempo, cioè nell’eternità, e fuori “d’ogni altro comprender” (v. 17), cioè lo spazio. Ma il Fattore Supremo si stette inoperoso avanti la creazione? Essa non ebbe né un prima né un poi. Tutto è avvenuto dentro l’eternità, se questa definizione è lecita. Ma contemporaneamente il Signore ha scoccato tre frecce da un arco provvisto di tre corde: la forma pura (gli angeli, immateriali), la materia in sé (informe e primigenia), e i cieli (“forma e matera, congiunte…”, v. 22). Così, come un raggio luminoso trapassa in un attimo infinitesimale il vetro, l’ambra o il cristallo; alla stessa maniera la triplice creazione scaturì da Dio istantaneamente. Non solo, ma in modo sincronico con esse sustanze vennero creati l’ordine e la struttura dell’infinito; gli angeli furono posti alla cima nel mondo in quanto prodotti come puro atto; la materia corruttibile fu posta ad imo (in basso); in mezzo i cieli legati con un vimine impossibile a slegare. San Girolamo, nel commentario (Super Epistulam ad Titum) scrisse che lungo tratto di secoli separa la creazione degli angeli da quella del mondo (san Tommaso confutò tale dichiarazione nella Summa), “però la verità è il mio primo detto, che tu troverai nelle Sacre Scritture. Infatti, se la contemporaneità della creazione fosse negata, gli angeli, intelligenze motrici dei cieli, non avrebbero assolto il loro compito rimanendo imperfetti per tanto tempo, nel senso che i cieli senza gli angeli non avrebbero avuto moto. Ora sappi che non giungeremmo a contare fino a venti, tanto fu breve il tempo che trascorse dalla creazione alla ribellione di una parte di essi (Dante calcola un decimo, ma è da aggiungere pure quelli che non si schierarono da nessuna parte) che turbò la Terra. Quelli che restarono fedeli a Dio, sono nell’Empireo, girando intorno al perno dell’universo, con gioia somma. Causa della caduta fu la superbia di Lucifero, colui che tu vedesti schiacciato da tutte le gravezze del Creato, mentre quelli che tu puoi mirare qui, riconoscendo la bontà di Dio nell’averli creati, furono umili: quella umiltà, che li rese grati a Chi li aveva dotati di intelligenza, ebbero in premio l’accrescimento di questa facoltà, e la loro volontà ‘è confermata nel bene, così che non possono più peccare’ (Benvenuto da Imola)”. Ed ecco, nei versi 64-66, un nodo cruciale nel pensiero teologico che Dante vuole precisare: “ricever la grazia è meritorio, / secondo che l’affetto l’è aperto” (la Grazia è un dono gratuito di Dio, d’accordo, ma il Poeta si districa con geniale espressione nella quaestio: negli angeli Essa venne infusa per merito, cioè l’essere rimasti fedeli al creatore. Allora? Beatrice comprende che per Dante il discorso presenta un dubbio, almeno il sorgere di un equivoco nella dualità d’un’apparente contraddizione, e la spiega così: la Grazia è dono di Dio, ma l’accettazione da parte della creatura costituisce il merito).
Beatrice entra ora in una nuova problematica angelologica: gli angeli – si insegna nelle scuole di teologia in Terra – possiedono intelletto, memoria e volontà che sono attributi umani? E’ questione di “distinguo” nella terminologia e qui da noi uomini si entra nell’equivoco. Gli angeli, mirando sempre in Dio che li rende felici fin dalla creazione, non hanno bisogno di ricordare, perché la loro beatitudine non viene interrotta da qualsivoglia concetto; perciò alcuni predicatori, nel mondo, sognano ad occhi aperti affermando falsità a cui credono, e, se non vi credono, il loro peccato è ancor più grave.
“Voi non andate giù per un sentiero/ filosofando: tanto vi trasporta/ l’amor de l’apparenza e ‘l suo pensiero” (v. 85-87): la vanità è più forte della verità: questo in parole povere. Infatti, i teologi che si discostano dalle Sacre Scritture lo fanno per portare avanti tesi false: essi non pensano a quanto sangue è stato sparso (da Cristo ai suoi seguaci martiri) per diffondere e difendere la Rivelazione (di cui qui si conferma la centralità assoluta e insostituibile). Dio gradisce ed ama maggiormente chi si avvicina alla Sua Parola con umiltà di cuore e di intelletto. Certuni affermano che quando Cristo morì sulla Croce, la Luna tornò indietro nel suo moto ponendosi fra la Terra e il Sole, provocando così un’eclissi; ma ciò è falso, perché “la luce si nascose/ da sé” (v. 100-101), tanto che gli Indiani, gli Spagnoli e gli Ebrei videro oscurarsi il cielo (cioè: tutto il mondo).
Dal verso 103 sembra che il tono riprenda vigore anche lirico (non uso il vocabolo “poetico”, perché la parola poesia non si riduce al significato che dal tardo Romanticismo le si dà).
Firenze non ha tanti Lapo e Bindi (Jacopo e Ildebrando: nomi comunissimi in quella città) quante sono numerose le favole che da pergamo si predicano, sicché i fedeli, che non sanno a fondo le verità della Fede, tornano dalle chiese alle case “pasciute di vento” (v. 107, riferito alle pecorelle), e purtroppo non sono scusati (i fedeli) nella loro ignoranza. Infatti, Cristo non ordinò agli Apostoli di andare nel mondo a raccontare ciance, ma la verità poggiata su fondamenta solide, e quella dottrina echeggiò dalle bocche dei primi seguaci (alcuni per “sue guance” intendono Gesù) tanto che nella battaglia della Fede essi “dell’Evangelio fero scudo e lance” (v. 114). Ora si predica con motti e detti beffardi (iscede è vocabolo arcaico): basta far divertire e il prete si gonfia di presunzione e non chiede altro.
Seguono nove versi puntati contro le indulgenze fasulle che fanno arricchire chi le dispensa, danneggiando i credenti. Poi (v. 124-126): “Di questo ingrassa il porco sant’Antonio, / e altri assai che sono ancor più porci,/ pagando di moneta senza conio”.
Non credo che abbia torto il Tommaseo, quando afferma che questa terzina, messa in bocca a Beatrice, “non è degna del Paradiso”. Ma Dante ci ha abituati a tali scatti di stile; la sua veemenza è incontrollata, sebbene coerentissima specie quando si tratta di castigare i costumi corrotti degli uomini di Chiesa, cosa che gli sta più a cuore proprio perché si trova nel luogo santo dei Cieli: la corrispondenza antifrastica tra il peccato dell’avidità del denaro e i personaggi premiati dal Creatore perché operanti, in vita, nella povertà evangelica, ci riporta sempre alla speranza del Veltro, il quale “non ciberà terra né peltro,/ ma sapienza, amore e virtute” (Inferno, c. I, v. 103-104). Inoltre, prima di spiegare l’espressione di Beatrice, bisogna sottolineare – se ce ne fosse bisogno – l’assoluta Fede di Dante alle Scritture, specie il Vangelo e i primi martiri di Cristo. Egli è fortemente ortodosso in questo, anche se si prende alcune libertà nella sistemazione dei beati (cfr. canti XI-XII già commentati) tanto che qualcuno parla di una “sua teologia”, ma nulla, assolutamente nulla, fa dubitare della granitica sua Fede nella Rivelazione, la quale va oltre ogni possibile scandaglio razionale della limitatezza umana (cfr.: “Avete il novo e ‘l vecchio testamento,/ e ‘l pastor che la Chiesa che vi guida; / questo vi basti a vostro salvamento”, Pd, c. V, v.76-78).
Sembra che gli antoniani (ordine di sant’Antonio Abate) vendessero le indulgenze (sappiamo poi come Lutero abbia mosso da tale scandalo la sua Riforma). “Di questo ingrassa il porco sant’Antonio” va letto così: “Di questo ingrassa il porco di sant’Antonio”, in quanto era forma medievale sottintendere la ‘preposizione semplice’ significante proprietà e comunque specificazione (il genitivo). Ora, è necessario spiegare che i frati antoniani avevano l’abitudine di lasciare liberi nei prati i maiali, che la gente allevava nutrendoli “come elemosina”. Per estensione, questo ordine ingrassa il proprio maiale con i soldi delle indulgenze e gli altri porci (gli amici, i parenti, i protetti e anche le prostitute, se stiamo ai commenti dei primi studiosi del Poema).
Beatrice, dopo questa tirata, riprende il filo del discorso: la natura angelica, la quale aumenta di numero così tanto che mai mente umana giunse a definirlo; il profeta Daniele, nel Vecchio Testamento, dice di aver visto in sogno migliaia di migliaia di creature celesti, per cui il “numero determinato si cela” (è nascosto, indefinibile dal nostro concetto). La luce di Dio li illumina tutti ugualmente, ma gli angeli la recepiscono (e riflettono) in modo diverso: è questione di gradazione della carità. Ma il Creatore, pur avendo fatto tanti specchi (gli angeli ), resta perfetto, totale e uno.