Canto 10 - Visioni di circolari

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Siamo nel quarto cielo, quello degli spiriti sapienti. Essi danzano e cantano uniti in corone concentriche.
La protasi (definiamola così) è lunga 27 versi. Ancora una volta il Pellegrino esorta il lettore ad elevare gli occhi verso le alte rote per contemplare con forza amorosa la perfezione dell’universo creato da Dio. Ma c’è un monito: “Io ti ho preparato la tavola col cibo: ormai mangia da solo, in quanto l’argomento, la materia di cui io sono stato eletto scriptor, mi impegna totalmente”.
“Il sole, il ministro maggiore del creato, che ci permette di misurare il tempo, e, dato che siamo in primavera, nasce ogni giorno prima del dì precedente, mi accoglieva, sebbene io non mi fossi avveduto dell’ascesa allo stesso modo che non ci si accorge della venuta di un pensiero prima che esso si realizzi. E’ Beatrice a guidare me da un bene a uno più grande, ma lo fa con tale velocità, da essere fuori del tempo”.
Considerato che Dante è sul Sole, massima luce a noi relativamente vicina, lo splendore dei beati, che si distingue per intensità e non per colore dal fuoco della nostra stella, riempie di meraviglia il Poeta, il quale, già usando la recusatio, si confessa incapace di descrivere ciò che vide. D’altronde, mai occhi umani scorsero qualcosa che superasse il Sole.
In questo modo ineffabile stava qui la quarta famiglia (stuolo di beati), dimostrando ai sapienti il mistero della Trinità.
Beatrice invita Dante a ringraziare la luce divina che illumina gli angeli, per averlo ammesso ed elevato a tanta grazia. Egli immediatamente si immerse nella devozione, tanto da dimenticare la sua giuda per un momento. Né la cosa a lei dispiacque, ma sorrise di compiacimento con le labbra e con gli occhi, tanto che il Poeta non riesce più a concentrarsi nella devozione, tornando a disperdersi in tanti pensieri.
“Io vidi più fulgòr vivi e vincenti/ far di noi centro e di sé far corona,/ più dolci in voce che in vista lucenti” (v. 64-66): la bellezza del canto uguaglia la luce eccezionale del luogo e quella della corona di beati che cinge i due ospiti a guisa dell’alone lunare. Sono cose straordinarie che non si possono portare in Terra anche al solo fine di raccontarle. Dice Dante che chi non ha le ali per alzarsi fin lassù, aspetti le novelle dai muti: impossibile – fuor di metafora – descrivere l’indescrivibile. Comunque, quei soli (gloriosi nel Sole), con voci melodiose eccelse, girarono tre volte (questo numero è simbolico della Trinità) intorno ai due, arrestandosi taciti per ascoltare la ripresa da parte di chi guida la danza. E costui è san Tommaso d’Aquino, il quale dichiara che chi negasse a Dante il vino del suo contenitore onde spegnergli la sete, non starebbe in condizione di libertà al pari di un fiume che non sfoci al mare.
“Tu vuoi sapere di quali piante si infiora questa ghirlanda che guarda con dolcezza la donna che ti porta seco al cielo. Io appartengo al gregge che san Domenico conduce al pascolo dove ci si impingua (spiritualmente) se non si seguono cose vane. Questi che mi è a destra, fu mio confratello e maestro, Alberto Magno, ed io Tommaso d’Aquino.
Quell’altro splendore esce dal sorriso gioioso del monaco camaldolese Graziano (autore del Concordia discordantium canonum), gradito a Dio. Ancora: Pietro Lombardo (autore dell’opera Libri quattuor sententiarum, che fu di riferimento a molti teologi medievali), la quinta luce è lo spirito di Salomone, di cui il mondo è assetato di notizie: egli possedette tanta e tale sapienza, che a veder tanto non giunse il secondo (v. 114)”.
Non spiego adesso il significato del verso, perché Dante tornerà su questo e sul ben s’impingua se non si vaneggia nel XII canto.
Seguono Dionigi l’Areopagita (fu san Paolo a convertirlo al cristianesimo), autore di opere lette anche da Dante, fra cui Mistica theologica e De divinis nominibus; una ‘piccioletta luce’ che fa pensare a Paolo Orosio più che – come vogliono alcuni – a sant’Ambrogio, il quale semmai sarebbe stato definito immensa luce. Ora, che Dante dica “del cui latin Augustin si provvide” non è necessariamente un riferimento ai rapporti di questo grande santo-filosofo con sant’Ambrogio. Si sa per certo che, al tempo della scrittura del De civitate Dei, Agostino chiese allo spagnolo Orosio che scrivesse un testo storico sui tempi barbarici del saccheggio di Roma: e nacque Ormesta mundi. L’ottava luce nasconde Severino Boezio, autore del De consolatione philosophiae, in cui dimostra la fallace vanità delle cose del mondo. Poi vedi Isidoro di Siviglia, il Venerabile Beda e Riccardo da San Vittore (chiamato Magnus contemplator).
“Questa che chiude la corona iniziata con me, è la luce di Sigieri di Brabante, il quale insegnò a Parigi, nel Vico degli Strami, e compose opere di tale profondità argomentando la verità per sillogismi, da suscitare invidia nel cuore di molti”.
Qui bisogna fermarci per due motivi. Il primo riguarda la presenza, in questa corona (ma ne vedremo altre di tale tipo anche nella seconda), di personaggi che Dante mette vicini e che invece, in vita, furono lontanissimi fra loro per idee, fino a combattersi. E’ proprio il caso di Sigieri di Brabante, di cui san Tommaso tesse le lodi: proprio quest’ultimo scrisse il De unitate intellectus in opposizione alle tesi del professore dell’università parigina. Sigieri fu chiamato dal tribunale dell’inquisizione a discolparsi, ma lui si presentò direttamente al papa. Fu assassinato da un inserviente ma il motivo non è chiaro. Comunque, il fatto che Dante lo ponga nella prima corona prendendosi una libertà di giudizio riguardo alla dottrina canonica, ha fatto e fa discutere gli studiosi, i quali sostengono – in maggioranza - che Sigieri ha influito molto sul Poeta col suo pensiero basato su quello di Artistotele e Averroè, ma ci sono agguerriti critici che si schierano per il solo motivo secondo cui Dante andava oltre la teologia e la dottrina della Chiesa, con una sorta di trasgressione illuminata grazie alla quale è il più attuale, universale e moderno dei poeti-filosofi non solo della nostra letteratura (scrive Jorge Luis Borges: “Credo che la Divina Commedia sia il massimo di tutte le letterature). Il secondo motivo si riferisce alle parole “Vico degli Strami”, che è a Parigi. Certuni vorrebbero dimostrare con questa conoscenza del luogo, che Dante vi si fosse recato, per cui troviamo in alcune biografie il dubbio (possibile più che teoricamente probabile) di un viaggio del Poeta nella città francese, ma non ci sono prove probanti.
Gli ultimi dieci versi sono bellissimi: si basano su una similitudine che richiama il destarsi mattutino dei frati per andare in chiesa quando l’orologio li chiama a pregare perché si stringa ancor più il legame d’amore fra gli uomini e Dio. Il cerchio dei beati si muove come le lancette della sveglia, e un coro dolcissimo incanta il Pellegrino, il quale non sa descriverlo nella sua dolcezza che non può essere ascoltata se non là dove il gioire s’insempra (neologismo del Poeta, che significa eternarsi).