"Da Napoli a Buenos Aires" - Rai Orchestra POPS: le note di sala di Daniele Spini

"Da Napoli a Buenos Aires" - Rai Orchestra POPS: le note di sala di Daniele Spini

Venerdì 14 giugno ore 20.30 anche in streaming - Auditorium Rai di Torino, Andrés Orozco-Estrada

"Da Napoli a Buenos Aires" - Rai Orchestra POPS: le note di sala di Daniele Spini
Rai Orchestra POPS - il 14 giugno alle 20.30 all'Auditorium Rai "Arturo Toscanini" di Torino

Da Napoli a Buenos Aires


Igor Stravinskij 
Pulcinella, suite da concerto 
Pulcinella ha rappresentato per me la scoperta del passato, l’epifania che ha reso possibile tutta la mia opera successiva. Fu uno sguardo all’indietro, naturalmente, la prima di molte storie d’amore in quella direzione: ma è stato anche un guardarmi allo specchio
Così tanti anni più tardi Igor Stravinskij rievocava il capolavoro con il quale si era aperta per lui, ma anche per tutta la musica occidentale, la vicenda stilistica che era presto stata identificata come “Neoclassicismo”. La musica per la musica, esasperando una reazione antiromantica che portava in primo piano l’atto creativo in sé, senza condizionarlo alle necessità dell’espressione, anzi addirittura negando alla musica, come affermò Stravinskij stesso, la possibilità di esprimere qualcosa. E la musica “sulla” musica, fatta assimilando e rielaborando composizioni già esistenti, o anche semplicemente imitando stili del passato, quasi come distruzione del mito pure romantico di una creazione individuale, eroica.
Ironia, virgolette, ritmi meccanici, un impiego della dissonanza più estraniante che non drammatico, certo non tale da negare le leggi storiche della tonalità in una prosecuzione estremizzata delle avventure che Richard Wagner aveva fatto vivere all’armonia da metà Ottocento in poi
Per qualche decennio nella musica occidentale si sarebbero contrapposti il Neoclassicismo, incarnato in Stravinskij, e l’Espressionismo, con in testa Arnold Schönberg e la Seconda scuola di Vienna. Una divisione di campi nella quale non si sarebbe certo esaurita tutta l’esperienza del Novecento, ricca comunque di “terze vie”; ma che lì per lì sembrava imporre la scelta fra un linguaggio più tradizionale un altro più ardito, atonale prima e dodecafonico poi, collocando quindi il Neoclassicismo “a destra”, ma anche fra una poetica più disincantata e un’altra paradossalmente ancora legata a un Romanticismo dal quale derivava, e che era dunque tanto meno moderna dell’altra.

A far nascere Pulcinella era stato nel 1919 Sergej Djagilev, l’impresario dei Ballets russes, che aveva già avuto l’idea di appoggiare i suoi spettacoli all’orchestrazione di musiche nate per altre destinazioni esecutive. Aveva cominciato nel 1916, con le sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti rielaborate da Vincenzo Tommasini per Le donne di buon umore, rappresentate per la prima volta al Costanzi, futuro Teatro dell’Opera di Roma, il 12 aprile 1917. Il successo di questo piccolo capolavoro spinse Djagilev a ripetere il colpo, rimanendo sempre in area italiana, con La boutique fantasque di Ottorino Respighi tratta da su alcune pagine da camera scritte da Gioachino Rossini dopo il ritiro dal mondo dell’opera - i cosiddetti Peccati di vecchiaia - e varata a Londra il 5 giugno 1919. Subito dopo, sempre della ricerca di un Italia, o di una certa idea del nostro paese, come poteva essere visto da occhi europei, da tradurre in termini di danza su una componente musicale storicizzata, Djagilev ricorse a Stravinskij, che con i grandi balletti degli anni Dieci, Uccello di fuoco, Petruška e Sagra della primavera, ispirati ripettivamente a una Russia fiabesca, poi popolare, poi ancora arcaica, aveva più di ogni altro legato la sua fama ai Ballets Russes, a sua volta conferendo loro una gloria inossidabile.
Djagilev si rivolse a due dei grandi miti i quali si affidava l’immagine dell’Italia, la commedia dell’arte e l’opera napoletana. In un tempo che almeno nel mondo dello spettacolo si affidava ancora più al sentito dire che non alla ricerca storica, Napoli e il suo teatro erano incarnati un po’ sbrigativamente in Giovanni Battista Pergolesi, il genio morto poco più che ragazzo ma in tempo per fare la storia
E se Pergolesi, del quale poco si conosceva e sul quale quasi niente si sapeva, era riuscito a portare a termine un numero assai ristretto di capolavori, qualcuno dei quali, fra l’altro, andato perduto, era sembrato facile e naturale attribuirgli diversa musica scritta da altri più o meno in quello stesso periodo e in quella stessa cultura, certi che sotto il suo nome anche quella sarebbe stata apprezzata e ammirata. 
Djgilev aveva in mano le copie di diversi manoscritti, trovati nella biblioteca del Conservatorio di Napoli e di altri conservati nel British Museum di Londra, e che credeva in buona fede contenere musiche di Pergolesi. Le passò a Stravinskij perché le orchestrasse e le combinasse in un balletto, su un soggetto che fu via via costruito dal coreografo, Leonide Massine, in collaborazione con gli stessi Djagilev e Stravinskij, ricavandolo da scenari napoletani sulla figura di Pulcinella. Oggi sappiamo bene che una buona metà di quei manoscritti conteneva pezzi di altri: soprattutto le Sonate a tre di Domenico Gallo, un compositore veneziano nato intorno al 1730, dunque molto più giovane di Pergolesi, che era del 1710, e altre attribuibili al milanese Carlo Ignazio Monza; una, la Tarantella, era di un diplomatico olandese dilettante di musica, il conte Unico Wilhelm van Wassenaer; un’altra ancora era addirittura frutto di un falso geniale, il famoso Se tu m’ami, che alla fine dell’Ottocento il musicologo e compositore Domenico Parisotti si era divertito a inserire nella sua raccolta di Arie antiche, per decenni croce e delizia degli studenti dei conservatori italiani. Sul momento Stravinskij fu tutt’altro che entusiasta dell’idea di Djagilev (“pensai che fosse diventato matto”), ma presto si convinse e lavorò con gran piacere su quei testi musicali, facendosene affascinare indifferentemente da chi ne fosse l’autore.

Il suo intervento fu apparentemente superficiale: lasciando sostanzialmente inalterate le linee melodiche, tutt’al più a volte tagliate e montate diversamente rispetto agli originali, ne modificò però con arguzia e originalità il contesto armonico, sottolineandolo con una veste strumentale asciutta e paradossale, affidata ai colori di un’orchestra ridotta ai minimi termini - il contrario del gigantismo sonoro che in uno ieri antecedente alla Grande guerra era esploso nella Sagra della primavera - e chiamata ad accompagnare le voci di un tenore, un soprano e un basso impegnate in arie tratte da Lo frate ‘nnamorato, Il Flaminio e Adriano in Siria oltre che in Se tu m’ami. Fra i tanti paradossi che fanno di Pulcinella una svolta storica oltre che un capolavoro assoluto c’è appunto il fatto che anche se limitato ad armonia orchestrazione e montaggio l’apporto di Stravinskij rimane personalissimo e determinante, sovrapponendo totalmente la sua firma a quelle di Pergolesi, Gallo e altri: dichiarando una volta per tutte che l’identità di un pezzo di musica può non discendere dalle idee melodiche che lo guidano, ma risultare anche - addirittura soprattutto - da altri parametri, e dall’inserimento in un quadro generale.
Il gioco dei ritmi e dei timbri orchestrali, così come le gocce d’acido delle armonie, suggeriscono anche al semplice ascolto, al di fuori della dimensione visiva, una commedia recitata da maschere - a sua volta il compositore moderno calza la maschera di suoi predecessori lontani - anziché vissuta da esseri umani, in un prodotto artistico che forse più di ogni altro prodotto di quel tempo dichiara una volta per tutte concluso e ormai lontano l’Ottocento, e aperto a ogni effetto un secolo disincantato, nel quale la comicità può essere a sua volta maschera ed esorcizzazione di drammi troppo grandi per essere esposti con ingenuità e sincerità.
Pulcinella, balletto con canto, fu rappresentato per la prima volta all’Opéra di Parigi il 15 maggio 1920, diretto da Ernest Ansermet, arricchito dalle scenografie di Pablo Picasso, e con lo stesso Massine nel ruolo del protagonista, affiancato dagli altri grandi nomi che illustravano la compagnia di Djagilev, da Enrico Cecchetti a Tamara Karsavina. Il 22 dicembre 1922 a Boston Pierre Monteux diresse la prima assoluta della suite da concerto che Stravinskij ne aveva ricavato, sostituendo le voci con gli strumenti dell’orchestra e riducendo la partitura di circa la metà, con la rinuncia, del tutto inconsapevole. alla maggior parte dei pezzi autentici di Pergolesi.
L’Ouverture del balletto, ricavata dalla Sonata n. 1 di Gallo, e ribattezzata Sinfonia è seguita dalla Serenata (la pastorale “Mentre l'erbetta pasce l'agnella”, da Il Flaminio), affidata al violino solo invece che al tenore
Lo Scherzino corrisponde ai numeri 3, 4 e 5 del balletto, e utilizza movimenti di altre due Sonate di Gallo. Dopo la Tarantella (n. 12, dal Concerto armonico n. 2 di Wassenaer), si attacca direttamente la Toccata (n. 14, da una Suite per clavicembalo forse di Monza). L’ultima parte del balletto è ripresa tale e quale: la Gavotta (con due variazioni) (n. 15, ancora da Monza); un Vivo (n 16. da una Sinfonia per violoncello e basso continuo di autore ignoto); il Minuetto (n. 17, il terzetto “Pupillette, fiammette d'amore” da Lo frate 'nnamorato, con le voci di soprano, tenore e basso sostituite da corno tromba e trombone, protagonista di interventi solistici rimasti leggendari); il Finale (n. 18) sigla una fortuna moderna che Domenico Gallo non avrebbe mai potuto neanche immaginare. Ma che forse non va oltre una registrazione burocratica di paternità, poiché qui come nel resto di Pulcinella, o nelle due Suites italiennes, rispettivamente per violoncello e pianoforte e violino e pianoforte ricavate in seguito, la firma resta una sola, originale e inconfondibile, ed è quella di Igor Stravinskij.


Alberto Ginastera
Variazioni concertanti op. 23 per orchestra da camera

La storia artistica di Alberto Ginastera si è articolata in tre fasi abbastanza diverse fra loro, da lui stesso etichettate come periodi del “nazionalismo oggettivo”, del “nazionalismo soggettivo”, e finalmente del “neo-espressionismo”.
Agli esordi infatti il suo stile sera segnato da una presenza vivacissima del folclore argentino, espressa da melodie e ritmi di radice popolare; accostando elementi antichissimi, legati alle culture precolombiane, alla tradizione costruita nei secoli più recenti sotto il segno della colonizzazione spagnola e arricchita da ultimo dall’arrivo di immigrati europei, quali del resto erano stati i suoi stessi genitori, catalano l’uno e italiana l’altra
Ovviamente anche in questa prima fase il dato etnico si appoggiava a una preparazione tecnica e culturale molto solida anche sul piano accademico, che garantiva una piena qualità artistica alla sua produzione, sull’esempio di musicisti europei come Igor Stravinskij, Manuel de Falla e Béla Bartók, con l’Allegro barbaro che ascoltato nell’esecuzione di Arthur Rubinstein fu per lui una rivelazione. Lo conferma la scrittura colorita ma sicura del balletto Estancia: una delle sue composizioni più fortunate, e che contribuì ad affermare già allora la sua immagine come quella, rimasta anche in seguito indiscussa, del più importante fra i compositori argentini. Grazie anche a un’attività intensa di insegnante Ginastera fu quindi il capostipite di una scuola nazionale argentina, illustrata dall’esperienza del più celebre fra i suoi allievi, Astor Piazzolla. Una prima svolta arrivò verso la fine degli anni Quaranta, in coincidenza con un primo soggiorno negli Stati Uniti, di fatto un esilio da un’Argentina governata da una dittatura militare, che gli diede occasione di perfezionarsi sotto la guida di  Aaron Copland. Il nazionalismo da “oggettivo” si fa “soggettivo”: non è più in primissimo piano ma si incanala in una dimensione stilistica più rarefatta e riflessiva. Spostandosi poi in Europa, anche per la contrarietà decisa al regine di Juan Domingo Perón, Ginastera elaborò l’identità che fu sua più a lungo e con gli esiti maggiori. Definì “neo-espressionismo” una direzione creativa molto moderna, nella quale le suggestioni del folclore sono imbrigliate e interiorizzate da un lingaggio sempre più astratto e stilizzato, aperto a raccogliere anche le proposte più nuove. A questa sua maturità, distesa su un trentennio, dal 1953 alla morte, trascorso in patria dal 1955 - anno della caduta di  Perón - al 1958, quando si instaurò una nuova e sanguinaria dittatura militare, e poi di nuovo fra Stati Uniti ed Europa, risalgono i suoi maggiori capolavori.

Cerniera fra i due ultimi periodo, le Variazioni concertanti furono scritte nel 1953 su commissione della Asociación Amigos de la música  di Buenos Aires, che le fece eseguire il 5 giugno dalla sua orchestra diretta da Igor Markevitch, che si servì di questa partitura per i suoi corsi di direzione d’orchestra al Mozarteum di Salisburgo.
Un lavoro raffinatissimo, nel quale l’elemento argentino introdotto da ritmi animati alternati a momenti malinconici, agisce quasi in lontananza, in un contesto che richiama anzitutto Stravinskij e il maggior neoclassicismo europeo
Le dodici sezioni, identificate da titoli in italiano, nelle quali si articola, lasciano emergere solisticamente le prime parti di un’orchestra di piccole dimensioni: il Tema per violoncello e arpa si basa sui sei suoni dell’accordo “aperto” dato delle corde a vuoto della chitarra, dal grave all’acuto mi - la - re - sol - si - mi, e su una melodia elegiaca; dopo un Interludio affidato agli archi, uno scatto dell’orchestra avvia una prima Variazione giocosa per flauto, seguita dalla vivacissima Variazione in modo di scherzo per clarinetto, sui ritmi di origine cubana del mambo; tutt’altro clima nei tempi lenti della Variazione drammatica per viola, che incornicia il monologo dello strumento solista con accompagnamenti ridotti al minimo, e della più calligrafica Variazione canonica per oboe e fagotto; di nuovo grande animazione nella Variazione ritmica per tromba e trombone, parodistica e sfacciata, su un’altra danza popolare, il malambo, e nella virtuosistica Variazione in modo di Moto Perpetuo per violino; un’ultima oasi in tempo moderato, ma in un contesto armonico dolcemente ardito, con la Variazione pastorale per corno e un secondo Interludio, stavolta affidato ai fiati, e la Ripresa del tema per contrabbasso, prima che di un nuovo malambo, la scatenata Variazione finale in modo di Rondò per tutta l’orchestra.


Alberto Ginastera 
Quattro danze dal balletto Estancia

La vitalità franca e immediata, “nazionalismo oggettivo”, del primo Ginastera eplode in Estancia. Commissionato nel 1941 dallo scrittore americano Lincoln Kirstein per l’American Ballet Caravan, con l’idea di affidarne la coreografia a Georges Balanchine e ispirato al poema epico Martin Fierro di José Hernández, racconta la vicenda dell’amore fra un ragazzo di città e la figlia di un agricoltore, titolare appunto della estancia alla quale allude il titolo, condotta a lieto fine dopo varie peripezie fra danze di gauchos, eretti a simbolo di una identità argentina autentica e non europeizzata. Sullo sfondo del progetto, le rappresentazioni del balletto Billy the Kid, di Aron Copland, del quale Estancia avrebbe dovuto essere un equivalente argentino. Lo scioglimento della compagnia impedì la realizzazione dello spettacolo, che dovette attendere fino al 1952 prima di andare in scena, al Colón di Buenos Aires, con la coreografia di Michel Borovski e direzione di Karl Böhm. Nel frattempo Ginastera aveva estratto dalla partitura quattro numeri, combinandoli in una suite da concerto, che fu presentata per la prima volta pure al Colón con la direzione di Ferrucio Calusio, rientrato in Argentina dopo essere stato fra i collaboratori più preziosi di Arturo Toscanini alla Scala.
Los trabajadores agrícolas presenta con grande vivacità e ricchezza di colori i lavoratori della estancia; invertendo la successione originale dei pezzi nel balletto la Danza del grano è invece un momento lirico, affidato alle melodie intonate da flauto e violino; di nuovo ritmi animati e protagonismo virtuosistico di percussioni e ottoni per i Peones de hacienda impegnati con cavalli e bestiame; Nella Danza finale il malambo dilaga. come un’apoteosi festosa dell’amore e della vita all’aperto dei gauchos
Daniele Spini