Canto 7 - Visioni di sguardi

Paradiso

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Giustiniano chiude il suo ampio narrare con un canto in latino: “Osanna, Santo Dio degli eserciti, che con il tuo splendore illumini grandemente i felici fuochi di questi regni” (malacòth – che rima con sabaoth – chiudendo entrambi due endecasillabi tronchi, dovrebbe scriversi mamlacoth, dall’ebraico). La lunga esposizione di Giustiniano si era aperta con la solennità degna del parlare d’un imperatore, e si conclude (guarda caso!) con una ugualmente grandiosa chiusa, ma la differenza consiste – e non è cosa da poco – nel passaggio da una elevata esaltazione della storia del mondo, dell’aquila romana, a un salmo di lode trionfale a Dio. E la fuga verso regioni dello spirito, all’assenza di sguardi terreni, è repentina.
Dopo il nono verso, Dante riprende a concentrarsi sui dubbi che –naturalmente – non possono non sorgere nella sua mente di uomo, nel luogo in cui però – data la guida - gli potrebbero essere risolti in luce di verità; però non ha il coraggio di esternare la sua sete di conoscenza a colei che lo mette in soggezione già al solo pensiero di pronunciare l’inizio e la fine del nome di lei. Ma Beatrice sopportò per poco la titubanza del Pellegrino; raggiando col suo bel riso al punto che farebbe felice un uomo nel fuoco stesso, parla: “Secondo il mio infallibile avviso, noto che ti stai tormentando su un punto: com’è possibile che una giusta vendetta possa venir poi vendicata con altrettanto senso di giustizia? Sta’ attento, perché la mia risposta ti donerà una grande sentenza”.
Bisogna qui riflettere un attimo sulla parola “riso” e sul verbo “rise”, che assumono in questo contesto significati plurimi in Beatrice: riso di meraviglia, di compassione per l’ignoranza del Poeta, di accondiscendenza, di contentezza per i primi passi dell’apprendimento del suo protetto, stupore di qualcosa che da Dante si riflette nell’intimo della guida, anche se “riso” lo abbiamo letto nel significato di bocca, di bellezza di labbra e denti giovani (Paolo e Francesca). Insomma la ripetizione continua, piena però di sfumature, di questa parola o del verbo non devono farci pensare a un riempitivo qualunque: a parte il fatto che la carità reca scritto un faccia il sorriso della bontà, fin ora c’è stato fin troppo pianto e stridore di denti perché la terza cantica non risorga col più umano dei sentimenti: il sorriso (che è pure simbolo di accoglienza oltre che di pace).
Riprende Beatrice, nel tono didascalico-teologico: “L’uomo che non nacque, Adamo, a causa della sua disobbedienza non condannò soltanto se stesso ed Eva, ma tutta l’umanità. La quale provò ogni male, dalle malattie alle guerre, per tanti secoli, oppresso dal grave peccato della superbia che aveva portato a disobbedire al Creatore. Ma venne il Salvatore, Figlio di Dio, a prendere su di sé la condizione umana, quella natura che si era tanto allontanata dal Padre. Adesso la tua attenzione si unisca all’intelligenza: l’indole dell’uomo nato dalle mani di Dio era buona, finché non si allontanò col peccato della disubbidienza. Per cui, anche la natura umana di Cristo, nel suo farsi materia e corpo, partecipa dell’universale condizione di corruttibilità, sempre a causa dell’allontanamento da Dio. Così, la condanna fu giusta, ma anche ingiusta se si tiene conto che la persona umana era stata l’incarnazione del Figlio di Dio. Per ciò, da un unico atto, uscirono cose diverse: - ch’a Dio e a’Giudei piacque una morte - (v. 47).
Ora, dunque, dovrebbe esserti agevole comprendere quando si dice che giusta vendetta venne vendicata da un tribunale giusto. E, tuttavia, mi accorgo che tu non sei libero dai dubbi che ti rampollano uno su l’altro nella testa. Tu pensi: - Perché Dio ha scelto questo sistema per redimerci? -. Fratello, questo decreto è oscuro per chi non abbia ingegno adulto alla fiamma di carità. Ed è difficile comprenderlo, ma io ti spiegherò perché questo modo è stato il più degno”.
Dante si destreggia come può, sebbene a noi sembri il suo uno sforzo filosofico più comprensibile ai suoi contemporanei che a noi.
“La divina bontà, che disprezza ogni forma di invidia, brilla in sé ed emana bellezze eterne, che non subiscono la fine nel tempo e sono libere. Ella le ama di più in quanto più somiglianti a Lei, alla divina bontà. L’uomo di avvantaggia di questi doni, a patto che nessuno di essi venga meno. Il peccato gli toglie la libertà, rendendolo dissimile dal Sommo Bene. Per tornare alla dignità primaria, egli deve riparare e ricomporre lo stato originario. L’allontanamento dal Paradiso Terrestre dei vostri primi avi, ebbe per conseguenza la perdita di tali benefici. Non si poteva riparare che in due modi: o che Dio, per la sua sola bontà, avesse perdonato e rimesso il peccato, o che l’uomo, da sé stesso, ‘avesse soddisfatto a sua follia’. Adesso cerca di penetrare dentro l’abisso dell’eterno consiglio”. Questa espressione la ritroveremo nel XXXIII canto, nella preghiera alla Vergine. Tuttavia, la continua esortazione di Beatrice a Dante perché intenda, o cerchi di intendere, facendo uno sforzo, acuendo l’attenzione etc., sottolinea non solo l’importanza delle problematiche, ma anche le difficoltà intrinseche ad esse. Infatti, Beatrice sottolinea che l’uomo, nella sua limitata possibilità, non sarebbe mai stato in grado di riparare il danno commesso, in quanto l’umiliazione dell’ubbidienza e del pentimento non sarebbe mai stata all’altezza della disubbidienza e dell’arroganza di superbia. Rimanevano le uniche vie che ti ho già indicato: la misericordia o la giustizia. Ma poiché l’opera è più gradita all’operante, per quanto maggiormente è informata dalla generosità dell’autore, Dio scelse entrambe le vie: Egli si fa uomo (e questa è la strada della misericordia); Cristo muore crocifisso (e questa è la strada della giustizia). Dall’inizio dei tempi alla fine di essi, non vi fu né vi sarà un’azione più grande, un processo così magnifico riguardante entrambe le vie; infatti, Dio, nel donare sé stesso, per far l’uom sufficiente a rilevarsi, fu più generoso che se lo avesse perdonato. In quest’ultima maniera l’uomo non avrebbe recuperato la sua intera dignità, perché sarebbe mancato l’atto della giustizia rappresentato dalla passione di Gesù, Figliuol di Dio umiliato ad incarnarsi”.
Non è finita qui la disquisizione. Beatrice afferma di dover tornare indietro, su un punto, per chiarirlo a Dante così come lo ha chiaro lei.
“Tu pensi: io vedo l’acqua, il fuoco, l’aria e la terra – i quattro elementi fondamentali del mondo e della vita – e tutte le diverse lor misture, essere soggette a corrompersi, a durare poco nel tempo; eppure anche queste sono create da Dio. Se quanto è stato detto risulta a verità, anche esse dovrebbero essere esenti da corruzione. Rispondo e chiarisco: fratello, gli angeli e il luogo ove ora sei, si possono dire creati nel loro essere intero, in essenza pura; ma gli elementi che tu hai citato derivano da una virtù seconda, cioè da virtù creata”.
La terzina 136-138 è un sintagma ripetitivo e ampliativo del concetto già espresso in più punti. Subito dal verso 139 la spiegazione è più chiara e diretta: l’anima vegetativa e quella sensitiva, cioè le cose del mondo, sono generate proprio dalle cause seconde e quindi sono corruttibili. Si noti come il dubitativo ma si anteponga ad ogni osservazione e ad ogni spiegazione: anche qui (v. 142) c’è la contrapposizione, che stacca definitivamente la qualità immortale dell’uomo dalle altre creature transeunti, perché la nostra anima è creata direttamente da Dio. La chiusa del canto è dichiarazione inattaccabile (secondo i canoni del ragionamento tenuto sempre da Beatrice) della resurrezione della carne, in quanto i corpi di Adamo ed Eva furono creati da Dio stesso.