Canto 30 - visioni di una stella

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati

L’incipit, bellissimo, descrive l’affievolirsi, fino a sparire, dei nove cerchi angelici, così come al dileguarsi della notte svaniscono le stelle, via via secondo il loro splendore, fino alla più bella (la più luminosa potrebbe essere Venere nel tempo antelucano). A Dante non resta che guardare Beatrice, di cui illustra la bellezza suprema che trasmoda (va oltre ogni segno possibile) al punto che solo Dio, suo fattore, possa goderla nella sua interezza.
Qui inizia in modo quasi ossessivo la recusatio, la quale aggiungerà un tocco di inesprimibile emozione all’ultimo canto (ne riparliamo tra poco): “Da questo passo mi riconosco vinto: il mio intelletto e la mia memoria vengono meno di fronte al miracolo della sua bellezza. Dal primo giorno in cui, nel mondo, vidi i suoi occhi (da latino visus), fino a questa nuova ed estrema visione, non mi è stato mai negato il procedere nello scrivere, ma ora è necessario che io rinunci a illustrare la sua beltà, come farebbe ogni artista giunto al culmine delle sue possibilità espressive. Anzi, lascio a maggior bando/ quel che de la mia tuba, che deduce / l’ardua sua matera terminando”.
Tale dichiarazione ci riporta a una terzina del I canto del Paradiso: “Poca favilla gran fiamma seconda: /forse di retro a me, con miglior voci/ si pregherà perché Cirra risponda” ( v. 34-36): l’animo umano è complesso e contraddittorio, quindi nulla ci impedisce di credere a un momento di modestia da parte del Poeta, che pure si pone, pensando al futuro escatologico, nella cornice dei superbi in Purgatorio. E’ che Dante è cosciente della propria grandezza, ma conosce il limite delle “umane posse” e più volte ha indicato ai lettori il lacerante dissidio fra il volere e il potere umano (basti per tutti l’esempio del ‘folle volo’ di Ulisse, le cui gesta Dante ammira perché, sebbene la natura ponga i divieti all’osare, è dovere dell’uomo “seguir virturte e canoscenza” anche a costo della propria vita).
Beatrice informa il pellegrino di essere arrivati “al ciel ch’è pura luce: / luce intelletual, piena d’amore”, cioè nell’Empireo, entità spirituale assoluta, dove vedrà le due milizie (termine militare caro a Dante, usato in molti altri luoghi), quella dei beati e quella degli angeli. A lui è dato di antivedere i premiati già rivestiti del corpo che le anime riacquisteranno alla resurrezione dei morti, nel Giudizio Universale.
Come un lampo che accechi al momento, così Dante fu circonfuso dalla luce divina tanto da non distinguere nulla. Poi gli spiega Beatrice che quello è un segno benevolo di accoglienza da parte del Creatore. E qui il Poeta si accorge di una sua nuova trasformazione (un ripetuto trasumanar), poiché tornò a vedere subito con forza visiva tanto pura da non temere di non reggere altra luce, “e vidi lume in forma di rivera/ fulgido di fulgore, intra due rive/ dipinte di mirabil primavera” (v. 61-63, che riecheggiano, nelle atmosfere, le descrizioni del Paradiso Terrestre al momento dell’incontro con Matelda). Da tal fiumana fuoriuscivano faville vive che entravano nelle corolle dei fiori sembrando rubini incastonati nell’oro; poi, come inebriate dai profumi, riprofondavano nel fiume a guisa di un andirivieni: se una rientrava, un’altra usciva fuori. Beatrice allora scorge il desiderio di Dante di sapere, ma la spiegazione di tanta straordinarietà gli verrà data solo dopo aver bevuto quell’acqua santa. Aggiunse: “Il fiume e li topazi/ ch’entrano ed escono e ‘l rider de l’erbe/ son di lor vero umbriferi prefazi” (v. 76-78: terzina densa di significato e di bellezza, ma che ha bisogno di essere spiegata: il fiume di luce e le scintille che sembrano topazi, le quali entrano ed escono da esso, e il ridere delle infiorescenze, sono anticipazioni velate della verità che essi racchiudono; vale a dire che, sotto l’ombra di un simbolo, si nasconde una realtà che va scoperta). Tuttavia Dante non ha la vista ancora tanto forte da distinguere fino in fondo i dettagli e le verità “ascose” (lo dice la sua guida a spiegazione della metafora precedente). Ed ancora il Poeta usa metafore riguardanti il rapporto del bambino con la madre o con il latte che lo nutre; scrive infatti che non esiste fantolino che si precipiti così velocemente verso la mammella materna se si desta tardi e affamato, quanto lui nel lago per vederci più chiaro, come aveva detto Beatrice. Ed appena bagnò le ciglia, gli parve che il fiume fosse divenuto un lago. “Allora, come persone che si tolgono la maschera e appaiono differenti, allo stesso modo vidi faville e fiori cangiare aspetto, tanto che mi furono manifeste ambo le corti del cielo”. Ed ecco di nuovo un’invocazione rivolta direttamente a Dio (l’Apollo della lunga protasi del primo canto di questa cantica) affinché lo renda all’altezza della situazione sia come godimento delle cose supreme sia soprattutto per descriverle. Nell’Empireo c’è una luce gloriosa che rende visibile il Creatore a tutti gli esseri del Paradiso che trovano la pace al solo vederLo. E tale luminosità si distende in figura circolare talmente ampia, che la sua circonferenza andrebbe larga come cintura dello stesso Sole. Questo ‘cerchio-lago’ è fatto da un raggio divino: esso si riflette nella parte superiore del Primo Mobile “che prende quinci vivere e potenza” (v. 108). E come una collina che si specchia in un lago quasi mirasse la sua bellezza adorna di infiorescenze primaverili, così Dante vide tante anime su più di mille gradini, che avevano fatto ritorno in Paradiso dal mondo mortale e transitorio, specchiarsi nel lago di luce. E se il gradino più basso raccoglie in sé tanta luminosità, figuriamoci il più alto! La vista di Dante tutto comprendeva: l’altezza, la larghezza e la profondità di quella beatitudine. Nell’Empireo tutto è fuori dello spazio e del tempo. Nel centro (il giallo è una metafora che indica il cuore del fiore) della Rosa Sempiterna, che digrada, dilata ed emana profumo, Beatrice guidò il Pellegrino dicendo: “Contempla la vastità di queste bianche stole e come è pieno il convento (il consesso dei beati), dato che poche anime beate si attendono ormai”. Le parole di Beatrice (le ultime: e chiuderanno il canto) indicano due possibilità di spiegazione: gli scanni sono pochi perché nel Medioevo si riteneva prossima la fine del mondo; oppure – io credo più a questa interpretazione dato che Dante, nel XVII del Paradiso, parla del timore di non essere ricordato da coloro “che questo tempo chiameranno antico” (v. 120) - perché la corruzione crescente e gli altri vizi rendono cattivi gli uomini e quindi indegni del Cielo. Ma c’è un particolare strano: un seggio è vuoto, però vi è posta sopra la corona regale dell’alto Arrigo (Arrigo o Enrico VII di Lussemburgo, sul quale il Fiorentino riponeva le sue estreme speranze, dato che – eletto re di Germania nel 1308 – veniva invitato dal papa Clemente V a scendere in Italia per mettere pace tra le fazioni, ma morì improvvisamente nel 1313 a Buonconvento vicino a Siena). Uomo di forti ideali, di alto senso della giustizia, fu ammirato immensamente dal Poeta ed è l’unico a cui Dante (che ambienta - ricordiamolo – il suo viaggio nel 1300) profetizzi la collocazione in Paradiso essendo il re ancora vivo nell’anno giubilare.
Fra le ultime parole di Beatrice, vi è una similitudine riguardante ancora il fantolino, ma in modo diverso dalle altre: “La cieca cupidigia che v’ammalia / simili fatti v’ha al fantolino/ che muor per fame e caccia via la balia”: siete talmente accecati dalla brama di possesso e dall’odio, che agite come il lattante che pur di scacciare la balia muore di fame. E l’ultima frase di Beatrice è una profezia del male punito: presto Clemente V andrà dove sta Simon Mago (cfr. Inferno, terza bolgia del cerchio ottavo, canto XIX e nostra sinossi), spingendo in dentro nelle fosse del cilindro il pontefice Bonifacio VIII.