Canto 24 - Visioni romantiche

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

Beatrice si rivolge agli spiriti trionfanti dell’ottavo cielo, quello delle Stelle Fisse, affinché siano disponibili a dissetare Dante, poiché loro possono attingere alla sorgente eterna. I termini fanno pensare all’Ultima Cena (mensa, preliba, Agnello, cena, ciba, sodalizio).
Alla richiesta segue immediato il tripudio delle anime, che ruotano intorno a punti fissi “fiammando, volte, a guisa di comete” (v. 12).
I beati girano con velocità diverse, come le lancette dell’orologio, una delle quali sembra ferma e l’altra è molto meno lenta: quelle carole mostravano il grado di letizia in base alla loro rapidità o meno di movimento.
Dal cerchio avanzò un’anima più splendente, che roteò tre volte intorno a Beatrice cantando con voce tale da non potersi descrivere. Ma, smesso il canto, quella luce parlò a Beatrice appellandola ‘santa sorella mia’ e spiegandole che il suo distaccarsi dalla corona di spiriti era motivato dalla preghiera di lei. E qui c’è una novità: prima Dante interrogava le anime; ora sono loro a mettere alla prova il Pellegrino con una sorta di esame. San Pietro, sollecitato da Beatrice, sottopone il Poeta ad una prova per constatare la sua Fede (per mezzo della quale il Paradiso ha acquistato i suoi ‘cittadini’).
Come lo studente, nell’attesa dell’interrogazione (cioè della questione che il maestro propone di discutere), in silenzio arma nella sua mente le risposte a probabili argomentazioni da dimostrare o da confutare; così Dante si concentra per dimostrarsi pronto di fronte a tanto grande ‘disaminatore’.
La teologia in versi: sobri, potenti, precisi. C’è san Tommaso dietro il pensiero di Dante, ma vissuto anche con la certezza del cuore. E’ un esame in crescendo, un ragionare al modo Scolastico, un procedimento deduttivo inattaccabile sul piano della tecnica, della logica, della proposizione fideistica. Il pellegrino è all’altezza della situazione, come lo sarà in seguito per successivi esami.
San Pietro: “Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: cos’è la Fede?”
Dante, dopo aver chiesto a Beatrice una sorta di permesso a rispondere: “Mi aiuti la Grazia ad esprimermi chiaramente davanti al vessillifero della Chiesa. Come scrisse il veridico tuo fratello san Paolo, che con te indirizzò sulla giusta via i romani, la Fede è il fondamento (sustanza) delle nostre speranze e l’argomento (in senso di possibilità) per parlare delle cose non visibili: queste a me sembrano le essenzialità del suo quid”.
Sustanza e argomento sono termini scolastici; nel verso 88 del XXXIII canto di questa cantica, leggiamo: “sustanze e accidenti e lor costume”, cioè: fondamenti delle cose e loro sostanza, le variabili di questa e il rapporto di queste due proposizioni (sono sempre termini tecnici della Scolastica).
Torna a parlare san Pietro (Allora udi’ viene ripreso al verso 79, come una lontananza anaforica che al 97° si ripete con una variante: Io udi’ poi) approvando la spiegazione di Dante, il quale al verso 70 scrive: “E io appresso”, usando la stessa espressione al verso 88 (“Appresso uscì…”). Tale modo di usare, in occasioni identiche, le stesse parole, è un riprendere anche terminologicamente l’introduzione di un concetto in fieri. Dunque il poeta dice che le cose profonde che egli vede in Paradiso, non sono visibili in Terra, ma il loro esistere sta nel fatto che si crede ad esse; su tale Fede poggia l’alta speranza; per questo prende concetto e denominazione di sostanza.
San Pietro: “Se tutto quello che s’apprende in Terra per mezzo dell’insegnamento fosse inteso con tanta chiarezza, non ci sarebbe bisogno di tanti sofisti”. E’ da intendere, la terzina, come sia indispensabile attenersi alla Rivelazione e alla stessa Fede. La quale – continua san Pietro – è stata molto bene esaminata.
La domanda che l’Apostolo aggiunge è di fondamentale importanza: “Tu hai nella tua borsa tale moneta (la Fede)?” Dante risponde che è certo di quanto crede, senza dubbi (inforsa è neologismo coniato dal Poeta alla fine della metafora). “Ma da dove ti pervenne questo gioiello prezioso sul quale si fonda ogni altra virtù?”, chiede il primo papa. Come si nota, l’esame si fa stringete: a san Pietro non basta una risposta, una certezza, ma ha bisogno di esplorare oltre nel credo di Dante: un oltre che deve dimostrare la fede cristiana, assolutamente e solo quella, l’unica, la vera. E Dante: “E’ stata la Grazia dello Spirito Santo, questa benefica pioggia che è diffusa nell’Antico e nel Nuovo Testamento, la quale supera ogni altra dimostrazione”. E qui, con procedimento d’una logica stringente, l’interrogante segue una via per la conclusione indiscutibile sul piano teologico: “Perché tu ritieni parola divina l’Antico e il Nuovo Testamento?”
Siccome Dante risponde con un argomento piuttosto semplice che riecheggia i testi apologetici (“La prova che mi dischiude il vero sono i miracoli, che la natura non ha né i mezzi né la capacità di operare da sola”), l’esaminatore fa la parte dell’avvocato non della difesa ma dell’accusa: “Come fai ad essere sicuro che quelle opere siano realmente accadute, se lo prova solo il Libro di cui si vuole dimostrare essere stato ispirato da Dio proprio per i miracoli ivi contenuti e descritti?” In parole povere, san Pietro fa capire a Dante la povertà della sua tesi: dapprima ha detto di credere alle Sacre Scritture per i miracoli in esse testimoniati; poi afferma di credere alla verità dei miracoli perché contenuti nel Libro. E’ una scarsa analisi deduttiva, ma Dante non si fa prendere in castagna, uscendo dal vicolo cieco (sebbene rifacendosi al ‘De Civitate Dei’ di sant’Agostino) con questa preziosa considerazione: “Poniamo che non vi siano stati i miracoli narrati nella Bibbia; allora, la diffusione della religione cristiana attraverso la predicazione e l’esempio dei primi martiri è di per sé un tal miracolo da far impallidire gli altri: il fatto che tu entrasti povero e digiuno in campo per seminare la buona pianta che divenne fruttifera vite e ora è arido sterpo”. Il Poeta non perde occasione per scagliarsi contro la Chiesa del suo tempo, vale a dire i suoi ministri.
La pausa della prova è riempita da un coro che loda Dio. Esso (il canto) fa da stacco e da raccordo contemporaneamente: i suoni indicibili sostituiscono le parole, ma esse sono contenute nel “Te Deum laudamus”, che Dante traduce in italiano penso per motivi di rima. Dunque, non c’è alcun vuoto di sostanza in paradiso: “lo gran mar dell’essere” è vivo e denso, intensissimo in ogni dove, specie nei cieli.
Ma san Pietro riprende il ragionamento, perché in realtà l’allievo non è giunto al secondo nocciolo della questione: “Devi espormi ciò che tu credi e le fonti della verità del tuo credo”.
“O santo Padre, tu che ora vedi palesemente quello in cui avevi creduto per fede, correndo avanti a tutti verso il sepolcro di Cristo; tu vuoi ch’io esprima la sostanza e la ragione del mio credere. E io rispondo così: credo in un Dio solo ed eterno, motore primo e immobile dei cieli; per tal Fede non ho solo le prove fisiche e metafisiche, ma anche la verità che da qui scende nel mondo attraverso Mosè, i profeti, i salmi, il Vangelo e voi che scriveste dopo che lo Spirito Santo vi alimentò perché voi nutriste tutte le genti; credo in tre Persone eterne, sostanza una e trina, tanto che si possono nominare al plurale quanto al singolare. Di questa profonda realtà (la Trinità) di cui sto parlando, mi viene l’insegnamento da molti passi del Vangelo con assoluta certezza: principio e favilla che cresce in vivace fiamma, lucendo in me come stella in cielo”. Dante conclude il canto con una similitudine: come il signore che ascolta dal suo servitore cose piacevoli e per ciò lo abbraccia, così il principe degli Apostoli, benedicendo il Poeta, lo cinse tre volte roteandogli intorno, tanto gli era piaciuto il dire del Pellegrino