Nina Simone

Nina Simone

L'inferno è proprio accanto a me

Nina Simone
Considerava My babe just cares for me una delle sue canzoni più belle (il celebre video di Peter Lord con i gatti di plastilina e lo spot per Chanel n. 5 a consegnarla alla memoria mediatica dei più). La voce estatica e orgogliosa rimbalza come un ciottolo sui ciottoli. Voce piena di tristezza e gioia. Di luce e di spigoli. Nina piega le canzoni andando improvvisamente giù fino alla pancia o fuori tonalità perché la melodia da sola non riesce a reggere tutto il suo sentimento. Una sirena nella nebbia, la pioggia leggera su un lago vuoto, i camion che passano sull’autostrada a notte fonda. La sua voce vibra di una vibrazione ricca e profonda sotto la superficie incrinata. Come può una voce contenere qualcosa di così vecchio e così giovane?

Si chiamava Eunice Waymon (sangue africano, pellerossa e irlandese precipitato a forza nelle sue vene da secoli di colonizzazione e schiavitù); sua madre era un ministro metodista che viaggiava in varie congregazioni per officiare funzioni e predicare - donna durissima che usava la religione come regolo per tenere le distanze tra sé e il mondo. A quattro anni Eunice è già un fenomeno: suona a orecchio spiritual e gospel e qualunque melodia riesce a orecchiare. La madre la porta nei suoi viaggi, esegue l’inno d’apertura all’organo. I fedeli viaggiano anche più di cento chilometri per ascoltare “il piccolo prodigio”. Accadeva a Tryon, North Carolina, nel 1939. 

Qualcuno iniziava una canzone e io la raccoglievo e continuavo a suonare. A volte capitava che la persona che l’aveva iniziata cominciasse il processo di conversione, allora il mio compito era di continuare a ripetere quel ritmo, costruirci sopra, farlo continuare. A volte mi era difficile non scappare dalla tastiera e correre io stessa giù per la navata. 

All’età di sette anni comincia a studiare pianoforte classico. Muriel Massinovitch, la raffinata signora inglese sposata a un pittore russo presso cui la madre fa le pulizie, le impartisce le prime lezioni. Miz Mazzy - “la mia mamma bianca”, dirà di lei - crea un fondo a suo nome per garantirle l’iscrizione al conservatorio, in cambio Eunice si esibisce periodicamente presso l’auditorium cittadino.

Primavera 1943. Eunice ha appena festeggiato i dieci anni quando viene invitata ad esibirsi al municipio di Tryon di fronte a tutte le autorità. Dal palco, un attimo prima di esibirsi, vede i genitori costretti a cedere il loro posto in prima fila ad una coppia bianca. La bambina si alza e si rifiuta di suonare: i suoi genitori devono rimanere seduti ai loro posti. Risate nervose e imbarazzo percorrono la platea, ma il piccolo prodigio viene accontentato. “Affascinante la bambina - bisbigliano le signore tra il pubblico -, ma che sfacciataggine!”. Ecco tracciato il primo solco della diversità. 

Nina dice che il suo talento la isolava dalla famiglia: in cerca di un’approvazione che non arrivò mai, cominciò a volgere a sua madre severi occhi di critica. Lei, la “ragazzina nera” dell’insegnante di musica che va a lezione di piano, l’allieva perfetta che non si concede cedimenti, e poi la suonatrice d’organo nelle funzioni ecclesiastiche, correva costantemente appresso alle aspettative materne di trascendenza. Alla fine non c’era altro spazio che per l’isolamento. Una gabbia protettiva. Un compagno di giochi. Una specie di serra per impressioni e sentimenti. 

Non voleva essere paragonata a Billie Holiday, pensava fosse razzista. 

Se fossi stata bianca, nessuno avrebbe fatto questo paragone. E non mi piaceva essere inscatolata insieme ad altri artisti jazz perché il mio modo di essere musicista era del tutto diverso, e a modo suo superiore. Definirmi una cantante era un modo di ignorare il mio background musicale perché non rientravo nell’idea che avevano i bianchi di come avrebbe dovuto essere un artista nero. 

Intuizioni. Che trovano finalmente un contesto negli anni Sessanta, quando il movimento per i Diritti Civili dei Neri la coinvolge facendone emergere l’indignazione e l’energia. In un certo senso, nobilitandola. A New York, al Village, incontra tutti i protagonisti culturali del momento. 

C’era il jazz, con tipi come Coltrane, Art Pepper, George Adams e molti altri. E poi c’erano gli scrittori, i poeti e i pittori, persone importanti che sarebbero diventati miei amici. Langston Hughes, Jimmy Baldwin, Leroi Jones, Godfrey Cambridge, Dick Gregory...

Mississipi Goddam nasce di getto nel 1963, dopo aver saputo dell’attentato incendiario in una chiesa battista dell’Alabama che costa la vita a quattro bambine. Rare le apparizioni radiofoniche di questo brano scomodo, ma Nina Simone lo proporrà in tutte le sue esibizioni dal vivo. 

Dopo l’assassinio di Martin Luther King, scrive il sentito omaggio di Why (The king of love is dead?); suona concerti di beneficenza per organizzazioni studentesche, partecipa a marce e arringa discorsi sull’orgoglio nero tanto dai palchi delle sue esibizioni quanto dalle pagine dei giornali che le chiedono interviste. Si esibiva in qualità di donna nera. Prendeva alcune canzoni e le cantava in modo inequivocabile: diventavano ritratti della vita nera in America, ritratti della sua gente, interpretati per quel pubblico soltanto. 

Perché la mia gente ha bisogno di tutta l’ispirazione e l’amore possibili. 

Questo periodo molto politico della sua vita degenera in una specie di follia e finisce amaramente. Si narra che al festival jazz di Montreux nell’estate 1968 non riuscisse più a esibirsi. Seduta al piano l’unica cosa che riusciva a fare era piangere. Gli omicidi di Medgar Evers, Martin Luther King, Malcolm X e Bobby Kennedy le pesano addosso come una cappa di disperazione. Era sfinita e delusa. Il matrimonio con Andy Stroud, l’ex poliziotto assurto al ruolo di suo manager, attraversava una crisi profonda, è affetta da attacchi di ciclotimia.

Soffre anche le gabbie musicali dei contemporanei. Nina Simone viene accusata di eccessivo eclettismo dai puristi del jazz, senza tuttavia risultare sufficientemente facile per i gusti della massa. Lei continua imperterrita e disinvolta negli anni. Gershwin e Dylan, standard blues e Bee Gees: si appropria profondamente di qualsiasi brano interpreti. Le scelte veloci, intuitive, ineleganti. 

Nel 1972 muore il padre, John Divine, l’unica figura di divertimento e tenerezza della sua infanzia. Tre anni prima avevano litigato furiosamente e lei aveva giurato di non parlargli mai più. Non andò al suo funerale, certa che in fondo lui avrebbe capito. Andò a Washington in aereo invece e, vestita di nero, cantò una canzone per lui composta durante il tragitto, Baltimore. 

Si allontana dal giro musicale e comincia anni di esilio. Per un po’ trova rifugio alle Barbados; poi, su consiglio dell’amica Miriam Makeba, fugge nella “Mother Africa” Liberia. Due anni dopo è in Svizzera, allo scopo ufficiale di garantire alla figlia Lisa un’educazione adeguata. 

Il tentativo di rimettersi in pista si rivela drammatico: Winfred Gibson, un uomo d’affari liberiano cui aveva affidato il ruolo di manager artistico e finanziario, la deruba, la picchia e la abbandona esanime in un albergo di Londra. Il conseguente tentativo di suicidio è il fondo da cui riesce a riemergere. Parte per una serie di tournée in Europa. E’ in Inghilterra, Olanda e infine in Francia, che diventa il suo paese d’adozione.

L’ultimo periodo lo trascorre nella sua casa A Carry-sur-le-Rouet, vicino Marsiglia. Quando muore, il 21 aprile del 2003, ha settant’anni e un culto tenace intorno a lei. 

Non abbiamo altro scopo che riflettere il nostro tempo, le situazioni intorno a noi e le cose che sappiamo dire con la nostra arte, le cose che milioni di persone non sanno dire. Penso che questa sia la funzione dell’artista. Chi di noi è così fortunato, lascia un’eredità che sopravvivrà quando non ci saremo più.