Canto 23 - Visioni di relitti

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

Dante è nel cielo ottavo, delle Stelle Fisse, fra i Cherubini e gli spiriti trionfanti. E’ ancora mercoledì 13 aprile 1300.
Una descrizione presa dal nostro mondo naturale, apre in modo tenero e ardente il canto: “Come l’augello, intra l’amate fronde, /posato al nido de’ suoi dolci nati/ la notte che le cose ci nasconde, / che, per veder li aspetti disiati / e per trovar lo cibo onde li pasca, / in che gravi labor le sono aggrati, / previene il tempo in su aperta frasca, / e con ardente affetto il sole aspetta, / fiso guardando pur che l’alba nasca…” (v. 1-9); il primo termine di paragone sfocia nel secondo: “così la donna mia stava eretta / e attenta, rivolta in ver la plaga / sotto la quale il sol mostra men fretta” (v. 10-12): Beatrice guarda verso mezzogiorno. Dante, notando quanto sia assorta, vorrebbe liberarsi dal desiderio, ma si accontenta di sperare di farlo di lì a poco. Infatti, rischiarandosi sempre di più il cielo, Beatrice invita Dante a guardare il trionfo di Cristo. Egli è il Sole che sorge, e che il Poeta ha descritto nella protasi come l’alba attesa dall’uccellino pronto a faticare gioiosamente per procacciare il cibo ai piccoli. Ed ecco un’altra similitudine stupenda: “Come nelle notti serene di plenilunio, Trivia (Diana) splende, corteggiata, fra le ninfe (stelle) eterne che dipingono di luce ogni parte del cielo, così vid’io sopra migliaia di lucerne un sole che tutte le illuminava, a guisa del nostro che irraggia intorno ogni altro corpo celeste”. Una luce accecante, che il Poeta non riesce a sostenere con lo sguardo. Ed un’esclamazione che dà vita poetica all’amorosa riconoscenza del pellegrino verso la sua Donna: “Oh Beatrice, dolce guida e cara!” E’ lei che gli svela la fonte di tanta luminosità: Cristo, e lo fa con questa potente perifrasi: “Quella che ti soverchia è una forza di virtù a cui nessuno può resistere. In essa è la sapienza e il potere di chi riaprì le porte del Cielo al mondo, dopo tanta attesa e altrettanto desiderio”.
Come il fulmine esce dalla nuvola che non può più contenerlo, e si scaglia a terra contro la natura del fuoco che tende all’alto, allo stesso modo la mente del Poeta uscì da se stessa e non ricorda cosa accadde. Beatrice lo rassicura, dicendogli che ormai, dopo aver visto tante cose straordinarie, può tranquillamente guardarla, perché lei torna a sorridere. Dante stava nella medesima condizione di chi non ricorda il sogno fatto, quando sentì la voce della sua Donna che si impresse nella memoria. “Se adesso tutte le lingue usate dai poeti suonassero insieme per aiutarmi ad esprimermi, non si riuscirebbe a dipingere l’estrema bellezza di quel riso che rendeva ancora più luminosa Beatrice, tanto che scrivendo del Paradiso, è necessario ch’io salti qualche descrizione nel sacrato poema”. Nella protasi del XXV canto, Dante userà ancora la definizione di poema sacro, mentre il titolo generale è Commedia.
“Nessuno biasimerebbe il mio tremare sotto un carico così pesante. Non è cammino (pareggio sta per pileggio, che è termine significante rotta) da piccola barca questo mare che va fendendo l’ardita prora, né da nocchiero che risparmia le fatiche a sé stesso”: una sorta di recusatio che appare sincera e non finalizzata alle lodi. Ne riparleremo nel XXXIII canto.
Beatrice lo redarguisce dolcemente, ma con fermezza: “Non ti fermare a guardarmi: volgiti piuttosto al bel giardino che si infiora ai raggi di Cristo; qui è la Rosa Mistica nella quale il verbo di Dio si incarnò; qui sono gli apostoli che iniziarono a camminare sulla via giusta indicandola a tutti”. E Dante prende ancora elementi della natura per dare un pallido esempio delle bellezze che vide: come talvolta si beò di prati fioriti illuminati da un raggio di sole apparso fra le nubi, così in Paradiso ammira turbe di splendori folgorati da raggi splendenti senza che apparisse la fonte di tale luminosità. “Oh, benevola virtù di Cristo, che dai la tua impronta a tanta meraviglia, ti eri elevato in alto per far sì ch’io avessi modo di vedere quanto la mia pochezza mortale non mi avrebbe permesso di discernere”.
Dal verso 88 il palpito lirico, la fede, la tenerezza filiale di Dante verso la Madonna, la descrizione del luogo, la potenza espressiva, il significato dei suoni corali e della luce prendono un volo che ogni versione in prosa, o commento affievoliscono: ma non possiamo esimerci dall’impegno di tradurre le terzine allo stesso modo delle altre meno belle e forse più difficili nel concetto teologico.
Dante è un mariano. Dice della Madonna: “Il nome del bel fior ch’io sempre invoco, mi rese attento alla maggiore luminosità, sì che la qualità e la quantità della luce di Maria mi si segnarono negli occhi (dopo la salita di Gesù all’Empireo) per la sua potenza che in Cielo vince le altre luci dei beati come in Terra oltrepassò ogni altra virtù umana. Ed ecco che per entro (attraverso) il cielo discese un bagliore sotto forma di corona cingendo Maria e girando a lei intorno”. I commentatori, specie gli antichi, indicano in questa corona l’Arcaneglo Gabriele. Ora Dante cerca di descrivere la bellezza inimitabile e ineffabile delle melodie celesti, di fronte alle quali ogni nostra musica più bella risulta al paragone con essa un rumore di tuono.
“Io sono amore angelico che fa corona all’alta letizia che emana dal grembo ove dimorò Cristo, fine di ogni nostro desiderio, e seguiterò a girare, o Padrona del cielo, mentre seguirai tuo Figlio e renderai più chiaro il punto più alto in cui tu entrerai”: così cantò l’arcangelo, sigillando la melodia, mentre tutti gli altri lumi facean sonar lo nome di Maria.
“Il nono cielo, il Primo Mobile, il più vicino all’Empireo, cioè quello che avvolge come un mantello regale tutti i volumi del mondo, ardendo di quel desiderio che riceve da Dio vita e legge, aveva la riva interna (poiché la sfera concava guarda verso la Terra) talmente lontana da dove io ero, da non essere ancora visibile, per cui non mi fu possibile seguire Maria nella sua ascesa verso l’Empireo seguendo il Figlio”.
Dante – lo abbiamo detto altre volte – era rimasto orfano di madre in tenera età, per cui sentì durante l’esistenza questa orfanezza in modo costante; ed ecco perché gli esempi continui del fantolino che si nutre dal seno materno (lo vedremo nel XXXIII), che tende le piccole mani verso la mamma etc.
“Come il bambino, che sazio del latte materno, distende le braccia verso colei che lo ha generato, per l’amore che esterna a lei; così ognuna di quelle anime luminose in su si stese, sicché mi fu chiaro di quanto amore fervessero per la Madonna. Poi cantarono il Regina coeli, laetare. Alleluia! con tale dolcezza, che mai da me non si partì ‘l diletto. Oh quanta è la fecondità del seme della beatitudine che si condensa in quelle anime simili ad arche piene di grano, le quali in terra furono straordinarie lavoratrici dei campi!” Infatti, bobolce deriva dal latino bubulcus (bifolco, bovaro), ma qui ha un senso tutt’altro che dispregiativo (teniamo conto che Dante non disdegna le rime difficili, per cui a dolce risponde soffolce (da latino suffulcire, che significa anche contenere, ma anche appoggiare) e poi bobolce (che a qualcuno è sembrata anche una forzatura per motivi tecnici).
“In Paradiso si vivono e godono i frutti acquistati coi sacrifici nell’esilio terreno, se non si è andati dietro ai guadagni anche illeciti (notiamo quanto il Poeta insista sul peccato cardinale dell’avarizia, quella lupa allegorica che si accoppia con altre bestie in quanto è la causa primaria della degenerazione dell’uomo). In Paradiso, sotto la luce di Cristo e di Maria, accanto ai santi del Nuovo e Vecchio testamento, trionfa della vittoria sul male san Pietro che tiene in mano le chiavi del Paradiso stesso”.