Canto 3 - Ferro

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
Un paese distrutto e mai restaurato, vittima del bombardamento di Cassino. Ecco la porta dell'Inferno. Set di John Ford durante la guerra, e poi di Monicelli con Gassmann e Sordi. Noi ci capitammo, ancora un caso, per le una mostra a cielo aperto delle sculture di Elio Mazzella. Assemblaggi ferrosi di recuperi bellici, tra le rovine e gli ulivi secolari. Violenti totem di pace.

San Pietro Infine
È un piccolo paese posto al margine nord del Casertano. Tale posizione nel territorio, era nel 1943 di principale importanza perché attraverso San Pietro e seguendo la Strada Statale 6 Casilina, si poteva accedere a tre importanti aree dell'Italia centrale: la valle del Liri, la piana di Venafro e pianura Campana. Nei periodo 8 - 16 dicembre 1943, San Pietro Infine fu sottoposto ad un incessante bombardamento d'artiglieria, al punto da esserne pressoché distrutto totalmente.

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Questo è il vero inizio della discesa agli inferi. È la sera del venerdì santo, 8 aprile 1300.
I canti precedenti, sostanzialmente esplicativi e didascalici, lasciano il posto a un’improvvisa dilatazione della conoscenza dell’Alighieri attraverso la visione dei primi dannati, benché si stia all’Antinferno.
Un piccolo adito introduce al regno del dolore senza speranza. Le scritte sulla porta sono ammonizioni che quel luogo di castigo è eterno. “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate” (v. 9). Ecco: l’Inferno è il regno dell’assenza d’ogni speranza di salvezza.
Dante non comprende il significato recondito delle parole e ne chiede spiegazione a Virgilio, il quale lo esorta a non aver paura né sospetto, perché vedrà genti dolersi del proprio meritato castigo. Tuttavia lo prende per mano, come un fanciullo, e gli spiega le arcane regole di quel mondo tanto popolato di morti. Un improvviso scenario di pianti, urla, sospiri, maledizioni, bestemmie, in lingue diverse, perché il mondo intero si riversa lì dopo la morte se si è in peccato, turba profondamente –e senza preparazione alcuna- il viandante, il quale, da vivo, entra nell’oltretomba. C’è un vento impetuoso che alza nuvoli di polvere come la rena quando il turbo spira, in quella totale assenza di tempo. È naturale e commovente il continuo chiedere a Virgilio, da parte di Dante, il motivo di tanto dolore. Egli vuol sapere chi è quella gente “nel duol sì vinta”. Sono gli ignavi, che vissero senza infamia e senza lode, scacciati dai cieli per non esser men belli, e rifiutati dai diavoli perché la loro vita amorfa non accrescerebbe alcuna gloria al loro orgoglioso male. Hanno forse –nel senso etico di Dante- la peggiore condanna: il mondo non serba fama di loro. Vigilio, con larvato disprezzo, esorta il pellegrino a non ragionar della loro sorte. Ma Dante è attratto da quel mondo nuovo e incredibile; guarda e vede un’insegna che girando correva talmente veloce, da sembrare indegna d’ogni posizione (allegoria degli ignavi: non prendono mai una posizione esatta, non stanno né in cielo né in Terra, né con Dio né col diavolo). Le anime sono così numerose, che il Poeta si stupisce al pensiero “che morte tanta ne avesse disfatta” (v. 57). Ma riconosce qualcuno nella turba affollata, nella ressa in movimento: è l’ombra di un uomo celebre che ha fatto il gran rifiuto. La critica non è concorde nell’identificarlo con Celestino V; molti già degli antichi pensavano a Ponzio Pilato, decisivo protagonista della morte di Gesù.

Le pene sono fastidiose più che atroci. Punzecchiature di vespe, mosconi, sangue colato dalle guance che si mescola alle lacrime che vengono raccolte ai loro piedi da fastidiosi e schifosi vermi. E Dante smania dalla voglia di sapere chi sia quella gente in tal modo punita. Virgilio lo obbliga ad avere pazienza per la risposta: gliela fornirà sull’altra riva dell’Acheronte. Ed ecco, con un colpo di scena potentissimo, apparie il traghettatore Caronte con gli occhi di bragia. Le anime giunte dalla morte vengono fatte salire sulla navicella a suon di remi. I colori sono villacei, rosso cupo, indaco. Ma Caronte è un demone e si accorge che Dante è vivo. Gli dice di allontanarsi, perché egli dovrà salire su legni più leggeri (la barca che conduce al Purgatorio dalla foce del Tevere). Virgilio azzittisce Caronte rassicurandolo che tutto è voluto dal Cielo. Quindi una potente descrizione delle anime spaventate –e stranamente desiderose di conoscere la propria pena-, fa di questo canto uno dei più drammatici e belli dell’intera cantica. Le similitudini con gli alberi che vedono a terra tutte le loro spoglie (le anime che scendono dal barcone stracarico, e pesante a causa dei peccati mortali); la corale psicologia dei dannati che bestemmiano, tremano, maledicendo il giorno, il luogo e il seme “di lor semenza e di lor nascimenti” (v. 105), mescolano la liricità al dramma. Ormai sono al di là dell’Acheronte. Virgilio decide di svelare a Dante il motivo del suo silenzio: “Siccome i cattivi convengono qui da ogni paese, Caronte non pensa che possa esservi un’anima buona: per questo ti ha rampognato”.
Così parla la guida, ma subito dopo la terra trema in un terremoto spaventoso, scatenando un gran vento dalle grotte infernali. Un lampo vermiglio accecò Dante, causandogli uno svenimento.