Canto 33 - Memoria

Inferno

QUASI UN DIARIO DI VIAGGIO di Lamberto Lambertini
L'intuizione fu un lampo: Ugolino nel relitto di Ustica. Magari bisogna chiudere gli occhi, trattenere il fiato, ma si deve fare. Un canto così forte (e così noto, quando s'ode: la bocca sollevò, c'è sempre un mormorio in platea) merita una risposta forte. Ho pianto leggendo, l'ho già detto. Spiegare il perchè dell'incrocio narrativo con il ficus gigante di Palermo è facile e, insieme, difficile. I rami/radici s'intrecciano come un labirinto. A noi non è dato sapere se vengono dall'alto o dal basso. Fors'anche la regione dove realmente accadde il delitto? Troppi innocenti uccisi.

XXXIII - MEMORIA (Bologna/Palermo)
Museo per la Memoria di Ustica

Il Museo per la Memoria di Ustica di Bologna, realizzato da Christian Boltanski, nasce per volontà dell'Associazione dei Parenti delle Vittime. L'installazione permanente di Christian Boltanski circonda i resti del DC9 abbattuto il 27 giugno 1980 mentre si dirigeva verso l'aeroporto di Palermo. Le 81 vittime della strage sono ricordate attraverso altrettante luci che dal soffitto del Museo si accendono e si spengono al ritmo di un respiro. Intorno al velivolo ricostruito 81 specchi neri riflettono l'immagine di chi percorre il ballatoio, mentre dietro ad ognuno di essi 81 altoparlanti emettono frasi sussurrate, pensieri comuni e universali, a sottolineare la casualità e l'ineluttabilità della tragedia. Nove grandi casse nere sono state disposte dall'artista intorno ai resti riassemblati del DC9: in ognuna di esse sono stati raccolti decine di oggetti personali appartenuti alle vittime. Scarpe, pinne, boccagli, occhiali e vestiti che documenterebbero la scomparsa di un corpo, rimangono così invisibili agli occhi dei visitatori.
Orto Botanico di Palermo
L'Orto Botanico dell'Università di Palermo è una tra le più importanti istituzioni accademiche italiane. Considerato un enorme museo all'aperto, esso vanta un'attività di oltre duecento anni che ha consentito anche lo studio e la diffusione, in Sicilia, in Europa e in tutto il bacino del Mediterraneo, di innumerevoli specie vegetali, molte originarie delle regioni tropicali e subtropicali

 

Sinossi a cura di Aldo Onorati
Prima parte
Sono le sei del pomeriggio, circa.
In questo canto, che si divide in due parti ben distinte, i poeti calcano il ghiaccio dell’Antenòra e poi di Tolomea. Nella prima zona vi sono i traditori della patria; nell’altra, i traditori degli ospiti.
Dante, nel passo precedente, aveva anticipato la scena macabra che qui si svilupperà in tutta la sua disumana e tragica dimensione.
Quel peccatore, sentendosi così apostrofato, solleva la bocca dal pasto feroce, cercando di pulirla ai capelli di quel cranio che egli stesso rodeva. Poi cominciò a parlare così: “Tu vuoi che io rinnovi, al solo pensiero prima che ne favelli, un dolore disperato che mi pesa sul cuore. Ma se le mie parole possono essere il seme per infamare il traditore che io trito coi denti, allora mi udirai parlare e mi vedrai piangere al tempo stesso. Io non ti conosco né so per quale via sei sceso quaggiù, ma la tua parlata ti rivela fiorentino. Io fui il conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: ora ti rivelerò perché sono per lui un vicino tanto feroce.
Non c’è necessità di dirti in che modo, in seguito alle sue malvagie trame, fidandomi di lui, io fossi catturato e poi ucciso: è nota la mia vicenda; ma quel che tu non puoi aver inteso raccontare, cioè come fu crudele la maniera di farmi morire, ora udirai dalla mia voce, e potrai considerare se mi ha recato o no offesa!
Una feritoia piccola dentro la torre della Muda, che ora (a causa mia) si chiama la torre della Fame, mi aveva mostrato dalla sua apertura più lunazioni, quando io feci il nefasto sogno che mi predisse il futuro. Costui mi pareva la guida nel cacciare il lupo e i cuccioli verso il monte San Giuliano, che si frappone fra Pisa e Lucca. Sul fronte spiegato a battaglia, aveva messo dinanzi a sé Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, con cagne esperte e bramose di cacciare. Ma la corsa fu a favore delle cagne, che con i denti aguzzi mi pareva che fendessero i fianchi al padre e ai figlioli.
Prima dell’alba, destatomi, sentii piangere i miei figli, e chiedere del pane.
Se tu non provi alcun turbamento pensando a quanto il mio cuore presagiva, sei davvero crudele; e se non piangi a questo racconto, quali cose ti commuovono fino alle lacrime?
Eravamo tutti desti, e s’avvicinava l’ora in cui il cibo ci veniva portato, di solito: ma ognuno di noi dubitava, per aver fatto un sogno simile; quando sentii inchiodare l’uscio in basso a l’orribile torre, fissai negli occhi i miei figli senza dir parola. Io non piangevo, ma dentro divenni di pietra: loro invece lacrimavano, e Anselmuccio mio chiese: “Tu ci guardi in modo così strano! Perché?”
Non risposi, né piansi, e questo fu per l’intero giorno e la notte appresso, fino alla nuova aurora.
Appena un piccolo raggio di sole penetrò nel doloroso carcere, e io scorsi nei quattro volti il mio stesso aspetto, in un gesto disperato mi morsi entrambe le mani e loro, credendo ch’io lo facessi per il bisogno di mangiare, immediatamente si alzarono in piedi esclamando: “Padre, sarebbe per noi meno doloroso se tu ti cibassi di noi anziché di te stesso: tu ci hai dato la vita, e quindi il corpo nostro è tuo”.
Allora mi quietai per non aggravare la situazione. Quel giorno e il successivo stemmo tutti muti. Maledizione, o terra, perché non ci ingoiasti?
Eravamo giunti al quarto dì in quella disperata situazione, quando Gaddo mi si gettò ai piedi, dicendo: “Padre mio, perché non mi aiuti?”. Davanti a me morì; e come tu puoi vedere me, così vid’io cadere i tre rimasti, ad uno ad uno, fra il quinto e il sesto giorno, per cui iniziai, ormai reso cieco dal dolore e dalle privazioni, a brancolar sopra i loro cadaveri, e li chiamai per due giornate intere dopo che furono morti. Alla fine, più che il dolore, ebbe potere su di me il digiuno”.
Qui termina il tragico resoconto degli ultimi tempi del carcere di Ugolino e dei suoi figli e nipoti (Gaddo e Uguccione, i figli; Anselmuccio e Nino detto il Brigata, i nipoti: siamo al febbraio 1289). Prima di continuare, è necessario spostare la luce su alcuni punti oscuri, non per chiarirli, perché è impossibile, ma per tentare una spiegazione. Comunque, l’aver proceduto al solo riassunto del testo senza commenti, dichiara la massima secondo cui di fronte al capolavoro (cosa rara nei secoli) si resta muti come dinanzi al Mistero.
Dante –lo abbiamo visto in altri incontri- mette sempre qualcosa di sé nella situazione, nel personaggio descritto, in un particolare apparentemente insignificante. Qui c’è di mezzo la disumana punizione accollata anche ai due figli e ai due nipoti del conte Ugolino. Le colpe dei padri non devono ricadere sulla prole. E ciò sembra chiaramente riferirsi anche a Dante padre, allontanato dalla famiglia a causa dell’esilio. Solo molto più tardi Iacopo e Pietro poterono raggiungerlo. La moglie, Gemma Donati, restò in Firenze (convinzione ferma di Boccaccia) e la figlia Antonia, preso l’abito forse col nome di suor Beatrice nel monastero di santo Stefano degli Ulivi, non poté muoversi dal convento (e, tuttavia, se fosse a Ravenna vivente il padre o dopo la morte di lui, naturalmente monaca, non è ben chiaro).
Da questa ingiustizia perpetrata (nella torre della Fame) ai danni dei consanguinei dal “traditor tradito” (e spiegheremo perché), nasce l’apostrofe contro Pisa, durissima: le piccole isole Capraia e Gorgona debbono assieparsi alla foce dell’Arno per annegare in esso, con l’aumento del livello, ogni persona. E perché? Eccco: “Se ‘l conte Ugolino aveva voce/ d’aver tradita te de le castella,/ non dovei tu i figlioi porre a tal croce./ Innocenti facea l’età novella…” (85-88).
Ora vediamo i due punti irrisolti (e forse irrisolvibili dalla critica).
Primo: chi è il conte Ugolino e perché sta nel cerchio IX, fra i traditori?
Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, personaggio di spicco nella politica del XIII secolo, possedeva molti castelli in Sardegna e nella Maremma pisana. Antica l’appartenenza alla parte ghibellina. Il punto centrale è questo: essendogli stato affidato il comando delle navi da guerra contro Genova, subì la disfatta della Meloria (6 agosto 1284). Intanto, Lucca, Firenze e Genova si coalizzarono contro Pisa. Il conte, per fiaccare la pericolosa unione, donò alcuni castelli sia ai lucchesi sia ai fiorentini, ma questo atto di disperata “diplomazia delle alleanze” tramite una sorta di corruzione al fine di trovare una via di uscita all’insostenibile ed impari fronte delle tre potenze contro la sola Pisa, venne interpretato come un tradimento. Ma non basta qui. Quando tornarono i prigionieri catturati dai genovesi, l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, nipote del cardinale Ottaviano (nominato nel canto X al verso 120), si unì alle potenti famiglie dei Gualandi, Sismondi e Lanfranchi, imprigionando, il primo luglio 1288, Ugolino coi suoi figli e nipoti con l’accusa di aver tradito Pisa cedendo “le castella” a fiorentini e lucchesi. Francesco de Sanctis lo scagiona, definendolo il traditor tradito. Ma Dante lo pone tuttavia in questa zona, la seconda del IX cerchio, cioè la Antenòra, dove sono puniti i traditori della patria!
Secondo: l’enigmatico verso 75: “Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”. Esso è stato interpretato in due modi diametralmente opposti: “Dopo, più che il dolore, mi uccise la fame”; “Poi, più forte del dolore fu il digiuno, per cui mangiai le carni dei miei stessi figli”. Personalmente, sono con la prima interpretazione, che è la più numerosa di esegeti, sebbene sia dura a spegnersi la tradizione sull’orripilante folle cannibalismo del vecchio conte. Il Lana era decisamente per la seconda ipotesi, e Borges sottolinea l’ambigua espressione di Dante. A dire il vero, il poeta non chiarisce affatto, sebbene, a un esame anche fisico, dati i tempi, l’avanzata età di Ugolino non faccia pensare a una dentatura capace di triturare le carni. C’è chi sostiene che fosse adentulo e quindi impossibilitato a mangiare un tessuto fibroso, muscoloso e duro come la carne, specie se, in certi casi, cruda. Insomma, la raccapricciante scena immaginata da molti: un padre e nonno che, cieco, viene sopraffatto dall’istinto più forte e primario di ogni essere (mangiare per non morire), secondo me viene inconsciamente collegata alla chiusa del canto XXXII, in cui Ugolino è descritto mentre si ciba crudelmente della parte più vitale del corpo dell’Arcivescovo Ruggieri (il quale non emette alcun lamento). Cosa che continua a fare, bestialmente (coi denti forti come quelli d’un cane), guardando bieco e con odio, il suo immobile nemico, rosicchiandogli avidamente e implacabilmente il teschio misero, appena terminato il tragico racconto. E Dante non fa nulla per chiarire la sua oscura, ambigua ancorché potentissima espressione di chiusa del discorso di Ugolino.

Seconda parte
Col verso 100 inizia una sorta di nuovo canto, di una bellezza disarmante per la capacità precipua dell’Alighieri di descrivere con pochi aggettivi, o con nessuno, situazioni, persone, paesaggi, cose etc., affidandosi alla rappresentazione della realtà con termini e sintagmi in cui siano contenuti gli aggettivi, e talvolta le tentazioni polisemiche.
I due pellegrini vanno oltre, alla terza zona, la Tolomea, in cui sono puniti i traditori degli ospiti. Già ho illustrato il modo della pena. Un dannato esprime il desiderio di venire liberato dalla visiera di cristallo che gli blocca le lacrime, ghiacciandogliele, nel “coppo” orbitale. Dante promette, e gli fa il solito prevedibile ricatto. Alberigo (dei Manfredi di Faenza), frate gaudente (abbiamo già spiegato il significato della parola precedentemente), guelfo, dopo aver litigato con i parenti Manfredo e Alberghetto dei Manfredi, simulò di voler fare pace con essi, invitandoli a un pranzo, mentre il suo proposito era quello di ammazzarli, Infatti, a fine banchetto, Alberigo ordinò ai servi di portare le frutta: una frase che resterà proverbiale (“le frutta di frate Alberigo), perché quella era la parola d’ordine per ucciderli. È il 2 maggio 1285. E Dante si meraviglia immensamente di vedere nel profondo Inferno il frate gaudente, mentre nel 1300, data del viaggio nell’oltretomba, egli è ancora vivo sulla Terra. La spiegazione l’abbiamo già data prima, che tali peccatori cadono -al momento esatto del crimine- giù nel ghiaccio mentre dentro il loro corpo si insedia un diavolo finché la legge di natura non toglie le funzioni vitali al peccatore già sistemato dalla Giustizia Divina. Anche altre belle lane quali Branca Doria e Michel Zanche seguono la stessa fine. Ed ecco, concluso il racconto, Alberigo spera che la promessa del pellegrino si avveri, mentre Dante impietosamente fa il contrario: “-Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi gli occhi-. E io non gliel’apersi;/ e cortesia fu lui esser villano” (v. 148-150): “Essere villano con lui fu cortesia da parte mia”, affonda nella crudeltà il poeta, giustificandosi però – stando all’economia morale della Commedia – facendoci capire che se fosse stato gentile con frate Alberigo avrebbe offeso Dio nella sua somma Giustizia.
Ora, siccome Branca Doria è genovese, ce n’è anche per i genovesi, i quali –scrive l’Alighieri- sono lontani da ogni etica, pieni di magagne, e dovrebbero essere estirpati dal mondo. È lo sfogo esasperato di un uomo che è stato accusato di tradimento dai suoi stessi concittadini (cosa c’entrava Dante con la baratteria? Eppure, tant’è: “falsarii et baracterii”, come il giudizio sommario di aver trafficato a che i Neri fossero cacciati da Pistoia. La prova? Eccola: “fama publica referente”).