Canto 14 - Ego

Purgatorio

Galleria degli Uffizi-Corridoio Vasariano
Progettato da Giorgio Vasari, il Corridoio Vasariano nacque per la famiglia Medici come passaggio e via di fuga. Attualmente conserva la più grande raccolta al mondo di autoritratti iniziata nel 1664 dal cardinale Leopoldo de’ Medici.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
E’ passato da poco il meriggio dell’undici aprile, lunedì. Siamo ancora nella seconda cornice, quella degli invidiosi. Il canto tredicesimo continua nel presente senza stacco. Infatti, due anime (il ravennate Guido del Duca e il forlivese Rinieri da Calboli) discorrono fra loro sul fatto che “quel pellegrino” sia vivo e “apre e chiude gli occhi a sua volontà” (i purganti di quella zona, avendo cucite col filo si ferro le palpebre, invidiano colui che le ha libere). Chi parla, dopo Sapia, è Guido del Duca, al quale risponde Rinieri da Calboli, dicendo che il nuovo arrivato è in compagnia e pregando Guido, che gli sta più vicino, di interrogarlo, ma con dolcezza, affinché non neghi la sua risposta. “Per la grazia che hai ricevuto, di andare verso il cielo con il corpo, tanto che siamo presi dalla meraviglia perché assistiamo a cosa mai avvenuta prima, dicci donde vieni e chi sei”. Ed ecco una perifrasi in cui Dante non rivela la propria identità (“Saria parlare indarno,/ ché ‘l nome mio ancor molto non suona”: qui bisogna tener presente che nel Medio Evo non era uso fare il proprio nome nella poesia, sebbene l’Alighieri si nomini nel verso 55 del XXX del Purgatorio, ma aggiunge – sapendo di aver violato le regole -: “che di necessità qui si registra”), però indica il fiume che si spazia per mezza Toscana. Al che Guido dice: “Tu parli d’Arno”. Ed ecco che Rinieri chiede all’amico perché mai Dante abbia nascosto il nome della sua città come si fa per le “orribili cose”; e l’anima rispose che quella parte di territorio attraversata dal fiume dovrebbe perire a causa del fatto che la virtù è disprezzata come nemica da ciascuno degli abitanti, temuta come fosse una serpe, al punto che i residenti in quella valle pare siano stati tramutati dalla maga Circe da uomini in porci. L’Arno li vede così vicino alla sorgente, ma col passare dei chilometri, quando si amplia nella portata delle acque, incontra cani rabbiosi e poi addirittura i lupi e quindi le volpi (i pisani), piene di frodi al punto da non temere ingegno capace di ingannarle. E qui Guido fa una specie di profezia, dicendo che sarà utile al pellegrino ricordarla in futuro: Fulcieri de Calboli, nipote di Rinieri, sarà fatto podestà di Firenze nel 1303 e farà “tagliare le teste… di cittadini di parte bianca e ghibellini” (Villani, Cron. VIII), e la “triste selva” (Firenze) verrà lasciata da lui talmente distrutta, che non ritornerà come prima da qui a un millennio. Dante – a tale sciagurata previsione – si accorge che l’altra anima impallidisce, tanto che il dire dell’uno e il pallore dell’altro pungolano la curiosità del Poeta di conoscere i loro nomi. Così veniamo a sapere quanto abbiamo già in parte esposto (Guido fu un gentiluomo romagnolo, signore di Bertinoro nel forlivese), ma il motivo del castigo in questo balzo lo apprendiamo da lui stesso: “Fu il sangue mio d’invidia sì riarso, / che se veduto avesse uom farsi lieto, / visto m’avresti di livore sparso”. Poi indica il suo vicino, Rinieri, pregio e onore del casato ‘da Calboli’, ma peccato che nessuno abbia ereditato la sua virtù! Da questa indicazione, scaturisce una rampogna contro i romagnoli “tornati in bastardi”. Un elenco di nomi, i quali a noi del XXI secolo non dicono più nulla, ma fanno pensare a una sorta di metodo “mnemonico” di Dante che – per sottolineare la decadenza dei costumi dei suoi contemporanei – si fa ‘laudator temporis acti (lo vedremo anche in Paradiso, nei canti di Cacciaguida). Finita l’elencazione di città e casati, l’anima dà commiato al Poeta dicendo: “or mi diletta / troppo di pianger più che di parlare”.
I due pellegrini riprendono il cammino, e il silenzio dei purganti dava loro la certezza che stavano sulla via giusta. Ma ecco, alla velocità della folgore, irrompere una voce: “Mi ucciderà chiunque mi troverà” (è Caino a parlare, il primo invidioso della storia umana); e di seguito: “Io sono Aglauro che divenni sasso” (si legge in Ovidio, Metamorfosi, che Aglauro, figlia di Cerope re di Atene, fu mutata in sasso da Mercurio perché invidiosa dell’amore fra lui e la di lei sorella Erse).
L’aria si era rifatta silenziosa, e Virgilio ammonisce Dante circa gli esempi di invidia castigata, sebbene la visione del Poeta latino sia pessimista circa la volontà degli uomini a seguire le bellezze eterne del Cielo, vòlti come siamo, noi mortali, a puntare il nostro sguardo verso la Terra.