Ottorino Respighi e Gustav Mahler: le note di sala di Daniele Spini

Ottorino Respighi e Gustav Mahler: le note di sala di Daniele Spini

Venerdì 31 maggio ore 20 e sabato 1° giugno ore 20.30 - Auditorium Rai di Torino, Harding e Zimmermann

Ottorino Respighi e Gustav Mahler: le note di sala di Daniele Spini
Ottorino Respighi
Concerto gregoriano per violino e orchestra, P 135 (1921)
 
Uno dei connotati più tipici del primo Novecento musicale italiano fu il ritorno alla modalità: intesa genericamente come costruzione prevalentemente orizzontale e melodica, sottratta alle leggi logiche del linguaggio tonale e alla concezione verticale dell’armonia che avevano dominato la cultura europea dal tardo Rinascimento in poi.
Una via d’uscita dal sistema tonale più dolce e tranquilla di quella che in area germanica, e dovunque agisse significativamente l’influsso di Richard Wagner, esasperava l’introduzione di suoni estranei all’armonia fino a far saltare in aria le regole stesse della tonalità e liberare la dissonanza
Al contrario, la scelta di modi antichi in luogo di scale maggiori e minori magari complicate da alterazioni smussava gli spigoli in un fluire non più soggetto agli appuntamenti obbligati della tonalità, quindi in qualche modo svincolato dal tempo, e da quella necessità di concludere comunque che aveva guidato la musica occidentale per tre secoli. Per un’Italia post-unitaria e desiderosa di cittadinanza europea evocare la monodia liturgica del Medioevo - generalmente e un po’ imprecisamente identificata come “canto gregoriano”, dal nome del papa Gregorio I che in realtà su queste vicende aveva influito ben poco - implicava un recupero di radici autoctone non immediatamente legate al melodramma, dunque utili ad alimentare una rinascita strumentale e sinfonica ormai vigorosa, con tutto che la strada l’avesse aperta Giuseppe Verdi, con le allusioni gregoriane abbastanza esplicite nelle sue composizioni sacre. All’equazione canto gregoriano = identità storica italiana, un po’ impropria visto che quella tradizione aveva un’origine soprattutto francese, Respighi si ispirò non meno di contemporanei e compagni di strada come Ildebrando Pizzetti o Gian Francesco Malipiero, in linea con un culto del Medioevo e del primo Rinascimento allora alimentato anche da Gabriele d’Annunzio - o da Sem Benelli - ed esteso un po’ a tutte le espressioni artistiche italiane.

Nato in tempi rapidi nell’agosto 1921 e dedicato ad Arrigo Serato, il Concerto gregoriano fu però tenuto a battesimo da un altro violinista, Mario Corti, il 4 febbraio 1922 all’Augusteo. Dirigeva Bernardino Molinari, che aveva costruito un programma tutto italiano, e prevalentemente contemporaneo: la presenza al principio e alla fine di sinfonie d’opera di Donizetti e Rossini non bastò a tener quieto il pubblico romano, che fischiò sonoramente. Nonostante Respighi si fosse già conquistato una bella fama con le Fontane di Roma il Concerto non ebbe sorte migliore dei pezzi di Vincenzo Tommasini (le peraltro deliziose Donne di buon umore, da Domenico Scarlatti), Vincenzo Davico (un giovane di formazione torinese) e Francesco Mantica. Abbastanza presto cominciò a riscuotere miglior fortuna, superando da ultimo anche il bizzarro e un po’ autolesionistico ostracismo imposto alla musica di Respighi da fette fin troppo larghe dell’establishment musicale italiano nel secondo dopoguerra.
Suddiviso nei tre tempi tradizionali, impegna il violino solista sul piano dell’espressione non meno che su quello del virtuosismo: un protagonismo deciso che però non mette certo in ombra un’orchestra manovrata da Respighi con tutta la sua abilità leggendaria di strumentatore, in una girandola inesauribile di colori e di gesti sonori. Modalità ed echi di canto popolare convivono felicemente in un fiume di cantabilità che anche grazie alla sintassi fluida consentita dall’opzione modaleggiante sembra non doversi mai arrestare: un’invenzione melodica doviziosa, ben presente già in un primo movimento meno animato del solito - l’indicazione è addirittura Andante tranquillo - e prevedibilmente dominante nel tempo centrale, continua ad avvolgere anche le zone più brillanti di un finale significativamente sottotitolato Alleluja,richiamando l’espressione di giubilo nel quale la melodia gregoriana trovava la massima espansione canora

Gustav Mahler
Sinfonia n. 1 in re maggiore (1884-1906)
Titano

A Gustav Mahler la Prima sinfonia costò dodici anni di cambiamenti d’intenzione, incertezze, ripensamenti, modifiche di struttura, interventi più o meno profondi; e non certo perché fosse un compositore alle prime armi. Cominciò a lavorarci nel 1884, a ventiquattro anni ma con alle spalle altri quattro tentativi sinfonici e molta altra musica, compreso Das klagende Lied per soli coro e grande orchestra, terminato già nel 1880. E il cantiere della Prima si sarebbe poi trovato a convivere o alternarsi con altre imprese significative, arricchendo via via la sua esperienza. Nel 1888 pensò di aver finito: cinque tempi - come nella Fantastica di Hector Berlioz, capostipite della sinfonia “a programma” - raggruppati in due parti, e un organico abbastanza contenuto. “È tutto molto bello e grande”, commentò soddisfatto. La eseguì per la prima volta il 20 novembre 1889 a Budapest, presentandola come Poema sinfonico in due parti, e prendendosi un bel po’ di fischi. Ci riprovò nel 1893 ad Amburgo con un nuovo titolo, Titan - Un poema sinfonico in forma di sinfonia, e un programma dettagliato: 

“Prima parte: Dai giorni della giovinezza. 1) Primavera infinita (Introduzione e allegro comodo). L’introduzione descrive il risveglio della natura dal lungo sonno invernale. 2) Blumine (Andante). 3) A gonfie vele (Scherzo). Seconda parte: Comoedia humana. 4) Marcia funebre alla maniera di Callot. Lo stimolo esterno è giunto all’autore dal quadro parodistico noto a ogni bambino austriaco intitolato l funerali del cacciatore, tratto da un vecchio libro di racconti di fate. Le bestie della foresta accompagnano la bara del guardaboschi. In testa al corteo alcune lepri che recano un piccolo drappo, poi un gruppo di musicanti boemi: accompagnano in coro gatti, rospi, corvi ecc. poi cervi, caprioli, volpi e altri quadrupedi e creature pennute della foresta in atteggiamento comico. Il pezzo è concepito ora come espressione di un sentimento allegramente ironico, ora come presentimento funesto. A questo episodio segue immediatamente 5) Dall’Inferno (Allegro furioso). Improvvisa esplosione di un cuore ferito nel vivo”. 

Le allusioni erano raffinate: Il titano, “romanzo di formazione” pubblicato da Jean-Paul (Johann Paul Richter) nel 1803, e a Jean-Paul allude anche il titolo di Blumine (fioritura); i Pezzi fantastici alla maniera di Callot di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, evocativi dei Capricci popolareschi realizzati nel 1617 da Jacques Callot, re degli incisori francesi; e la xilografia celeberrima di Moritz von Schwind, protagonista del Romanticismo pittorico austriaco, in gioventù amico (e forse qualcosa di più) di Franz Schubert. Ma non bastarono a salvare la Prima da un nuovo fiasco. Poi Mahler la diresse a Weimar nel 1894, con titoli e programma quasi invariati:
La mia sinfonia è stata ricevuta con un misto di furibonda disapprovazione e di applausi sfrenati - riferì. È divertente sentire il contrasto di opinioni per strada e nei salotti. Bene, quando i cani abbaiano, è segno che siamo in sella!
Di nuovo fischi a Berlino, nel 1896: ma adesso la Prima, aveva il suo assetto definitivo, anche per l’orchestrazione, sensibilmente ampliata, e si chiamava semplicemente Sinfonia in re maggiore per grande orchestra, senza titoli programmatici e con i movimenti ridotti ai quattro tradizionali scartando Blumine. Giusto qualche ulteriore ritocco ci fu nell’edizione definitiva del 1906. 

Da una adesione abbastanza decisa alla musica a programma Mahler si era spostato verso un atteggiamento più prudente. Le intenzioni extramusicali caratterizzano ancora la Prima come autobiografia ideale, ma non sono più imposte all’ascoltatore, anche se la musica, così intrisa di reminiscenze, citazioni e autocitazioni, parodie, esaltazioni, disgregamenti catastrofici e soprattutto evocazioni naturalistiche, sembra continuamente voler “dire” qualcosa. Compito che Mahler avrebbe affidato alla parola e alla voce umana nelle tre sinfonie successive, idealmente riunite in un cosiddetto “ciclo del Wunderhorn” per il riferimento alla celebre raccolta di poesie popolari curata da Achim von Arnim e Clemens Brentano Il corno magico del fanciullo
A questa autentica Bibbia di una visione romantica che identifica l’infanzia anagrafica con un popolo letto come infanzia della storia, Mahler del resto si era tenuto ben vicino nel 1884 quando si era scritto da sé i versi dei Lieder eines fahrenden Gesellen (Canzoni di un tale in viaggio), dai quali in certo senso sembra essere scaturita la Prima: che si collega così alle sorelle “Wunderhorn” per aprire la storia delle sinfonie di Mahler con un capitolo ottocentesco campagnolo e naturalistico, ancora lucente e aurorale, intriso di utopie romantiche; ben diverso dalla terna solo strumentale delle successive Quinta, Sesta e Settima, orientata verso l’orrore metropolitano di un Novecento drammatico e conflittuale
Nel primo tempo una forma-sonata abbastanza libera è dilatata per fare spazio a episodi descrittivi. Comincia con un’introduzione in tempo lento, brulicante di “suoni di natura” (Naturlaute) fascinosi ed echi di fanfare lontane: prima fra le tante intrusioni di reperti sonori della vita e del mondo e delle proiezioni in spazi lontani aggiunte da Mahler in un contesto che la storia di un genere nobile come la sinfonia avrebbe voluto astratto e beneducato. Da questa amabile suspense prende forma poco a poco elaborando un elemento minimo, l’intervallo di quarta discendente la-mi, che spunta come richiamo di un cucù o di qualche altro uccellino all’alba, il primo tema principale. Mahler lo riprende dal secondo dei Lieder eines fahrenden Gesellen, Ging heut’ morgen übers Feld (Me ne andavo stamattina sui prati), che parla del risveglio della natura al mattino, con il canto degli uccellini e le voci misteriose dei fiori: linee descrittive gioiose, e un’esaltazione panica della natura temperata da un’ingenuità quasi infantile.
Carattere agreste, ma con connotati diversi, anche nel secondo tempo: impulso vitalistico e andamento di danza popolare (metro e ritmo sono quelli del Ländler autriaco, antenato contadino del valzer) inaugurano un modulo espressivo frequentissimo anche nelle sinfonie successive di Mahler
La proiezione fantastica del terzo parte dallo stravolgimento in minore del canone Bruder Martin (il nostro Fra’ Martino campanaro), familiare ai bimbi austriaci e tedeschi di allora non meno della xilografia di Schwind, avviato da un contrabbasso solo: vi si alterna un’altra invasione di suoni di vita, stavolta quasi triviale, con fantasmi di musiche bandistiche e da circo. Poi esplode l’introduzione scenografica del finale, un’apocalisse sonora che diventerà un’altra abitudine di Mahler: ne nasce una marcia incalzante, ora tragica ora grottesca, in contrasto con un secondo gruppo di temi più cantabili e distesi. Dallo sviluppo centrale, che riprende elementi del primo tempo, si procede verso una conclusione tutta in positivo, resa ancor più trionfale da una perorazione eccezionalmente gonfia di ottoni.

- Daniele Spini