Canto 14 - Arte

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Ancora incerti se fosse il caso di soffermarci sull'Arte Contemporanea (la intuivamo perfetta in Purgatorio, dura da pensare all'Inferno), entriamo nel Castello di Rivoli. Materiali luminosi, fotografici, pittorici e sonori tra gli spazi antichi della patrizia dimora. Un contrasto esaltante che ci esalta e ci convince. Alchemica catarsi.

XIV - ARTE (Torino)
Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea
Nato nell’XI secolo come roccaforte militare, il Castello di Rivoli è oggi sede del Museo d’Arte Contemporanea, che presenta una prestigiosa collezione e grandi mostre temporanee in un originale contesto storico-architettonico. La decisione di destinare il Castello a Museo di Arte Contemporanea fu presa nel 1978 e la progettazione venne affidata all'architetto Andrea Bruno, il quale diede vita a uno spazio affascinante e sorprendente, riuscendo a far dialogare forme, strutture e decorazioni del Seicento e del Settecento con il gusto e la cultura contemporanea.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sabato 9 aprile. È l’alba (sulla terra, naturalmente).
Siamo nel terzo girone del VII cerchio, ai margini del Flegetonte. In un sabbione cocente vengono puniti i violenti contro Dio, i bestemmiatori. Sono distesi sotto l’insulto di una pioggia di fuoco. Il contrappasso è chiaro: nella vita terrena le loro facce sfidavano Dio rivolte al cielo; ora debbono giacere al suolo ardente e le loro labbra un tempo aperte alla bestemmia, ora articolano suoni di lamento.
Non è raro (anzi…) che Dante continui nel canto successivo a svolgere il tema del precedente e a concluderlo. Qui, la prima terzina è ancora la narrazione riguardante l’avventura nel bosco dei suicidi. Infatti, l’amor di patria (Firenze) muove a compassione il poeta verso la supplica del fiorentino suicida affinché i due pellegrini raccogliessero le foglie strappate dagli scialacquatori e le porgessero ai piedi “del triste cesto”. Poi, dalla foresta di anime tramutate in legni e fronde, passano a un luogo privo di alberi e arbusti. Infatti, la pianura a cui fa ghirlanda la selva, è desertica. Ed ecco l’inserto morale dichiarato (non si dimentichi il fine della “Commedia”: testimoniare al mondo ‘l’al di là’ per migliorare gli uomini): “O vendetta di Dio, quanto tu dei/ esser temuta da ciuscun che legge/ ciò che fu manifesto a li occhi miei!” (v. 16-18). Parallelismi potenti sorreggono la descrizione del luogo: “Sovra tutto ‘l sabbion, d’un cader lento, /piovean di foco dilatate falde,/ come di neve in alpe senza vento”, similmente a quando Alessandro (il Macedone) vide, nelle regioni afose dell’India, scendere fiamme sulle truppe, e ordinò ai soldati di stropicciare i piedi al suolo per spegnere il fuoco non ancora divampato in giro; così, la sabbia infuocata dalla “grandine” incandescente – a guisa di esca sotto l’acciarino –moltiplicava il dolore. Inutile, vana la continua azione delle mani sul corpo per togliere i chicchi rossi che piovono in eterno. Fuoco dall’alto, rena incandescente sotto: il tormento si raddoppia. Ma la descrizione potente ed esatta (Dante non ha bisogno di inventare iperboli o metafore o parallelismi fuori della realtà) si spezza perché l’attenzione –la curiosità- del pellegrino viene attratta da una sorta di gigante, il quale, al pari di Farinata, sembra non curi il flagello, giacendo “dispettoso e torto,/ sì che la pioggia non par che ‘l maturi” (v. 47-48). Ma il dannato, accortosi dell’interesse per lui, rispose senza attendere la domanda: “Qual io fui vivo, tal son morto” (v. 51). Ecco delinearsi un altro personaggio fiero, oltracotante, ribelle fino all’inverosimile. Infatti, dice chiaro che se Giove usasse i più sofisticati e crudeli mezzi per aver vittoria sul peccatore, fino alla fine dei tempi “e me saetti con tutta sua forza: /non ne potrebbe aver vendetta allegra” (v. 59-60).
Si tratta di Capaneo, che Dante non ammira come invece ha ammirato l’altrettanto inflessibile Farinata. Fu uno dei sette re che assediarono la città di Tebe. Nell’assedio, Capaneo salì sulle fortificazioni deridendo gli dèi protettori del luogo, da Bacco allo stesso Giove che lo incenerì con una saetta. Capaneo fu un uomo di statura gigantesca fisicamente, ma di superbia altrettanto incontenibile. Infatti, Virgilio si scaglia con veemenza contro il dannato, sottolineando, con fine psicologia, che proprio il permanere pernicoso della superbia raddoppia la pena, in quanto la sua stessa rabbia è il tormento maggiore alla sua empietà.
Procedono nel cammino, e la guida avverte l’allievo di non mettere piede sulla sabbia infuocata, bensì di tenersi al limite della selva, da cui scaturisce un rivo, il Flegetonte, il cui colore rossastro ancora, nella memoria, impressiona il narratore. Nella parte alta teneva immersi i violenti contro il prossimo; solcato il bosco dei suicidi, attraversa il sabbione dei violenti contro Dio, la natura e l’arte, per poi precipatere nell’abisso con una cascata rumorosissima. Sia il letto che gli argini del fiume sono in pietra, per cui Dante s’accorse che il passaggio era proprio lì: il fuoco non raggiungeva le onde.
Ma come si formano i fiumi dell’Inferno? Virgilio usa un’allegoria, dicendo che nell’isola di Creta, all’interno del monte Ida, c’è un vecchio immenso, che ha la testa fatta di oro, il petto e le braccia d’argento, la parte inferiore del tronco è di rame e tutto il resto di ferro, tranne il piede destro che è di terracotta. Da qualunque pezzo del corpo sgorgano lacrime a rivi, tranne che dalla parte aurea. Ai piedi del veglio prende via la sorgente del fiume in un corso unico, il quale arriva all’Inferno dopo aver solcato la crosta terrestre, e lo attraversa in tutta la profondità dell’imbuto.