Canto 17 - Visioni d'Egitto

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

Questo canto è di importanza vitale nel poema: c’è la dichiarazione, da parte di Cacciaguida, della provvidenzialità del viaggio dantesco.

Il Pellegrino, dopo aver ascoltato le oscure profezie sul suo futuro, sia in Inferno che in Purgatorio, vuol conoscere ora dal suo trisavolo il significato esatto di esse. Gli accade come a Fetonte, il quale aveva sentito dire di non essere figlio di Apollo, per cui si rivolge alla madre Climene per sapere la verità. Rassicurato da lei e dal padre (Apollo), ha quale testimonianza di questa certezza il permesso dal dio di guidare il carro del Sole, ma Fetonte, inesperto, manda i cavalli fuori pista e viene fulminato da Giove. Tale accadimento “ancor fa li padri ai figli scarsi” (v.3), cioè quell’esempio rende i genitori prudenti nel cedere alle richieste dei figli. Così, invitato da Beatrice a parlare (con la stessa giustificazione portata all’inizio del canto XV: un espediente letterario che faciliti la comprensione al lettore), Dante inizia: “Cara mia radice, che tanto ti innalzi; come le menti terrene comprendono che dentro a un triangolo non possono starci due angoli ottusi, con la stessa facilità tu leggi in Dio il futuro. Quando ero con Virgilio nei due regni ultraterreni, prima di salire qui, mi furono dette parole allarmanti sul mio avvenire, sebbene io mi senta tetragono ai colpi di sventura. Dimmi quale sorte mi si appressa, e io sarò contento di conoscerla, poiché la saetta prevista sembra più lenta a colpire e quindi meno dura”.

Con linguaggio chiaro quell’amor paterno rispose risolvendo – attraverso un’immagine potente ma comunque ambigua, almeno per alcuni commentatori – il problema del libero arbitrio che si potrebbe scontrare con la preveggenza: questa porta in ballo la necessità stabilita a priori dell’accadimento di una cosa, ma Cacciaguida spiega che gli avvenimenti futuri sono sì presenti in mente Dei, ma lo sono come il percorso di una nave su un fiume visto dall’alto. “Da Dio arriva a me il tuo avvenire, non diversamente che all’udito giunge l’armonia di un organo”.

Dopo questo argomento difficile nel tentativo di conciliare la previsione del futuro col libero arbitrio che può mutare il domani e renderlo imprevedibile, Cacciaguida continua con un esempio preso dalla mitologia: Ippolito, accusato dalla matrigna di averle avanzato proposte oscene (mentre era stata rifiutata lei dal giovane figlio di Teseo, Ippolito appunto), fu costretto ad andarsene da Atene. “Alla stessa maniera tu dovrai partirti per un’imputazione falsa contro di te. Ciò già si sta armeggiando in tuo sfavore, tanto che presto tutto sarà realizzato dalla Curia Romana, luogo di avidità terrene, di mercato. La colpa ricadrà sui vinti, come sempre accade, ma non mancherà la giusta punizione dei veri rei, la quale ti vendicherà. Tu lascerai ogni cosa più amata, e questo è lo strale che l’arco dell’esilio scocca per primo. Tu proverai quant’è salato il pane altrui (la frase ha preso poi saggezza di proverbio, ma non è inutile dire che a Firenze il pane si faceva sciapo: il sale, però, in questo caso, assume significazione più ampia, di amarezza e umiliazione), e come è duro il salire e scendere le altrui scale”.

Sono versi altissimi, che ancora una volta dimostrano la dignità umana e la forza morale di Dante: egli, conscio del proprio valore e soprattutto della propria innocenza, deve patire l’elemosina degli ospiti, preferendo questa alla sottomissione impostagli da Firenze quando, nel maggio 1315, per motivi anche economici, si dette la possibilità agli esiliati di rientrare in patria a capo chino e, pentiti, ammettere le proprie colpe, pagando una somma ingente di denaro. Rimando alla lettura dell’epistola “A un amico fiorentino”, XII, e anticipo che questo doloroso problema lo tratteremo ancora nell’incipit del XXV canto.

Cacciaguida continua dicendo che ancor più penoso sarà per Dante il peso della compagnia malvagia e divisa con la quale egli cadrà nella valle di lacrime dell’esilio. Essa si rivolterà contro di lui (in quanto il Poeta fece fallire, in certo modo, il tentativo della Lastra di tornare in Firenze con le armi: l’amore di patria è sacro e sta sopra gli interessi personali; per questo Dante ammira Farinata, come abbiamo visto nel X canto dell’Inferno, nonostante siano nemici di schieramento politico, perché anche Farinata impedì ai Ghibellini di attaccare Firenze pur di rientrare in città). Però il tempo gli darà ragione, tanto che risulterà poi onorevole “averti fatto parte per te stesso”.

LE TAPPE DELL’ESILIO DI DANTE

Poiché Cacciaguida indica al pronipote alcuni dei luoghi ove andrà ospite, crediamo utile tracciare in grande sintesi le tappe del suo esilio.

Primo ostello, 1302-1303 (fra l’autunno e l’inverno, dunque, di questi due anni), a Forlì (lo ospita Scarpetta degli Ordelaffi). Però il fratellastro Francesco Alighieri, non compromesso nella e dalla politica, lo aiutò.
Giorgio Petrocchi, in “Itinerari danteschi”, Bari 1969, afferma che la vicenda biografica del Poeta a Verona ebbe luogo tra il maggio-giugno 1303 e il marzo 1304. Bartolomeo della Scala – come annuncerà Cacciaguida nel canto che stiamo riassumendo – fu rifugio e dimora, ma egli morì il 7 marzo del 1304. Nello stesso mese dello stesso anno Dante è ad Arezzo, dove riceverà un piccolo finanziamento appunto dal fratellastro Francesco, e dove gli era possibile seguire gli avvenimenti complessi che si intrecciavano per un ritorno in patria: rientro fallito. Cosa che fece decidere il Poeta a uscire dalla Toscana, sebbene non potesse andare di nuovo a Verona perché Alboino, signore della città, lo osteggiava. Tuttavia, per quanti libri si consultino sull’argomento, rimangono sempre delle zone oscure sull’esilio del Poeta. Egli stesso scrive: “Legno sanza velo e sanza governo portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà”. In ottobre del 1306 è in Lunigiana. Dal 1306 al 1308 dimorò a Lucca (si ricordi la citazione dell’Alighieri di una gentile donna di nome Gentucca che gli alleviò le pene del confino). Alcuni vogliono che sia andato anche a Parigi in quel lasso di tempo, ma non possiamo dimostrarlo. Il 1310 è anno importante per il risorgere delle speranze di tornare a Firenze e finalmente di vedere il mondo in pace, oltre la sua stessa città: Arrigo VII di Lussemburgo veniva in Italia.

Certamente fu ospite, in Treviso, di Gherardo da Camino (molti erano i toscani ivi stabilitisi almeno temporaneamente). Qui verranno sepolti un figlio di Dante e la figlia di Petrarca. Molte voci danno la presenza del Poeta a Padova quando vi lavorava Giotto, suo amico. (Divertente la tradizione d’un invito del sommo Pittore a casa sua, dove la moglie Gilda fece gli onori di ospitalità, ma Dante, osservando i figli dell’amico, e vedendoli molto brutti, ebbe a dirgli press’a poco questo: “Tu che fai degli affreschi tanto belli, hai dei figli così brutti?”; al che Giotto rispose: “Perché gli affreschi li faccio di giorno…”).

Il 24 agosto del 1313 improvvisamente morì l’imperatore sul quale Dante aveva riposto tutte le speranze di un ritorno in Firenze. Così andò a Verona, dove restò non poco tempo, ospite di Cangrande, al quale è dedicato il Paradiso e di cui il trisavolo tesse elogi quasi incredibili. Nel 1315, maggio, Firenze accordò un’amnistia ai fuoriusciti, a condizioni di capestro. E Dante, col suo ammirevole orgoglio di cittadino onesto, rifiutò di sottomettersi a tanto ricatto. I figli lo raggiunsero nella città degli Scaligeri, ma non la moglie Gemma. Tra il 1317 e il 1318, su invito di Guido Novello da Polenta, per ragioni non ben chiare, si rifugiò a Ravenna dove visse in pace gli ultimi anni della vita, assorbito dalla composizione dell’ultima cantica. Erano con lui i figli. Morì a 56 anni, nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321, forse di malaria, reduce da un’ambasciata a Venezia affidatagli dal suo protettore.

Eravamo giunti al verso 69. Cacciaguida dice che il primo ostello, e rifugio (sono parole di lenimento al colpo tremendo della profezia dell’esilio) sarà dato da Bartolomeo della Scala. Ora, noi abbiamo visto dallo schema precedente che il primo in ordine di tempo non è Bartolommeo (o Bartolomeo), ma forse il numerale ha significato più largo, di generosità e affetto. Di fatti, il tono è esplicito in tal senso: “che in te avrà sì benigno riguardo,/ che del fare e del chieder, tra voi due,/ fia primo quel che tra li altri è più tardo” (v. 73-75). L’amico vero non deve aspettare che l’altro gli chieda un favore, ma deve prevenirlo, perché il postulare è già un umiliarsi. E qui c’è l’apoteosi di Cangrande, fratello di Bartolmeo, colui che fin dalla nascita è stato segnato dall’influsso di Marte. Le sue opere saranno notevoli ma, essendo ancora fanciullo (ricordiamo sempre che Dante ascolta e parla nell’aprile del 1300, quando Cangrande ha nove anni), le genti non se le possono immaginare. E siccome questo prossimo Signore sprezzerà le ricchezze e le fatiche, si è pensato da alcuni di assimilarlo al Veltro, tanto più che Cacciaguida rincara la dose dicendo che neanche i suoi nemici potranno ignorare la sua grandezza. Egli muterà il destino di molta gente, trasformando la posizione dei ricchi e dei poveri. Il panegirico si compie con questa esaltazione: “e disse cose/ incredibili a quei che fier presente”, cioè: anche i contemporanei di Cangrande stenteranno a credere alle cose immense che farà: non sono specificate; così, tenendole in conto di segreto, aumentano la portata per il solo fatto di essere circondate da un alone di mistero. Bisogna mettersi nei panni di un povero esiliato, a quei tempi: è quasi come se oggi uno venisse spedito su un atollo quasi disabitato del Pacifico (o sulla Luna, dice qualcuno).

“Queste sono le insidie che si nascondono dietro a pochi giri di Sole. Tuttavia non odiare i tuoi concittadini, perché la tua fama si infutura oltre la loro stessa morte”.

A questo punto, fidandosi dell’amore e della retta visione del trisavolo, Dante gli chiede consiglio: “Ben vedo, padre mio, come viene veloce a me la freccia dell’esilio, per darmi un colpo tale da divenire insopportabile in chi si abbandona alla disperazione, ma proprio per questo è prudente ch’io mi fornisca di previdenza, affinché, se mi verrà tolto il luogo più caro, Firenze, io non abbia a perdere gli altri (luoghi) a causa dei miei scritti, in quanto, nel viaggio che ho fatto nel mondo senza fine amaro e nel monte del Purgatorio, nonché nei primi cieli del Paradiso, ho appreso tante di quelle cose che, se le racconto, non faranno piacere a molti; ma se io sarò timido amico della verità, tacendo, temo di non essere ricordato da coloro che questo tempo chiameranno antico”. Ed ecco il centro focale della Commedia: la dichiarazione di Cacciaguida, autorità assoluta per Dante e per tutti poiché è in Cielo, martire della fede e perché guarda in Dio: “Chi è annebbiato da una colpa ignominiosa di sé o di altri, prenderà come un’offesa la tua parola. Tu, però, non temere di raccontare la verità, e lascia che chi è in fallo si gratti la rogna, perché se la tua voce risulterà sgradita all’inizio, una volta assimilata diventerà nutrimento vitale. Questo tuo grido farà come il vento impetuoso che colpisce con maggior forza le alte cime, e già questo è motivo d’onore. Perciò ti sono state mostrate in questi cieli, nel monte e nella valle dolorosa soprattutto le anime famose (insieme a persone umili), in quanto chi ode non pone attenzione né fede in persone di origine oscura o in cose non appariscenti”.

E’ chiaro che Dio ha voluto il viaggio, e che Dante deve testimoniare senza paure delle conseguenze negative. L’itinerario del Poeta è quindi “provvidenziale”: ordinato dalla Provvidenza Divina.