Canto 27 - Visioni in bianco e nero

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

E’ qui contenuta una delle più violente invettive (se non la più dura e posta in modo definitivo, in quanto a parlare è il primo Pontefice) contro il papato nella persona di Bonifacio VIII.
Siamo ancora nel Cielo delle Stelle Fisse, ma nello stesso canto passeremo al Cielo Nono, cioè al Cristallino. Le intelligenze motrici, come scritto nella premessa, sono i Cherubini e poi i Serafini. E’ ancora mercoledì 13 aprile dell’Anno Giubilare. Il tempo sembra essersi fermato. La concezione di esso che ha Dante meriterebbe una trattazione a parte, però non è qui la sede.
I beati cantano il “Gloria”. Il Poeta ribadisce, in tre versi bellissimi, le qualità primarie del Paradiso: la bellezza crescente dei canti e la forza del fulgore della luce: “Ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso/ de l’universo…” (v. 4-5). Sia la materia, sia l’uomo stesso sospeso oltre i limiti terrestri, e la vicinanza estrema al Motore Primo e Causa di tutto, pongono la poesia in ambito cosmico, per cui dovremo considerare lo sfogo di san Pietro non un ritorno in pectore dell’Alighieri ai problemi transeunti dell’aiuola (termine che qui verrà ripreso e del quale abbiamo trattato in precedenza). Bensì un richiamo severo legato al fine eterno dell’uomo: i papi hanno due chiavi in mano (“Lo ciel poss’io serrare e disertare…”, c. XXVII dell’Inferno, v. 103 e seg.) con cui aprire o chiudere il Cielo. Per questo la veemenza di san Pietro è quasi incontenuta, in quanto investe il destino dell’umanità nei suoi fini escatologici.
Pietro ricominciò a splendere più degli altri: segno che stava per parlare. Infatti, il colore della sua essenza mutò dal bianco (Giove) al rosso (Marte): c’è da aspettarsi qualcosa di molto burrascoso.
San Pietro: “Se io mi trascoloro, non ti meravigliare, perché con il mio dire cambieranno colore anche costoro che mi attorniano. Colui che usurpa in Terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio vacante di fronte a Cristo (ripete tre volte “il trono papale” per enfatizzare la polemica, sull’esempio veterotestamentario di Ger. 7,4), ha tramutato il mio cimitero (dove fui sepolto) in una cloaca insanguinata e fetida (certo, in questo luogo così vicino al ‘Principio e Fine di tutto’, i versi 25 e 26 suonano ancor più pesanti del sintagma “e lascia pur grattar dov’è la rogna” di Cacciaguida: ma noi sappiamo che questi sbalzi di stili nel Poeta sono regola e dimostrano la permanenza – anche se più rara – delle passioni estreme dell’uomo-Dante pure laddove sembrava che egli avesse preso definitivamente le distanze dal mondo, cioè nella protasi dell’XI della Terza cantica: in realtà quelle distanze le ha dovute assumere dopo il fallimento dell’impresa dell’Alto Arrigo, e sono sincere, ma esigeremmo troppo se a quelle seguisse una totale dimenticanza dei motivi che hanno spinto il Fiorentino a scrivere una sorta di Quinto Evangelio). “Dei guasti operati da lui, godrà Lucifero nel profondo dell’Inferno”.
La polemica di san Pietro sgomenta tutti, nel senso che ogni anima - e Beatrice stessa - si infiammano sdegnati unendosi alla collera e al disprezzo contenuto in quel ragionamento: tutto si colora di rosso: una simile eclissi apocalittica Dante crede essersi verificata al momento della morte in croce di nostro Signore. Poi il suo tono si ammorbidì: “La Chiesa, sposa di Cristo, non crebbe alimentata dal sangue dei martiri per divenire in seguito un mezzo di arricchimento, ma per conquistare la beatitudine di questo luogo lieto. Non era nostra intenzione che si creassero fazioni all’interno del popolo cristiano (Guelfi Bianchi e Neri, Ghibellini? Qualcuno pensa anche alle eresie). Lo scandalo supremo consiste in questo: il mio sigillo garantisce mercimoni di prebende e riconoscimenti non meritati bensì ricevuti per denaro. Da qui scorgiamo lupi rapaci in vesti di pastori. Dio, che aspetti a rimettere le cose a posto? Verranno altri papi (si riferisce a Giovanni XXII e Clemente V) a suggere il sangue del nostro martirio. Però, quella stessa Provvidenza che sostenne Scipione Africano contro Annibale, presto – come io posso affermare – sosterrà ancora Roma”.
Qui il principe degli Apostoli dichiara, dalla sua altezza, dopo la sentenza di Cacciaguida, il profetiamo del viaggio dantesco e la sua provvidenzialità: e senza mezzi termini: “E tu, figliol, che per lo mortal pondo/ ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo”. E’ un ordine perentorio!
Al contrario di quando nevica da noi, che i fiocchi scendono dalle nubi; lì accadde che i beati salirono in alto. Dante seguì finché poté il loro moto; poi, sollecitato da Beatrice, rivolse gli occhi in basso per constatare il percorso fatto fin ora (adima è coniato da Dante: ad-imo, cioè verso il basso –v. 77).
Segue una difficile descrizione astronomica, la quale in fondo significa che da quando il Poeta è salito al Cielo delle Stelle Fisse sono trascorse sei ore. Vede Cadice (ricorda il “varco folle d’Ulisse”) e poi, a giro d’occhio, la Fenicia, vale a dire l’Asia Minore, quindi ha un orizzonte terrestre di 180 gradi. Ma la mente innamorata del Pellegrino arde dal desiderio di guardare gli occhi di Beatrice più che il nostro mondo, nel quale non c’è scenario naturale né pittura talmente ben riuscita da poter gareggiare col viso ridente della sua guida. E proprio la forza che infusero gli occhi di lei a Dante lo staccò dalla costellazione dei Gemelli per sollevarlo al Primo Mobile, il più veloce e ampio dei cieli, dove non ci sono pianeti o altri corpi celesti, ma un’uniformità assoluta, per cui non è possibile al Poeta dire in quale punto Beatrice lo portò.
Beatrice conosceva il desiderio del suo protetto leggendolo in Dio. Per l’ennesima volta il Poeta parla del riso di lei, tanto che questa parola meriterebbe un discorso a parte per i molti significati che esprime.
Ella inizia a spiegare la cosmologia (tolemaica) a Dante per sottolineare la differenza che intercorre tra il Primo Mobile e le sfere che ruotano intorno alla terra centro dell’universo. Ma dal primo Mobile ogni spostamento e rivoluzione del Cosmo derivano. “Questa sfera non ha altra collocazione che nella mente divina”, afferma la guida. Il Primo Mobile è racchiuso da un cerchio di luce e d’amore “e quel precinto/ colui che ‘l cinge solamente intende” (v. 113-114). Nessun astro misura il suo movimento, ma egli li riassume e contiene tutti come il numero 10 contiene il 5 e il 2. Ormai credo debba esserti chiaro che qui (nel Primo Mobile) sono le radici degli alberi frondosi dell’universo”.
Beatrice non può non continuare e concludere con la constatazione della pochezza umana (troviamo ripetuto il riferimento accorato di Dante all’avarizia, alla cupidigia, contro cui si scaglia in tutto il Poema Sacro: è la lupa, che il diavolo per prima mandò sulla Terra a causa della sua invidia e al fine di corrompere i mortali). I lettori e i critici dovrebbero tenere in maggiore peso questo vizio (“molti son gli animai a cui s’ammoglia”, Inf.,c. I, v. 100) che tutti li determina, portando alla corruzione la stessa organizzazione ecclesiastica, e pensando al Veltro come al suo netto contrario. Infatti, la terzina 124-126, servendosi di un proverbio popolare, dice: “L’uomo nasce propenso al bene, ma le passioni malvagie continue convertono in frutti gonfi e guasti le susine buone”. La bontà nell’innocenza finisce prima che le guance si riempiano di barba. Allo stesso modo, durante l’infanzia, non è presente la cupidigia, così come in quell’età il bambino ama la madre, che poi desidera morta appena cresce. Tale è la malvagità umana che appare con l’uscita dall’età infantile (la metafora della pelle bianca che diventa nera col crescere degli anni e della corruzione). “Però non ti meravigliare, perché giù nel mondo manca qualsivoglia guida, per cui l’umana famiglia si disvia”. Segue una predizione incoraggiante, che dobbiamo tradurre dalla sua complicatissima descrizione astronomica: non passeranno tanti anni che questi cieli irraggeranno influssi positivi, al punto che la flotta cristiana seguirà la rotta precisa e il fiore darà buon frutto.
“Ma prima che gennaio tutto si sverni” (v. 142, in cui gennaio conta per due sillabe in quanto le vocali a-i-o sono considerate sinalefe come uccellatoio etc. –cfr canto XV) fa riferimento all’anno bisestile per cui il giorno in più di febbraio si sarebbe accumulato tanto da prolungare il tempo e spostare gennaio fuori dell’inverno: potrebbe trattarsi anche di qualche secolo, ma non stiamo a centellinare l’invenzione poetica e la sua metafora o allusività come fosse un calcolo di ragioniere, ancorché – lo abbiamo visto già – Dante sia un preciso computista, sebbene in questo caso “l’attesa di secoli perché giunga la risoluzione per l’umanità” ci sembra eccessiva.