Canto 22 - Visioni di volo

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

Il grido dei beati ha oppresso di stupore Dante, il quale si rivolge a Beatrice come il bambino alla madre che lo rassicura, dicendogli: “Non ti rendi conto che sei in cielo, dove tutte le cose sono sante? Il canto forte che ti ha sbalordito e non hai potuto comprendere, conteneva preghiere che chiedevano a Dio vendetta contro il malcostume dei preti e degli alti prelati: punizione che tu vedrai prima di morire”.

“La spada di qua su non taglia in fretta/ né tardo” (v. 16-17): la misura del tempo dipende dall’intensità del desiderio di chi l’aspetta.

Poi Beatrice invita il suo amico a volgersi verso i beati; la più lucente delle “margherite” (in senso latino: pietre preziose) si fa avanti per soddisfare la voglia di sapere del Pellegrino.

Si tratta di san Benedetto da Norcia, nato nel 480. Andò a studiare a Roma, dove fu negativamente colpito dall’operare non retto degli ecclesiastici, per cui reagì menando vita eremitica in uno speco di Subiaco. Alla sua regola “Ora et labora” si conformarono tanti discepoli. In seguito a incomprensioni interne, Benedetto si recò a Montecassino, costruendo lo storico monastero poi distrutto dalla Seconda Guerra Mondiale e ricostruito. Ivi – ai suoi tempi – c’era un tempio di Apollo, che il Santo fece abbattere. Morì nel 543. Egli ebbe un’influenza poderosa e vastissima per tutto il Medioevo, e non solo.

Le notizie qui riportare succintamente già ce le fornisce Dante (sulla base della biografia scritta da Gregorio Magno). E’ da notare che il paganesimo, nella zona sud dell’Italia, al secolo di san Benedetto non era ancora del tutto estirpato.
Dopo aver accennato a sé, il Santo indica altri spiriti: Macario (il riferimento esatto è difficile da stabilire, poiché sotto questo nome vanno due personaggi, ugualmente santificati, l’uno detto l’alessandrino e l’altro l’egiziano, oltre tutto coetanei e seguaci di sant’Antonio Abate) e Romualdo (fondatore dell’ordine camaldolese nel 1018), i quali – a differenza dei monaci contemporanei del Poeta -non andavano di convento in convento, ma restavano per tutta la vita là dove avevano preso i voti.

Dante è talmente interessato alla presenza di quel grande riformatore, che gli chiede di svelargli il sembiante. Ma san Benedetto risponde che il desiderio si concreterà nell’ultimo cielo, dove non ci sono riferimenti geografici né astronomici. L’Empireo è immobile, infinito. Non è un luogo ma spazio senza confini. “La scala che tu qui vedi ma che ti si invola alla vista man mano che si inoltra nel cielo, giunge fin lassù dove la scorse Giacobbe, in sogno, piena di angeli. Ora nessuno vi sale con la speranza e l’immaginazione; allo stesso modo, la mia regola è carta morta”.

Le polemiche continue contro l’istituzione ecclesiastica, o meglio i ministri di essa, hanno una certa similitudine – nel metodo – con le invettive contro gli imperatori contemporanei (o quasi) del poeta. L’indignazione del Fiorentino contro le due maggiori istituzioni universali risponde in pieno non solo alla denuncia di una situazione non più sostenibile, ma all’attesa del Veltro, che sempre più – secondo alcuni e me compreso come ultimo lettore della Commedia – si identifica con una forza spirituale d’un Vangelo applicato, d’un ritorno alle origini.

“Le mura che solevano essere conventi e luoghi di preghiera, sono diventate spelonche di ladroni (eco neotestamentaria) e le tonache sono sacchi pieni di farina avariata”.

Non insisterò mai abbastanza nell’invitare gli appassionati della Commedia ad approfondire l’XI canto del Paradiso per comprendere l’attenzione con cui Dante indica la povertà quale mezzo forse principale per tornare alla purificazione evangelica d’un organismo (la Chiesa non in senso di volontà divina, bensì nella struttura dei suoi ministri) corrotto dalla ricchezza. Anche san Benedetto parla della cupidigia dei prelati attaccati alle rendite (“decimae quae sunt pauperum Dei”, aveva detto san Tommaso nel XII canto, v.93); e qui c’è un accenno a quello che diverrà sfacciato nepotismo (o anche peggio: “meretrici, cani, uccelli e altri simili, che essi tengono per puro piacere” scrive Benvenuto da Imola).

“La natura umana è talmente debole, che pure un’azione iniziata bene e con ottima intenzione, in termine di poco tempo (quanto impiega la quercia dalla nascita alla produzione della ghianda) si deteriora”, afferma il Santo, incalzando sempre con i consueti esempi dei primordi, citando san Pietro che dette vita alla prima comunità cristiana senza oro né argento, e lui stesso, Benedetto, con la preghiera e i digiuni fondò il suo ordine, come Francesco con l’umiltà i suoi conventi. Però, si lamenta il Santo, chiunque può notare la differenza in negativo tra gli inizi e l’oggi. “Ma Dio ha compiuto miracoli più grandi: il Giordano che fermò le sue acque per permettere agli ebrei di attraversarlo e il mar Rosso che si aprì affinché Mosè e il suo popolo potessero passare all’altra sponda (significa che Dio opererà per il bene e il ripristino della giustizia più facilmente dei miracoli ora citati: e questo è un segno di speranza e un invito alla realizzazione dell’attesa profetica)”.

San Benedetto termina di parlare, riunendosi alla sua compagnia, con la quale ascende al cielo. Beatrice spinge Dante a salire su per la scala, e nessun moto in Terra fu tanto agevole e veloce: il lettore – scrive il Poeta – non farebbe in tempo a mettere un dito nel fuoco e a ritrarlo, che comunque risulterebbe un movimento più lento della scalata di Dante al ‘segno dei Gemelli’. Segno zodiacale sotto cui egli è nato (“quando senti’ di prima l’aere tosco”, v. 117), e che si credeva influenzassero la persona verso l’attività artistica tesa alla gloria. Qualcuno vuole scorgere nell’espressione “dal quale (segno) io riconosco/ tutto, qual che si sia, il mio ingegno” (v. 113-114) un crescente moto di modestia da parte del Poeta; altri, un tatto che non potrebbe mancare in Paradiso. Comunque, l’Alighieri, conscio della difficoltà di proseguire nell’opera, si raccomanda alla protezione degli astri di quella costellazione.

Beatrice ricominciò: “Tu sei tanto prossimo alla beatitudine suprema, che devi avere gli occhi puri, per cui, prima che tu ti inlei (conio dantesco), volgi lo sguardo in basso e considera quanta parte dell’universo sta sotto i tuoi piedi”.
Dante: “Con gli occhi (visus latino) ripercorsi le sette sfere, e vidi il nostro globo, tale da farmi sorridere al suo misero sembiante ed apprezzare chi lo ritiene la cosa minore; saggio è chi si rivolge a mete più grandi”.

Dante faceva queste considerazioni quando la Terra era considerata il centro del Creato, il punto fondamentale del cosmo. Cosa direbbe oggi, che essa è confinata all’estrema periferia d’un braccio della nostra Galassia, la quale è tra le più piccole fra i miliardi di galassie del Firmamento? Allora il Poeta vide dall’alto la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno.

“L’aiuola che ci fa tanto feroci,/ volgendom’io con li etterni Gemelli, / tutta m’apparve da’ colli alle foci; / poscia rivolsi gli occhi a li occhi belli” (v. 151-154): non si creda che aiuola sia un’infiorettatura significante bellezza e dolcezza; semmai bisogna prenderne il significato dal Monarchia III, XV (XVI), 11 “ut scilicet in areola ista mortalium libere cum pace vivatur”, cioè: “acciocché in questa abitazione mortale liberamente in pace si viva” (areola si può tradurre sia aiuola che cortile).