Canto 20 - Visioni di luce

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

I primi 27 versi sono di una bellezza assoluta. Purtroppo, per questione di spazio, non posso riprodurli, ma cercherò di darne un’idea approssimativa.

“Quando cala il sole nel nostro mondo, il cielo si riempie di stelle per cui il buio vero non esiste. Tale immagine mi venne alla mente appena l’aquila, simbolo dell’impero e dei suoi condottieri, tacque nel santo rostro, ma quegli spiriti risplendenti intonarono un canto che lingua umana non può descrivere. Oh dolce amore che ti ammanti di gioia, quanto apparivi ardente in quelle facelle ispirate solo da divina carità!

Dopo che le care gemme (o lapilli infuocati come quelli che i vulcani emettono) posero il silenzio agli squilli angelici, mi parve di udire un mormorar di fiume ‘che scende chiaro giù di pietra in pietra’ (v. 20), mostrando la ricchezza della sorgente. E come i suoni assumono la modulazione delle note in base alla mano che preme le corde al collo della cetra, o come il fiato che penetra al pertugio (imboccatura) della zampogna – strumenti che Dante conosceva grazie alla sua passione dominante per la musica, e in Paradiso essa è centrale quale allegoria della bellezza assoluta che prepara la visione di Dio -, allo stesso modo quel murmure salì lungo il collo dell’aquila per farsi parola nel rostro.”

A parlare, infatti, è l’aquila: “Tu devi osservare il mio occhio (organo che nelle aquile terrestri riesce a reggere la vista del Sole, e che Dante porta ad esempio quando si meraviglia di quanto Beatrice sopportasse la nuova luce del cielo: “aguglia sì non lì s’affisse unquanco”, Pd, C. I, v. 48), perché gli splendori che sono in esso, appartengono alla più elevata schiera dei beati. Colui che luce in mezzo alla pupilla, fu il cantor ispirato dallo Spirito Santo (l’autore dei Salmi biblici, Davide, che portò l’arca di città in città: ora gode e conosce quanto ha meritato). Dei cinque che formano il mio ciglio, colui il quale si accosta maggiormente al becco, è Traiano, che operò giustizia e consolazione verso la vedovella punendo gli omicidi del figlio (lo apprendemmo in Purgatorio, ai versi 73-78 del canto X). Egli conosce ora quanto dolorosamente si paga la mancanza di fede in Cristo”.

Qui dobbiamo spiegare la cosa. E’ una leggenda, ma Dante la usa, penso, per fare un paragone – una differenza unica, vissuta da un uomo in entrambi i luoghi ultramondani - tra l’Inferno e la beatitudine celeste (il Poeta vi tornerà in questo stesso canto, ai versi 106-107). Traiano morì non convertito al cristianesimo, però, grazie all’atto di giustizia verso la vedova, il papa Gregorio Magno, toccato nel profondo da quella grandezza d’animo, pregò Dio di salvarlo; alcune redazioni raccontano che l’imperatore tornò in vita per il tempo di ricevere il battesimo, per cui meritò la beatitudine celeste. Ma stette in Inferno per mezzo millennio e quindi ebbe modo di constatare quale prezzo si paghi nel non seguire nostro Signore. La seconda anima, che occupa la parte superiore del ciglio, appartiene ad Ezechiele, re di Giuda, il quale, avendo saputo da Isaia di dover morire entro poco tempo, pregò con tale contrizione Dio, da avere altri quindici anni di vita (Dio non cambia la sua decisione, ma può procrastinarla per ‘li devoti prieghi’). Segue Costantino, che portò l’aquila romana a Costantinopoli insieme al Codice, lasciando così Roma e le terre vicine al papa (Dante deprecò questo atto sia nel XIX dell’Inferno che nel XXXII del Purgatorio; nel Monarchia la sua posizione si basa addirittura su un dubbio circa la donazione stessa). L’imperatore è in Paradiso perché mosso da intenzioni buone in tale elargizione, la quale però dette frutti cattivi.

Nell’arco discendente del sopracciglio è l’anima di Guglielmo II d’Altavilla, detto il Buono, rimpianto da chi è oggi mal governato da Carlo II d’Angiò e da Federico II d’Aragona (sono stati già nominati nel canto precedente). Questi dimostra quanto Dio ami i re giusti.

La quinta delle luci sante è Rifeo Troiano: nessuno crederebbe, in Terra, a questa sua presenza qui, dato che il mondo non discerne chiaramente il profondo delle cose (infatti, egli è un personaggio minore, che Virgilio nomina di sfuggita nell’Eneide, definendolo però ‘il più giusto dei troiani e il più rispettoso dell’equanimità’).

Dante, tuttavia, ha un forte dubbio, che gli si legge nel volto e nel cuore come fosse trasparente a guisa del vetro; gli scappa perciò una domanda (“Come è possibile ciò?”) che rese più luminose le anime, contente di soddisfare, per dovere di carità, la sete di conoscenza del Pellegrino.

“Io so che tu credi in quello che dico, ma non comprendi fino in fondo il motivo delle cose che senti e vedi”, risponde il santo Segno. “La bontà infinita del Creatore è sensibile alla fede tenace di una creatura: l’amore e la speranza possono mutare i decreti divini, non come accade agli uomini che si scavalcano in modi anche illeciti, ma perché Dio ‘vuole essere vinto per vincere in bontà’.

I provenzalismi e le due parole latine danno un tono alto al discorso teologico, che si amplierà nei versi successivi.

“La prima e la quinta delle anime lucenti, cioè Traiano e Rifeo, ti inducono a meraviglia vedendoli tu posti in questo cielo, ma Rifeo, vissuto assai prima dell’Incarnazione, non morì da pagano, bensì da cristiano perché credé alla futura crocifissione di Gesù, e Traiano vi pose fede a martirio avvenuto (piedi, nel verso 105, è allusione alla trafittura coi chiodi nella Croce di nostro Signore). Già è stata spiegata, attraverso la leggenda, la straordinaria “resurrezione” di Traiano; Rifeo, invece (e qui non c’è tradizione alcuna, ma pura inventiva di Dante, il quale, però, si rifà a san Tommaso, Summa Theol., in cui si legge che a molti pagani fu fatta la rivelazione di Crist e molti ebbero una fede implicita), poiché tutto il suo amore riversò per ed alla giustizia, la Grazia divina gli aprì gli occhi alla futura Redenzione, tanto che egli operò nell’ammonimento delle genti pagane. Le tre donne che tu vedesti nel Paradiso Terrestre – Fede, Speranza e Carità, virtù teologali – lo hanno battezzato oltre un millennio prima che Gesù si recasse da Giovanni Battista per il lavacro nel Giordano.”

A questo punto viene in ballo il mistero della predestinazione (che si scontra con il libero arbitrio), e Dante – per ora – se la cava con questa esclamazione: “O predestinazion, quanto remota/ è la radice tua da quelli aspetti/ che la prima cagion non veggion tota!” Poi, segue un ammonimento dell’aquila: “Voi uomini siate cauti nel giudicare, perché noi, che vediamo Dio, non conosciamo ancora chi saranno tutti gli eletti, e questa ignoranza è dolce, perché quel che Dio vuole, anche noi lo vogliamo”.

Quella spiegazione fu per Dante una soave medicina.

Qui un’altra similitudine con il mondo dei suoni (abbiamo parlato distesamente dell’amore del Poeta per la musica): come un esperto citarista accompagna un altrettanto valido cantante, cosicché il canto acquista di bellezza; alla stessa maniera, nell’accordo del ritmo musica-voce, Dante si accorge che Traiano e Rifeo, simultaneamente come il battito delle palpebre, accordarono il lampeggiare alle parole