Canto 3 - Visioni di scuola

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati
L’incontro con Piccarda Donati stacca i ragionamenti dottrinari per una commossa rimembranza della gioventù del Poeta, legata alla sua amicizia con Forese Donati, fratello della beata che siede nel cielo della Luna (“in la spera più tarda”). Non si deve però credere che Dante smetta di disquisire (seguendo il sistema della tecnica tomistica del “distinguo”, nella dimostrazione di verità dopo la “riprovazione” dell’errore) sui problemi eterni e sulle azioni umane viste in chiave di dottrina. I suoi dubbi sono continui, e li pone a Beatrice così come li porge al lettore, il quale deve identificarsi con l’Alighieri nel chiarire le difficoltà talvolta contraddittorie del processo Fede-Ragione.
Infatti, Dante alza la testa verso la sua Guida per farle intendere che aveva capito, quando una visione straordinaria e inspiegabile lo distoglie dal seguitare il dialogo con lei. E ricomincia – diciamo così – quella che universalmente si intende “la poesia concreta” dell’Alighieri, l’umanità commossa in lotta con la legge della punizione e del premio (ma, in questo caso, è un guiderdone di “consolazione”, sebbene l’anima affermi che in ogni luogo in cielo è Paradiso). Le immagini che vede sono diafane, come quelle che tornano ai nostri occhi specchiate da acque trasparenti e terse, tanto che il Poeta, credendole sembianti riflessi da uno specchio, si volta indietro e torna a riguardare avanti non avendo visto nulla che potesse dare testimonianza alla sua impressione. Dante cade nello sbaglio opposto a quello di Narciso. E Beatrice, sorridendo comprensiva, lo invita ancora una volta a meravigliarsi, perché quelle che vede sono vere sostanze, “qui relegate per manco di voto”. Non hanno portato a termine il voto fatto a Dio. Vedremo fra poco quale.
Alla maniera di Virgilio, che incitava l’allievo a parlare coi dannati e i purgandi per chiarire dubbi o per sapere cose inedite, così Beatrice sollecita Dante a interrogare l’ombra che “parea più vaga / di ragionar” (v. 34-35), ed egli inizia chiedendole il nome e la sorte (il nome è un fatto singolo; la sorte è generale dei beati nel cielo della Luna), non avendola riconosciuta. Ella, pronta e con occhi ridenti (il Paradiso è il regno della carità): “Io fui, nel mondo, suora, e se ti concentri nel ricordo, il fatto ch’io sia più bella non mi ti nasconderà alla tua mente, e riconoscerai in me Piccarda che, posta qui con questi altri beati, sono beata nonostante stia nella sfera più lontana dall’Empireo”.
Piccarda era figlia di Simone, sorella di Forese e del più noto Corso, il quale, per motivi politici, la rapì dal convento per darla in moglie a Rossellino della Tosa.
In quanto all’espressione “esser più bella”, non sono d’accordo coi commentatori che accollano alla vanità femminile il vanto della bellezza pur nel regno della perfetta beatitudine. L’anima è più bella perché nella letizia del Signore. Infatti, Dante riprende con questa considerazione il colloquio: “Ne’ mirabili aspetti / vostri risplende non so che divino/ che vi trasmuta da’ primi concetti” (v. 58-60). Poi chiede se la posizione del luogo tanto lontano da Dio li affligga in qualche modo spingendoli a desiderare di essere più in alto. La risposta è netta e chiara: “Virtù di carità quieta la nostra volontà, da non farci anelare ad altro che a quello che possediamo. La volontà divina è il nostro stesso desiderio. Nella Sua volontà consiste la nostra pace”.
Qui la dichiarazione del Poeta, che è il centro focale della situazione dell’anima in cielo: “Chiaro mi fu allor come ogne dove /in cielo è paradiso, etsi la grazia / del sommo ben d’un modo non vi piove” (v. 88-90), benché la grazia di Dio non pervada allo stesso modo ogni angolo del Paradiso, la beatitudine è generale. Si notino le parole in latino “nocesse, esse, etsi”: sono nel tessuto teologico-filosofico del tomismo. Ripeto: Dante, in questa cantica, spesso “traduce” direttamente non solo dalla Bibbia, ma dai Santi Padri e dai filosofi dell’arco di un millennio (da Agostino a Tommaso etc.).
Dante è pieno di curiosità. Porta l’esempio del cibo: chi mangia si sazia di uno ma ne desidera un altro; così lui, entrato nel vivo della situazione nuova, e collegati i ricordi, vuole sapere il motivo che vietò a Piccarda di tessere la tela fino in fondo (metafora che significa: per quale causa il voto non fu portato a termine?).
“Fuggii dal mondo per seguire, giovinetta, l’esempio di santa Chiara ed entrai nel suo ordine, promettendo col voto di vivere un’esistenza contemplativa. Ma un giorno, uomini adusi più a fare il male che il bene, mi rapirono dal dolce chiostro… Soltanto Dio sa quale fu poi la mia vita”. Piccarda non nomina le persone malvagie che le distrussero l’esistenza: c’è una sorta di atmosfera che rimanda a Pia de’ Tolomei, quasi un’assimilazione alla dolcezza di lei, che non serba rancore pur stando in Purgatorio, dove le passioni umane persistono per quanto lo permetta ancora il regno della speranza.
Il rapimento, la violenza dell’azione, non concesse alla suora di completare il voto, sebbene il distinguo fondamentale della volontà buona di essere sempre fedele col cuore alla promessa religiosa le abbia meritato – nonostante il luogo più lontano dal Motore Primo – il Paradiso. Vedremo nei canti successivi la volontà assoluta e quella relativa. Per ora, sottolineiamo il valore della fedeltà “toto corde” all’ordine monastico scelto, pur vivendo nel “secolo”. Piccarda indica un altro splendore, grande personaggio (ma leggeremo nel XVII canto il motivo dell’accostamento continuo che fa Dante di uomini e donne celebri con ‘protagonisti’ minori), che ebbe la sua stessa sorte, ma “non fu dal vel del cor già mai disciolta” (v. 117). Si tratta di Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI di Svevia e madre di Federico II. In una mirabile terzina il Poeta riassume la storia, toccando uno dei mille vertici della sua immensa capacità espressiva: “Quest’è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di Soave / generò ‘l terzo e l’ultima possanza” (v. 118-120). Sulla parola “vento” le interpretazioni appaiono diverse. Taluni la spiegano come il “sic transit gloria mundi” (“Non è ‘l mondan romore altro ch’un fiato / di vento…” si legge nell’XI del Purgatorio, v. 100-101); altri, e soprattutto Benvenuto da Imola, intendono come un “turbine terribile e crudele, che compì stragi tremende e presto scomparve”.
Tuttavia, sembra che la vicenda della sottrazione dal convento, sia una leggenda intorno a Costanza, nata per motivi politici di parte.
Altrettanto bella la chiusa, che descrive la scomparsa delle anime come cosa pesante nell’acqua cupa, mentre intonavano “Ave Maria”.
Dante era già pronto a chiedere lumi a Beatrice, ma lo sguardo folgorante di lei lo trattenne dal parlare.