Canto 2 - Visioni di astri

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati
E’ ancora il mercoledì 13 aprile.
Questo canto passa, imprecisamente, come “il ragionamento sulle macchie lunari”. E’ vero, ma non è tutto qui.
Iniziamo con la protasi, d’importanza vitale per tutta la cantica. Dante avverte i lettori non “iniziati” alla teologia, e comunque non in grado di intendere le grandi questioni che vi saranno trattate, di non seguirlo (coloro i quali sono in piccioletta barca), altrimenti rimarrebbero smarriti. Ma quelli che hanno assaporato il “pan de li angeli” (terminologia biblica che intende le cose divine) possono mettere il loro naviglio al seguito del Poeta. Poi c’è una terzina che richiede una non breve spiegazione (come accade sempre nella stringatezza dantesca, poiché l’Alighieri ritiene che tutti i suoi lettori abbiano la sua cultura e non si perita di illustrare i suoi riferimenti esemplificativi, purtroppo). “A voi accadrà di meravigliarvi leggendo quanto attiene al mio viaggio in Paradiso, mentre gli eroici Argonauti giunti nella Colchide lo fecero molto meno (al confronto) quando videro Giasone ridotto a fare il contadino”. Ecco perché: Giasone, arrivato nella Colchide per impadronirsi del vello d’oro, doveva sostenere diverse prove, fra cui quella di domare due buoi forniti di corna ferree. Dopo averli soggiogati, doveva attaccare l’aratro ad essi e dissodare un terreno in cui avrebbe piantato denti di serpe, da cui sarebbero nati uomini con un corredo di armi. Siccome la cosa strabiliante mosse a sorpresa i presenti, Dante dice che la loro meraviglia fu niente in confronto a quanto succederà a chi seguirà il solco della sua nave in mare aperto.
Ma qui, con l’occasione delle macchie lunari, il cui motivo vedremo fra poco, Dante apre all’universo, che “squaderna il volume unitario di Dio” (concetto che troveremo nel XXXIII canto). Siamo di fronte a una grandiosa visione del cosmo, che non la scienza riesce a piegare, ma la Fede nel Motore Primo.
Le opere che precedono la “Commedia” (mi riferisco alla Scuola Veneta della didascalia religiosa, con Bonvesin de la Riva e Giacomino da Verona) non sono lontanamente paragonabili all’impresa dantesca di mettere in versi (non diremo in poesia, sempre che il significato di essa si adegui alle teorie moderne, mentre in antico poiesis significava creazione, opera nuova: cosa assai importante per non tagliare con le forbici i versi di Dante, specie nel Paradiso, in cui la teologia fa da padrona, ma obbliga anche ad intendere diversamente il concetto di poesia) un apparato filosofico che richiede pazienza di decriptazione e fatica di immersione nei tempi dell’Autore: gli argomenti che a noi oggi interessano marginalmente, erano per lui e per i dotti – ma anche per non poche persone comuni – di importanza principale. Forse sarebbe da citare anche Miguel Asìn Palacios (ormai quasi tutti riconoscono qualche similitudine della Commedia con Il libro della Scala), ma andremmo troppo lontano con le probabilità delle fonti che non possono ignorare neppure i campi Elisi di Virglilio. Se noi non teniamo in mente che, almeno fino a Petrarca, il poeta e il teologo si fondono, non possiamo continuare a leggere il Paradiso, e forse anche il Purgatorio. Con ciò non voglio eliminare l’estrema difficoltà della comprensione insita nelle dimostrazioni di Beatrice (provando e riprovando: procedimento tomistico, che va spostato di ordine, perché prima viene il “riprovare”, cioè dimostrare l’errore, e poi il provare la verità dopo la confutazione), ma tutto il procedimento non si esaurisce nella spiegazione “nuova” delle macchie lunari (di contro a quanto si credeva al tempo dell’Alighieri, che cioè le parti più scure rappresentassero Caino con un fascio di spine in spalla, condannato in eterno da Dio per il suo peccato, oppure le intuizioni scientifiche di Averroè sulle quali non staremo a disquisire), bensì attiene a una visione religiosa dell’universo, unitario nella leggere divina, creato e retto da Dio, non da cause ed effetti fisici, per cui la scienza ( e si legga il Convivio) deve cedere alla metafisica. La cagione delle macchie lunari non è data dalla maggiore o minore densità della materia del satellite, perché se così fosse, nelle eclissi di Sole i raggi passerebbero attraverso gli strati più sottili, mentre così non è. Infatti - spiega Beatrice - le stelle fisse dell’ottavo cielo sono diverse di luminosità l’una dall’altra, e questa differenza non è data dalla densità più o meno marcata dei corpi celesti (vedi Avicenna), ma da virtù diversificate, per cui la differente natura di ciascheduna stella o pianeta provoca la diversità di luce (e, sulla Luna, di macchie più scure). La confutazione di Beatrice alle teorie del Pellegrino si basa quindi su questioni di ordine metafisico, prendendo in considerazione di fondo le influenze celesti: le intelligenze motrici spargono la loro virtù in modi disuguali, e da qui la maggiore o minore chiarità dei corpi ruotanti in cielo. “Per la natura lieta onde deriva,/ la virtù mista per lo corpo luce/ come letizia per pupilla viva” (v. 142-144), cioè la virtù dell’intelletto motore fusa (mista) all’astro (anzi, agli astri, e pianeti - e satelliti diremmo ora) riluce nella materia come la gioia dell’anima si riflette negli occhi, per cui il fulgore più o meno vivo di una sfera celeste promana dalla letizia delle intelligenze motrici.