Canto 16 - Oriente

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Eravamo partiti con in tasca il permesso per il Museo Egizio, primato italiano. In quegli oscuri percorsi, la vita è un nonnulla davanti all'immensità del Mistero. Il Libro dei Morti apre alla speranza. Pagine di papiro e di pietra. Il Nilo, le mummie, passioni infantili. Usciamo alla luce. I piedi ci portano, per svago, nei mercati di Porta Palazzo. Frutta, verdura, colore. Ai banchi, i venditori non hanno pelle chiara. Uomini e statue stanno bene insieme. Familiarità spaventose.

XVI - ORIENTE (Torino)
Museo Egizio di Torino

Il museo Egizio di Torino è da considerare come uno dei più importanti musei al mondo in materia, secondo solo a quello del Cairo, esso raccoglie al suo interno numerose testimonianze della cultura Egizia frutto di diverse acquisizioni succedutesi nell’arco dei decenni e dalle campagne di scavo condotte fin dai primi anni del 1900 dal direttore del museo stesso, Ernesto Schiapparelli. Le fortunate campagne dello Schiapparelli portarono, tra le altre, anche alla scoperta della tomba della regina Nefertiti, moglie di Ramesse II, e a quella dell’architetto reale Kha perfettamente conservata e integra nel suo corredo funerario.
Mercato di Porta Palazzo
Costituito da un enorme gruppo di banchi che invade tutte le mattine l'area dietro il centro, in piazza della Repubblica. Nato nel 1825 (prima il mercato centrale era in piazza Palazzo di Città), Porta Palazzo è oggi uno straordinario connubio tra tradizione, immigrazione italiana ed extracomunitaria.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Siamo al sabato 9 aprile, all’alba. Il tempo non è trascorso di molto, perché si è ancora nel III girone, lungo l’argine del Flegetonte, ma si percepisce, di lontano, il fragore di una cascata (il Flegetonte si getterà nel buio del basso Inferno di lì a poco). I pellegrini proseguono sul viottolo libero dalla grandine di fuoco, costituito dalla sponda rialzata del fiume, “quando tre ombre insieme si partiro” (v. 4) da una torma sopraggiunta alla fuga di Brunetto Latini che doveva raggiungere i sodomiti della sua schiera (letterati e chierici). Questi nuovi venuti sono i violenti contro natura che però si interessarono di politica, e alcuni si distinsero nell’impegno morale profuso in essa, per la saggezza e l’onestà. Riflettiamo su questa seconda presenza, ben intervallata, per spazio, dalla prima. Dante ha bisogno di presentare ai lettori degli “exempla”. Gli omosessuali stanno in Inferno. Lo ha dimostrato con il suo maestro. Basterebbe. No: aggiunge un gruppo appartenente a un altro settore della vita pubblica, e non è difficile indovinare il perché. Vediamolo subito.
Con Latini, il poeta non si è espresso nel giudizio, anche perché egli è legato a lui da venerazione e affetto. Si meraviglia d’incontrarlo lì (è una finzione narrativa), però lo loda e gli esterna tutta la sua gratitudine. Fra i nuovi arrivati, invece, ci sono persone con le quali non ha avuto rapporti di amicizia. Costoro, che hanno riconosciuto dagli abiti l’appartenenza di Dante a Firenze (ogni città seguiva una moda di vestire), lo pregano di sostare. E lo stesso Virgilio si esprime così: “a costor si vuole esser cortese” (v. 15).
Il gruppetto di dannati che si ferma (si fa per dire, perché ognuno di essi ruota volgendo il collo verso i due pellegrini, sì che i piedi fanno altro percorso dal volto), manda una specie ci supplica al vivente: “Se la misera condizione di questo luogo malagevole e il nostro viso ulcerato e scuro, rendono spregevoli sia noi che le nostre preghiere, “la fama nostra il tuo animo pieghi/ a dirne chi tu sÈ ” (v. 31-32). Chi parla è Iacopo Rusticucci, il quale indica gli altri due a lui vicini: chi lo precede e chi lo segue (egli, in mezzo, calca le orme di Guido Guerra e sulle sue muove i piedi Tegghiaio Aldobrandi “la cui voce/ nel mondo su dovria esser gradita”, v. 41-42). Rusticucci, guelfo, fu mediatore per la pace tra San Gimignano e Volterra. Tenne cariche di rilievo in Fiorenza; ad Arezzo fu capitano del popolo. E, secondo i commentatori antichi, la causa della sua sodomia fu la moglie, terribile, perversa nelle maniere, per cui Iacopo si allontanò dal nuzial talamo, macchiandosi di quella colpa che lo portò all’inferno. “Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,/ … fu di grado maggior che tu non credi: / nepote fu de la buona Gualdrada: /Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita/ fece col senno assai e con la spada” (v. 34-39).La Gualdrada fu una donna di estrema modestia e di costumi integerrimi; il nipote fu guelfo, guerriero valorosissimo. Filippo Villani (parente del più noto Giovanni) scrive così di lui: “Sprezzatore dÈ pericoli, d’ingegno e d’animo meraviglioso… spesso quasi tolse la vittoria di mano a’ nemici: d’animo alto e liberale, e giocondo molto, da’ cavalieri amato, cupido di gloria”. Tegghiaio Aldobrandi, guelfo anch’egli, podestà di Arezzo nel 1256, è esaltato da Boccaccio quale “cavaliere di grande animo e d’operazioni commendabili e di grande sentimento in opera d’arme”.
Bene. Fin qui non c’è nulla di eccezionale, in quanto l’omosessualità ha prevalso nel giudizio divino sulle opere belle e buone realizzate nel mondo. Ma quanto segue induce a riflettere. Dante pensa, e scrive nei versi 46-51: “S’i’ fossi stato dal foco coperto, /gittato mi sarei tra lor di sotto, /e credo che ‘l dottor l’avria sofferto (cioè gradito);/ ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, / vinse paura la mia buona voglia /che di loro abbracciar mi facea ghiotto”. Sono parole su cui meditare: il poeta è combattuto fra la volontà di abbracciare coloro che operarono onestamente nella vita politica, e il rispetto della punizione divina al peccato contro natura. C’è un moto simile –nel cuore di Dante – a quello provato per Paolo e Francesca. Ma qui l’Alighieri dichiara ai peccatori: “Non dispetto, ma doglia/ la vostra condizion dentro mi fisse…” (v. 52-53): è una confessione dell’assoluta mancanza di disprezzo per gli omosessuali; semmai un amaro dolore nel constatare il fallimento delle loro attività pur indirizzate al bene, ma non a quello spirituale. Comunque, Dante non abbraccerebbe alcuno (sia pur non dannato agli inferi) senza un motivo eccellente. È un punto di contrasto nella realtà delle pene e del cuore del poeta. Bisogna tenerne conto.
Rusticucci chiede al Fiorentino ancor vivo notizie della loro comune patria, poiché Guglielmo Borsiere, venuto da poco, ne ha portate di pessime. Dante conferma, condannando le “nuove genti” che hanno sradicato le magnanime tradizioni (di cui parlerà distesamente Cacciaguida nei suoi tre canti in Paradiso) con la corruzione dei costumi e l’avidità del guadagno.
I tre raccomandano a Dante di ricordarli fra i vivi, e si allontanano per ricongiungersi velocemente al gruppo.
Ora, bisogna tornare un attimo alla chiusa del canto precedente, in cui si parla di Andrea dÈ Mozzi, sodomita, vescovo di Firenze, trasferito dal papa Bonifacio VIII a Vicenza dove concluse la vita nel 1296. Costui è descritto con disprezzo, perché oltre la sodomia, brigò per arricchirsi con la sua carica ecclesiastica.
A questo punto, fuggiti di gran corsa i tre dannati, Dante e Virgilio si avvicinano alla cascata fragorosa. Il poeta dice di essersi sciolto dalla vita una corda e di averla data a Virgilio, il quale la getta nel burrone profondo. La valenza simbolica è oscura, ma comunque l’atmosfera prelude a qualcosa di eccezionale. Dante giura sulla sua “Comedìa” (per la prima volta chiama così il suo poema) –rivolto ai lettori, naturalmente – di aver visto galleggiare nell’aria, e venir su dall’abisso oscuro, una figura da far meraviglia a tutti, la quale pareva muoversi nell’aria come un nuotatore nell’acqua quando emerge da una risalita.