Canto 23 - Fede

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Benevento, città amata e conosciuta, nasce dal desiderio del comitato dantesco ad essere ammessi nel nostro inferno. Siamo ancora in pieno esperimento dell'idea. Così cerchiamo di riprendere una città anche vuota. Scopriamo che il Duomo è cantiere aperto, perché, nei lavori di restauro, sotto il pavimento da rifare, escono tombe e strade di un cimitero romano. Inatteso, drammatico contrasto. E' stato necessario sostare all'ombra dell'Hortus Conclusus di Mimmo Palladino. Mistico silenzio.

XXIII - FEDE (Benevento)
Duomo

Consacrato nel 780, fu ricostruito e trasformato più volte in epoca longobarda. Ulteriori lavori di ampliamento si svolsero nel XIII secolo, epoca a cui risale l’attuale facciata a due ordini. Gravemente danneggiato dai bombardamenti del 1943, è stato ricostruito tra il 1950-1960. La cattedrale è stata oggetto di lavori di recupero e valorizzazione durati 7 anni. I lavori sono stati interrotti numerose volte a causa del ritrovamento di diversi reperti archeologici, quasi tutti afferenti al tardo periodo romano della città.
Hortus Conclusus
L’Hortus Conclusus è un insieme di opere scultoree di Mimmo Paladino inserite in un spazio aperto di pertinenza dell’ex convento di San Domenico in Benevento. Alla fine degli anni Ottanta nacque l’idea, da parte dell’Amministrazione Comunale, di offrire a Paladino, artista nativo di Paduli ma beneventano di fatto, la possibilità di installare in città una sua opera.
 
Sinossi a cura di Aldo Onorati
Sono le nove del mattino, sempre di sabato 9 aprile. Sesta bolgia, cerchio ottavo: gli ipocriti vengono condannati a camminare vestiti di un saio dorato ma dentro fatto di piombo, per cui procedono lentissimamente, con somma fatica, calpestando col loro peso altri dannati, nudi, stesi a terra crocifissi con cunei di pali infissi nelle membra al posto dei chiodi. Essi stanno di traverso, per cui non è possibile evitarli. Tra loro, Anna e Caifa. Il contrappasso si legge così: in terra tradirono la gente col sorriso che nascondeva la malvagità; adesso, sotto il luccichio dell’oro che ricopre ‘a lamina’ le plumbee campane che li opprimono, piangono per il dolore del corpo rotto da tanta fatica.
L’atmosfera è improvvisamente cambiata riguardo l’effervescenza pazza dei diavoli nella bolgia precedente. Una tristezza cupa involge l’ambiente. Troviamo parole insistenti sul muto cordoglio e strazio di questa processione al rallentatore, data la mole che impedisce un procedere normale: “faticoso- tristo- gravi”, nonché le rime più usuali ma dolenti: “pianto- stanca – manca”.
“Taciti, soli, senza compagnia/ n’andavam l’un dianzi e l’altro dopo, /come frati minor vanno per via” (incipit 1-3). Nei canti precedenti gli accostamenti e le metafore e i paragoni stessi erano presi dai bestiari nonché da conoscenze di prima mano; qua torna invece, costante, l’indicazione monastica, quasi che Dante fornisca al lettore una precisa chiave di lettura; infatti, il poeta prende di mira l’ipocrisia che domina nel clero.
Ora, siccome i diavoli sono stati beffati e i due sono fuggiti, il pellegrino prega Virgilio di filarsela immediatamente prima della venuta degli irati agenti infernali. Infatti, si lasciano scivolare lungo la parete rocciosa (“doccia”): Virgilio prende sulle braccia l’allievo e lo deposita a terra appena giunti nell’angusta sesta bolgia, dove quei padroni dell’inferno non possono giungere, in quanto Dio ha dato ad ogni gruppo di custodi un territorio preciso oltre il quale è loro vietato porre piede o ala. Tuttavia, qua e là Dante sembra afferrarci con un atto di intimità, rapido, attraverso particolari che ce lo rendono più umano e vicino: “Già mi sentia tutti arricciar li peli/ de la paura” (v. 19-20); “portandosene me sovra ‘l suo petto, /come suo figlio, non come compagno” (v. 50-51). È qui l’occasione per sottolineare come Dante, che pure gareggia con rime impossibili e conia parole nuove, capace di una concretezza potente anche quando tratta di teologia (si confronti la visione di Dio nei versi 85-87 del XXXIII del Paradiso), non curi di evitare le ripetizioni di termini a brevissimo spazio, né l’iterazione del “che” in costruzioni relative di vari gradi. Adesso ci viene a mano “prendere-prese-prende” dai versi 37-40, e non possiamo fare a meno di citare il Tommaseo, dal “Dizionario dei sinonimi della lingua italiana”, in cui - con il coraggio che richiede una critica al Divino Poeta- osserva: “Apriamo la Commedia di Dante; ed eccoti nel primo canto via ripetuto ben quattro volte… e paura ben cinque volte… Oh gran padre Alighieri, non sapevate voi dunque che la nostra lingua bellissima aveva pure e strada e sentiero, e altre voci significanti a un bel circa il medesimo, che potevano fiorire il vostro stile di variata eleganza?”
Evidentemente ha ragione chi parla non di perfezione linguistica ed eleganza sintattica, ma di energia vitale che fa grandi le cose del pensiero e della bellezza!
Anche in questo canto (versi 32-34-36) Dante si prova con l’endecasillabo sdrucciolo e poi con il tronco (versi 143-145-147): se alcune parole sono ripetute senza sinonimi, la tecnica dell’intelaiatura metrica è la più varia e complessa, e non solo in confronto ai contemporanei del Sommo Poeta.
Torniamo alla descrizione che Dante fa di tali dannati. Il Bertoni acutamente definisce questo “il canto della stanchezza e della malinconia”, per cui il terrore “cede il posto a un senso di scoramento e di pena”. Il verso 58 ed oltre (“La giù trovammo una gente dipinta/ che giva intorno assai con lenti passi, /piangendo e nel sembiante stanca e vinta”) ci presenta un problema nell’aggettivo “dipinta”, sul cui specifico significato tutti stanno in dubbio, sebbene io creda che sia allusivo della falsità, la quale appare allegra, dorata, dipinta di complimenti, mentre dentro (il piombo delle cappe) è squallida e pesante in ogni senso. Dante è chiaro nel puntare il suo arco: metafore, paragoni, rimandi, analogie etc. : tutto converge sull’obiettivo monasteriale (più che monastico in sé); infatti, le campane che spiombano sulle anime, sono ampie come quelle dei benedettini di Cluny, in Borgogna “e gravi tanto, / che Federigo le mettea di paglia” (v. 65-66: iperbolico paragone alle cappe plumbee fatte indossare dall’imperatore a chi si era macchiato di lesa maestà: quelle terrestri, al confronto con le infernali, parevano, al peso, fatte di paglia).
Ora c’è l’incontro coi peccatori, uno dei quali prega i pellegrini di rallentare il passo per stare alla pari con l’estrema lentezza del loro procedere sotto l’enorme pondo (per l’eternità!). Sono Catalano dÈ Malavolti (tra i fondatori dell’ordine dei frati Gaudenti, guelfo) e Loderingo degli Andalò (anch’egli tra i fondatori dello stesso ordine, ma ghibellino). La congregazione dei frati Gaudenti (meglio “cavalieri di Maria Vergine Gloriosa”) fu fondata nel 1260 e approvata da Urbano VI. “Gaudenti” significa ispirati alla letizia evangelica predicata dal Poverello d’Assisi. Dopo la battaglia di Benevento (1266), entrambi ressero Fiorenza. Il fatto, completamente nuovo, che in due si governasse la città, era stato fatto per sedare gli odi fra guelfi e ghibellini, essendo i due capi uno guelfo e uno ghibellino. Invece, furono manovrati da papa Clemente IV, per far rientrare in città i guelfi mandando in esilio gli Uberti.
Ora la preoccupazione maggiore è il come uscire da quella gola. Fu risposto: “Potete risalire su le macerie del ponte, l’unico rotto”. Virgilio partì a grandi passi e Dante gli tenne dietro.