Gabriele Ferro dirige Ravel

Rhapsodie espagnole, Boléro

Auditorium “RAI Arturo Toscanini di Torino”
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

Maurice Ravel
Rhapsodie espagnole
Boléro


 Concerto registrato l’11 marzo 2011
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

Rhapsodie espagnole
I. Prélude à la nuit. Très modéré
II. Malagueña. Assez vif
III. Habanera. Assez lent et d’un rythme las
IV. Feria. Assez animé


La sera del 15 marzo 1908 ai Concerts Colonne veniva eseguita per la prima volta la Rhapsodie espagnole.
Ravel vi aveva cominciato a lavorare all’inizio del 1907. L’attesa era tanta: dopo Chabrier, Lalo e Rimskij-Korsakov, il pubblico parigino vedeva con scetticismo un ulteriore lavoro sul colore locale della cultura spagnola. Ma il successo fu davvero entusiasmante. La recensione pubblicata da Amédé Boutarel sul «Ménestrel», all’indomani della prima esecuzione, racconta una composizione scintillante, fatta di colori abbaglianti, profumi acri, rumori di folla tra le polverose strade dei villaggi spagnoli.
Sembra che Ravel, di ritorno dalla Spagna, la testa piena di ritmi di rumori di nacchere, profumi respirati durante le belle notti andaluse, abbia cercato di esternare musicalmente tutta l’abbagliante poesia di cui si trovava impregnato. Sono ora dei languidi effluvi, ora delle risate gioiose, ora dei movimenti della folla, ora delle danze in cui tutte le risorse strumentali sono abilmente impiegate.
Non furono pochi a ricordare il linguaggio di Chabrier; il successo di España nel 1907 era ancora nelle orecchie di tutti, e Ravel diede subito l’impressione di allinearsi a quel filone di composizioni, che facevano della Spagna un caleidoscopio di immagini sonore in ebollizione. Ma gli ascoltatori più attenti rilevarono fin dalla prima esecuzione una ricerca musicale molto lontana dalle esperienze più modaiole di fine Ottocento; certo, il flamenco pizzicato sulle chitarre, il ritmo dell’habanera, il canto spiegato dei cantori di strada non mancano nella partitura di Ravel. Ma c’è qualcosa di misterioso e insondabile nella scrittura della Rhapsodie espagnole, che va ben al di là della semplice pittura folclorica. L’ossessiva cellula ritmica che percorre il Prélude à la nuit sembra scavare nel terreno della memoria inconsapevole: si ripete senza sosta, stimolando ricordi latenti, sepolti in una dimensione onirica. Malagueña allude alle fresche danze di Malaga, muovendosi con un piglio capriccioso, che si rifiuta di apparire prevedibile. E anche l’accento inconfondibilmente andaluso dei due brani conclusivi (Habanera e Feria) tende a liquefarsi in un percorso scivoloso; il lessico è quello della tradizione iberica, ma la sintassi si fa discontinua, forzando l’ascoltatore a completare con l’immaginazione ciò che la musica lascia semplicemente accennato.
 
Boléro
Tempo di bolero moderato assai
Nell’estate del 1928 Ravel aveva voglia di Spagna. La ballerina Ida Rubinstein si era fatta avanti con la richiesta di un balletto, basato su alcune pagine di Isaac Albéniz (tratte dalla raccolta pianistica Iberia): Ravel avrebbe dovuto orchestrare sei brani per un progetto coreografico in programma all’Opéra di Parigi.
Nella sua vita inoltre c’era un nuovo amico, un pianista e compositore cubano di nome Joaquín Nin, che, guarda caso, possedeva proprio una splendida casa sulla costa basca, a Saint-Jean-de Luz, la terra in cui Ravel sentiva da sempre di affondare le sue radici. Fu in quella località piena di villeggianti che i due musicisti finirono sul discorso di Albéniz, Ida Rubinstein e del balletto ispirato al variopinto mondo della cultura iberica. Joaquín Nin tuttavia si trovò costretto a mettere in guardia Ravel: l’orchestrazione di Iberia era già stata assegnata, con tanto di esclusiva, a Enrique Arbós. Ravel non ne sapeva nulla e rispose con un bel: «Me ne infischio, e poi chi sarebbe questo Arbós?». L’ignoto musicista era un allievo di Albéniz, uno che era stato talmente vicino al maestro da trasformarsi in una sorta di curatore testamentario; ed era stato lui a ricevere l’incarico ufficiale di orchestrare i brani pianistici di Iberia. Qualche giorno dopo una busta partiva da Saint-Jean-de-Luz in direzione della vedova Albéniz: una lettera di autorizzazione a procedere con il lavoro, nonostante gli impegni precedentemente presi con Arbós. Ma la risposta tardò ad arrivare, e qualche mese dopo Ravel aveva già cambiato i suoi progetti. Poco importava che nel frattempo il povero Arbós si fosse affrettato a lasciare il passo al più blasonato collega; Ravel ormai aveva già in testa una nuova idea, e la sua voglia di Spagna stava prendendo l’aspetto del Boléro: «Nessuna forma nel vero senso della parola, nessuno sviluppo, nessuna o quasi nessuna modulazione; un tema simile a quelli di Padilla (il volgarissimo autore di Valencia), ma solo ritmo e orchestra».
Accantonato il progetto di Iberia, Ravel avvertiva ancora il desiderio di sfidare il suo talento di orchestratore: una «tessitura orchestrale senza musica», stando alle parole dello stesso autore, che doveva ripetere insistentemente un paio di temi - molto simili -, sommando progressivamente tutte le voci dell’orchestra, fino a raggiungere un roboante effetto di insieme. «I temi sono del tutto impersonali», tenne a precisare Ravel, perché l’interesse della pagina risiede interamente nel timbro, una sorta di magma in continua evoluzione, da seguire con quello stordimento allucinogeno che può solo produrre un ritmo (quello di bolero appunto) ostinato e inarrestabile dalla prima all’ultima nota.
La prima esecuzione all’Opéra di Parigi, il 22 novembre del 1928, nella versione danzata da Ida Rubinstein, fu poco più che un successo di stima; ma fu in sala da concerto, e ancor più in sede discografica, che il Boléro seppe raccogliere un successo senza precedenti (ben 25 incisioni nel giro di soli dieci anni). La pagina trasforma l’orchestra in un palcoscenico vivente; l’organico è enorme, eppure ogni strumento si ritaglia lo spazio per un’esposizione solistica. Ma Ravel riesce soprattutto nell’impresa di incatenare l’ascoltatore a una partitura che non fa altro che iterare le stesse melodie (un tema e un contro-tema) per una ventina di volte; la musica, proprio come un orologio che non torna mai sullo stesso istante pur essendo mosso da un meccanismo ripetitivo, va avanti riutilizzando materiale già ascoltato. Ravel eleva così un monumento al principio retorico dell’unità nella varietà, dimostrando a tutti, anche agli ascoltatori più distratti, che grazie a un genio può sembrarci sconosciuto anche ciò che abbiamo appena finito di
conoscere.
ANDREA MALVANO

intervista a Gabriele Ferro