Canto 6 - Visioni di scavi

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati
L’incipit è solenne: l’imperatore Giustiniano narra la storia dell’aquila romana. Per tutto il canto parla soltanto lui, proseguendo nel VII, che ha la stessa importanza di questo (e vedremo il perché). La protasi (che nel presente caso è già incorporata nel racconto e può non essere chiamata così), nei classici 12 versi, sintetizza due secoli di storia. Ora, perché mai Dante abbia scelto Giustiniano, lo vedremo fra poco. Per il momento ripetiamo un concetto basilare del pensiero dantesco: Dio stesso ha voluto l’impero romano, perché il mondo riunito accogliesse Cristo e fosse il seme – anzi lo strumento - dell’universalità della Chiesa.
“Dopo che Costantino portò l’aquila contrariamente al corso del cielo che essa seguì quando Enea venne nel Lazio e sposò Lavinia (vale a dire: Costantino marciò da occidente ad oriente, in senso inverso al percorso tenuto dal figlio di Anchise dopo la fuga da Troia in fiamme: da est ad ovest), l’uccello eletto dal Signore (l’aquila, simbolo della forza di Roma) restò a Costantinopoli dal 330 al 527 (quindi meno dei duecento anni indicati da Dante), dove governò il mondo all’ombra delle sue sacre penne, finché, succedendosi gli imperatori, giunse fino a me. Fui Cesare, e ora sono semplicemente Giustiniano: dal corpo delle leggi tolsi l’eccessivo e l’inutile”.
Questo grande imperatore nacque in Macedonia, a Skopje, nel 482. Nipote dell’imperatore Giustino, fu da questi adottato ed associato al trono nel 527. Morì nel 565. Celebre è anche il nome di sua moglie, Teodora, donna lungimirante, volitiva, fortemente influente sull’operare del marito (la sua vita prima del matrimonio ha dato la stura a dicerie di ogni sorta, purtroppo vere in gran parte, ma il Cesare non vi badò, facendo una scelta oculata e saggia). Il Corpus iuris civilis fu il suo capolavoro, la base del Diritto di ogni popolo e dei secoli a vanire. Questo è uno dei motivi, se non il primo, per cui il Poeta mette lui e non altri imperatori altrettanto meritevoli, nel cielo di Mercurio (si veda lo schema nella premessa); l’altro riguarda il Concilio di Costantinopoli del 553, sul problema del monofisismo (un’unica natura in Cristo), e l’Imperatore si convertì all’ortodossia che vedeva in Gesù due nature: quella umana e quella divina (di contro all’eresia di Etiche); comunque, poiché Dante non dimentica mai il problema politico, bisogna tenere in piena considerazione il fatto che Giustiniano riallargò i confini dell’impero romano, sgominando i Goti (grazie a Belisario) e quindi mettendo di nuovo piede in Italia; tornò in Africa vincendo i Vandali e in Spagna sottomettendo i Visigoti.
Giustiniano dichiara che fu il papa Agapito I a portarlo sulla retta visione religiosa.
Una volta svelata la sua identità, l’anima parla dell’aquila imperiale, degna di riverenza per volere di Dio, al punto che chi se ne appropria (i Ghibellini) e chi vi si oppone (i Guelfi) stanno in torto. L’ossequio a tale simbolo (e alla sua realtà proiettata nella storia del mondo) iniziò con la morte di Pallante, alleato di Enea nella battaglia contro Turno, nel Lazio (si ricordi l’espressione di Virgilio nel I dell’Inferno: “per cui morì la vergine Camilla”). Il sacro segno (sempre l’aquila imperiale) ebbe la sua dimora per tre secoli in Alba Longa, fino allo scontro degli Orazi e Curiazi.
La sintesi storica continua con una forza di rappresentazione essenziale che ha fatto giustamente di questo canto (sempre tenendo presente il dettato dei sesti canti: Firenze in Inferno, l’Italia in Purgatorio, l’impero in questa cantica) un punto di riferimento obbligato (anche in specularità di pensiero con il Monarchia) oscurando il VII, che è il canto della Croce (altrettanto decisivo nell’economia generale della Commedia). Così, l’aquila rifulge di gesta anche sotto i sette re di Roma, dal ratto delle sabine al suicidio di Lucrezia violentata da Sestio, figlio di Tarquinio il superbo (la ribellione dei romani allo scandaloso episodio indica il momento della rivolta di questi agli etruschi). Da allora, Roma si ingrandì “vincendo le genti vicine”. E poi le vittorie su Brenno il capo dei Galli nel 390 a.C., su Pirro re dell’Epiro, sulle repubbliche e i principati italiani. Ed ecco Tito Manlio Torquato, Cincinnato (questo dittatore preso dai campi e tornato all’aratro, Dante lo porterà a esempio nel XV del Paradiso), le eroiche famiglie dei Fabi (di cui il più celebre è Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore) e dei Deci. Né poteva mancare il ricordo delle guerre Puniche. Sotto l’aquila trionfarono, ancora giovinetti, Scipione Africano e Pompeo; sotto il sacro segno fu distrutta Fiesole, ai piedi della quale sorge Firenze (anche questo particolare ritroveremo nel XV del Paradiso). Poi, quando Dio volle ridurre il mondo senza guerre, l’aquila fu in mano a Cesare, le cui imprese non trovano parole adatte ad essere espresse. L’ammirazione verso “Colui ch’a tutto il mondo fe’ paura”, colui che cammina nell’Antinferno “con gli occhi grifagni” è tale, che nella narrazione di Giustiniano Dante fa emergere la velocità delle imprese gloriose di un uomo straordinario come colui che aveva capito che la repubblica era finita, inaugurando l’impero e la pace interna ad esso per molto tempo, e gettando le basi della filosofia politica di tutti i tempi a venire.
Dal verso 73 il tono epico muta per immettere anche la considerazione religiosa, anzi teologica, della funzione di Roma nella venuta del Figlio di Dio. Gli stili di Dante sono molteplici e rispondono, grazie al suo genio, via via alle necessità narrative. Traduco in prosa – chiarendo il concetto - il discorso di Giustiniano: “Di quello che l’aquila seppe realizzare con il secondo imperatore (baiulo è latinismo che significa portatore), si lacerano in lamenti bestiali, al fondo dell’Inferno, i traditori Bruto e Cassio, e pure Modena e Perugia (si tratta degli scontri di Ottaviano con Marco Antonio) si dolgono. La trista Cleopatra ancor piange, lei che, per fuggire al futuro Augusto, si fece mordere dall’aspide. L’aquila corse con Ottaviano fino al mar Rosso; con costui pose il mondo in tanta pace, che fu serrato il tempio di Giano. E, tuttavia, quello che il sacro segno aveva fatto e stava per fare sulla Terra ad esso sottomessa, appare piccola cosa se si mira, con sentimento limpido e sguardo puro, all’accadimento centrale nella storia (imperatore Tiberio). Infatti, Dio riservò al segno romano il privilegio di vendicare la Sua ira. Ora meravigliati per ciò ch’io ti spiego: con Tito, poi, corse a far vendetta del peccato antico, commesso da Adamo ed Eva, grazie alla crocifissione di Gesù”.
Come si vede, il pensiero di Dante confluisce sul punto di passaggio della clessidra della storia: Dio vuole l’impero romano per rendere maturi i tempi della venuta di Cristo, poiché il mondo è unito sotto Roma e Gesù poteva essere giudicato da un tribunale universale per spargere il suo sangue di cancellazione del peccato originale sull’intero mondo allora conosciuto.
Dal verso 93 al verso 94, c’è uno stacco di molti secoli, perché si arriva a Carlo Magno che soccorse la Chiesa quando il dente longobardo la morse.
Continua Giustiniano, con chiara polemica attuale ai tempi di Dante: “Ormai puoi ben giudicare quei cotali a cui mi riferii sopra e che sono la cagione di ogni vostro male. I guelfi oppongono all’aquila la bandiera con i gigli di colore giallo, appoggiandosi alla Francia; gli altri se ne appropriano per interessi di parte, per cui è arduo comprendere chi dei due maggiormente sbagli”.
I versi che seguono sono un’invettiva contro guelfi e ghibellini. Dal 112 il discorso verte sulla sostanza spirituale del cielo di Mercurio, piccola stella che si “correda” di anime che sono state attive nel mondo, ma al fine di giungere all’onore e alla fama dopo la morte. Purtroppo, sottolinea Giustiniano in una chiarificazione didascalica e morale, quando i desideri poggiano su queste cose fatue, si sviano dal fine supremo teso a Dio, e quindi è necessario che i raggi del vero amore siano meno luminosi. Similmente a quanto aveva dichiarato Piccarda, anche Giustiniano afferma che in quel cielo lontano dalla luce suprema c’è ugualmente beatitudine, perché il premio non sembra né minore né maggiore del merito. “Diverse voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita / rendon dolce armonia tra queste rote” (v. 124-126): qui appare, con sapiente sistemazione metrico-accentuativa, un accenno alla musica, anzi all’armonia, e alla bellezza della diversità delle situazioni (qualcuno ha scritto: “La varietà è condizione di bellezza”). Sempre come era accaduto nel terzo canto, in cui, alla fine del racconto Piccarda indica Costanza, la quale aveva avuto una sorte simile alla sua; pure qui, in modo capovolto (in quanto il personaggio maggiore è Giustiniano, mentre là era Costanza) ma ugualmente in parallelo, sì da rispettare quanto poi chiarirà Cacciaguida nel XVII del Paradiso, appare un protagonista minore, Romeo da Villanova, di cui tesse le lodi l’imperatore. Romeo fu ministro di Raimondo Beringhieri (taluni eleggono la dizione di Berengario IV), grande politico e tessitore di “matrimoni”: le quattro figlie del conte andarono spose, grazie a lui, ad uomini potenti (Beatrice addirittura a Carlo D’Angiò). Oltre tutto, riannesse la città di Nizza alla Provenza, ma – come accade nelle corti: e lo abbiamo visto con Pier delle Vigne nel XIII dell’Inferno – le calunnie lo misero in cattiva luce presso Beringhieri, tanto che dovette andarsene povero e vecchio: “e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe/ mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe” (v. 140-142). Dante si identifica con Romeo di Villanova, cosa d’altronde piuttosto frequente nella Commedia: all’inizio di non pochi dialoghi con le anime, in ogni cantica, i protagonisti (Dante e lo spirito che interviene o che è interrogato e risponde) sono distanti, ben definiti nelle loro personalità, nelle loro storie, nei problemi che li animano, ma, via via che il colloquio si approfondisce, si nota una sorta di attrazione da parte di uno dei due verso l’altro, fino a identificarsi per un particolare (esempi supremi Farinata per l’amor di Patria, Ugolino per la paternità dolente, Oderisi per il ridimensionamento della gloria terrena, Francesca e Paolo per la debolezza della creatura umana di fronte alle passioni etc.).