L'Ouverture da "Le nozze di Figaro", il Concerto n. 5 in la maggiore per violino e orchestra di Mozart e la Sinfonia n. 4 di Beethoven

L'Ouverture da "Le nozze di Figaro", il Concerto n. 5 in la maggiore per violino e orchestra di Mozart e la Sinfonia n. 4 di Beethoven

11 e 12 aprile Auditorium Rai - dalle note di sala di Daniele Spini

L'Ouverture da "Le nozze di Figaro", il Concerto n. 5 in la maggiore per violino e orchestra di Mozart e la Sinfonia n. 4 di Beethoven
 

Wolfgang Amadeus Mozart
Le Nozze di Figaro. Ouverture

La Folle Journée, ou le Mariage de Figaro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais fu rappresentata per la prima volta il 27 aprile 1784 a Parigi. Era la seconda tessera di una trilogia di commedie aperta con Le Barbier de Séville ou la Précaution inutile (Il barbiere di Siviglia, o La precauzione inutile), e destinata a completarsi con L'Autre Tartuffe ou la Mère coupable (L’altro Tartufo, o La madre colpevole). E aveva dovuto aspettare un bel po’ prima di andare in scena, per il veto opposto da Luigi XVI, indispettito dai conflitti sociali sui quali era costruita la trama, ben più evidenti che non nel precedente e fortunatissimo Barbiere di Siviglia: un personaggio plebeo come Figaro, da barbiere promosso a domestico del Conte di Almaviva, vi compariva a tutti gli effetti sotto una luce troppo migliore del suo aristocratico padrone, in una dialettica fra privilegio e natura che nel nome della ragione vedeva prevalere quest’ultima e si estendeva anche ai personaggi di contorno.
L’anno successivo il testo, proibito anche a Vienna dall’imperatore Giuseppe II, capitò nelle mani di Wolfgang Amadeus Mozart. Si stava aprendo la collaborazione con un nuovo librettista, Lorenzo Da Ponte, da poco nominato “poeta di corte” dopo la morte di Pietro Metastasio, e Mozart propose di ricavarne un’opera. Il divieto imperiale fu aggirato con la garanzia – per la verità onorata solo in parte – che dal libretto scomparisse ogni allusione politicamente e moralmente pericolosa, ma anche con l’audizione di alcuni dei pezzi già musicati da Mozart
Composte fra l’autunno del 1785 e la primavera successiva, Le nozze di Figaro, ossia La folle giornata andarono in scena il 29 aprile 1786 al Burgtheater (Teatro di corte) di Vienna. Il giorno precedente, con tutta probabilità, Mozart aveva scritto l’”Ouverture”, come ci ha abituato a chiamarla la gran diffusione e fortuna nei paesi di lunga tedesca, inglese o francese delle Nozze, o meglio, la “Sinfonia”, come la identifica correttamente il manoscritto, visto che si tratta di un’opera italiana. Dovendo aprire un’opera buffa, questa pagina straordinaria scorre all’insegna della brillantezza, in un vortice inarrestabile di suoni che in pochi minuti anticipa e afferma prepotentemente il senso di inevitabilità con il quale la “folle giornata” precipita verso il suo epilogo. Molto significativo anche l’impianto formale: rinunciando alla introduzione lenta tradizionale, Mozart attacca direttamente il “Presto” in pianissimo, spalmandone lo svolgimento su una strumentazione ora prodigiosamente lieve ora esplosivamente estroversa. Senza utilizzare motivi presenti nell’opera, la Sinfonia ne riassume però il significato drammaturgico con una sicurezza senza confronti.

Wolfgang Amadeus Mozart 
Concerto n. 5 in la maggiore per violino e orchestra, K 219

I concerti per violino e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart sono cinque, tutti composti nel 1775, due anni dopo il cosiddetto Concertone K 190 per due violini. A diciannove anni, conclusa nel 1773 l’epoca dei grandi viaggi, Mozart sembrava avviato verso una professionalità solida e tranquilla sulle orme di suo padre Leopold, alla corte dell’Arcivescovo di Salisburgo: nel 1777 nuovi viaggi avrebbero posto le premesse per una rottura traumatica e una svolta determinante nella sua storia. Al centro di questi quattro anni appunto il 1775: che proprio nella successione dei cinque concerti per violino ci mostra i passi compiuti da Mozart verso la maturità. C’è infatti un bel salto, fra i primi due concerti (K 207 e K 211), scritti in primavera, e certo pregevoli, e gli altri tre, K 216, K 218 e K 219, composti in autunno, e rimasti stabilmente in repertorio.
Il controllo della forma, l’equilibrio fra espansione virtuosistica e solidità di concezione e fra brillantezza ed espressività, l’individuazione anche tecnica delle possibilità del violino, la ricchezza della scrittura orchestrale propongono Terzo, Quarto e Quinto concerto come i contributi più completi e autorevoli in questo genere prodotti dallo stile classico: frutto delle ripetute e approfondite esperienze di Mozart a contatto con la scuola violini¬stica italiana di allora, arricchite dal linguaggio estroso e brillante dell'opera buffa, e ponte di cruciale importanza fra i modelli barocchi di Antonio Vivaldi e Johann Sebastian Bach e la concezione più spettacolare che poi sarebbe stata espressa da Giovambattista Viotti, Ludwig van Beethoven e, su tutt’altro pianeta violinistico, da Nicolò Paganini
In seguito Mozart non avrebbe continuato questa esperienza: i successivi concerti K 271a e K 268 denunciano larghi interventi altrui, e sono infatti esclu¬¬si dall'edizione critica degli opera omnia; più avanti sarebbe nato un capolavoro come la Sinfonia concertante K 364 per violino e viola scritta nel 1779, quando molte cose erano cambiate in lui e per lui.
La vicinanza nel tempo e nei numeri di catalogo non impedisce ai tre concerti di differenziarsi decisamente l’uno dall’altro, specialmente per l’inserzione di episodi fortemente caratterizzati nel Rondò finale: nel Terzo una sezione in minore seguita da una canzone popolare, nel Quarto l’eco stilizzata di danze popolari, uno dei bozzetti “alla turca” allora di moda nel Quinto, l'ultimo, il più ampio e oggi il più popolare. Leggero e originalissimo, il Concerto in la maggiore esibisce una ric¬chez¬za di idee e uno humour imprevedibili fin dai ritmi di marcia del primo movimento, dai quali il violino sembra pren¬dere le distanze nella sua prima comparsa solistica, in tempo Adagio, per poi lanciarsi nel succedersi di trovate sempre nuove di un imperioso Allegro vivo. Ancora ricchissima, ma sempre tersa ed espressiva, l'ornamentazione quasi vocalisti¬ca della melodia nell'Adagio centrale: ma una vera miniera di sorprese è il Rondò finale, che verso la fine interrompe im¬provvisamente il suo incedere arguto in tempo di minuetto per slanciarsi in un indiavolato intermezzo “alla turca”, e va a chiudere quasi di soppiatto con un gesto di eleganza e delicatezza suprema.

Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore, op. 60

Con l’Eroica, portata a temine nel 1804, Ludwig van Beethoven aveva fatto drasticamente voltar pagina alla storia della sinfonia. Dimensioni, stile, mondo sonoro, significato stesso del gesto creativo erano riusciti inediti e rivoluzionari: a buon diritto oggi consideriamo la Terza sinfonia come uno dei primi pilastri del suo “periodo di mezzo”, quello segnato dalle composizioni più sperimentali ma anche più imponenti. Quasi sull’abbrivo di quella esperienza, subito dopo Beethoven aveva avviato un nuovo grande sforzo sinfonico, più o meno nella stessa direzione; imponendosi però una concentrazione estrema, speculare alla dilatazione dell’Eroica.  Ma presto si fermò: la sinfonia ancor più drammatica e moderna che avrebbe potuto prendere il quarto posto fra le sue sarebbe stata completata come Quinta soltanto nel 1808. Quando tornò a scrivere sinfonie si orientò ben diversamente, quasi per ritrovare serenità e distensione, e creò una partitura in molte cose antitetica ai due capolavori che la successione cronologica le assegna come temibili vicini: la Sinfonia in si bemolle maggiore op. 60, composta nell'estate del 1806 a Martonvásár ed eseguita nel marzo 1807 nel palazzo del principe Lobkowitz a Vienna.

"Una snella fanciulla greca fra due giganti nordici", nella visione di Robert Schumann. Tre parole per sintetizzare l'eleganza delle linee, la freschezza dell'invenzione tematica e ritmica, l'agilità della struttura; fanciulla snella, in confronto ai giganti Terza e Quinta, ma soprattutto "greca", classicamente composta, rispetto a quanto di tedesco si potesse identificare nelle altre. Certo la Quarta ha muscoli non meno vigorosi di altre sinfonie di Beethoven, come la Prima o l'Ottava.  Ma confrontata con il resto della sua produzione di quel periodo comunica l'immagine imprevedibile di un Beethoven tranquillamente tornato agli schemi classici.
Il primo movimento ha l’introduzione lenta cara al tardo Settecento, e della quale la Terza pareva aver fatto giustizia una volta per tutte, e segue le regole abituali della forma-sonata. Così tutta la partitura ha dimensioni ben più contenute rispetto all'Eroica, e sembra tornare all'ordine anche nel controllo del potenziale sonoro
Rinuncia allo sperimentalismo, non all'originalità o alla profondità dell'impegno; in queste strutture leggere e scorrevoli Beethoven esprime scienza e invenzione con speciale sottigliezza. Nel primo tempo un materiale tematico molto ricco cerca una sua definizione già nell'introduzione lenta, per distribuirsi fra i due temi principali dopo l’avvio veloce dell'Allegro; nello sviluppo esplode l'invenzione timbrica, con il timpano spesso in primo piano, e determinante nell'accumulo di tensione che precede lo scatto irresistibile della ripresa. Ma la grande scoperta della Quarta resta l'Adagio. Che a Hector Berlioz parve “essere stato sospirato dall'Arcangelo Gabriele il giorno in cui, colto da malinconia, contemplava i mondi dalla soglia dell'Empireo".
Se non dall'Arcangelo, certo l'Adagio è stato creato da un Beethoven insolitamente lieve di mano nell'effusione melodica, resa vieppiù pudica dalla presenza persistente del filo ritmico che fin dal principio le si accompagna stabilendone l'andamento con il suo ostinato ripetersi di una formula puntata, per poi salire in primo piano quasi sommandosi ai due temi sui quali si regge il pezzo
Rapido e significativo intermezzo di riflessione lirica, prima che gaiezza ed evocazione ammiccante del passato riprendano il sopravvento con la genialità ritmica del terzo tempo (né antico minuetto, né scherzo moderno, in realtà), intervallato nel Trio dalle sonorità quasi naturalistiche dei legni (grandi protagonisti dell'immagine sonora della Quarta, quasi saggiando gli impasti morbidi ma scintillanti della futura Pastorale), e con il turbinare virtuosistico del Finale, dove le architetture della forma-sonata accolgono un materiale ricchissimo di proposte anche sul piano del colore strumentale.