"Operette e Zarzuelas": le note di sala di Daniele Spini
Giovedì 20 giugno 20.30 - Auditorium Rai di Torino, David Giménez
Operetta in italiano, da cui Operette in tedesco. Il diminutivo, entrato in uso intorno alla metà dell’Ottocento, serviva a indicare la “lirica minore”:
un genere di teatro musicale leggero, dal quale in linea di massima era escluso il racconto di fatti tragici, e anche i sentimenti più dolci erano dipinti con colori tenui, senza troppo concedere alla passione, e anzi scherzandoci sopra volentieri
Tecnicamente, la discriminante fra opera vera e propria e operetta passava per la presenza in quest’ultima di parti recitate, alternate ai pezzi chiusi cantati. Anzi spesso più che di dialoghi inseriti in luogo dei recitativi si aveva a che fare con pezzi cantati, meno impegnativi vocalmente rispetto a quelli dell’opera, inseriti all’interno di una commedia in prosa. Era il proseguimento in termini più lievi della grande tradizione settecentesca dell’opéra-comique francese e del suo trapianto a Vienna e nei paesi di lingua tedesca, il Singspiel. Due generi tassativamente legati, proprio per la presenza della recitazione parlata, all’utilizzo della lingua locale. Specialmente in terra germanica in luogo di quella specie di esperanto o di latino della Messa che almeno fino all’avvento del Romanticismo era stato l’italiano per l’opera; dando origine a un fenomeno di segno uguale e contrario, l’obbligo di scrivere in forma di Singspiel, dunque con i dialoghi, non solo titoli comici come Il ratto dal serraglio o Il flauto magico di Wolfgang Amadeus Mozart, ma anche opere in realtà di contenuto serio, come il Fidelio di Ludwig van Beethoven, pur di poter utilizzare il tedesco invece dell’italiano riservato all’opera tragica, musicata da cima a fondo. Decadute o appannate le culture dell’opéra-comique - ma ancora nel 1875 Georges Bizet aveva mandato al massacro Carmen per aver nutrito di eros e di sangue una partitura che le regole del genere volevano lieve e a lieto fine - e dell’opéra-bouffe che con Jacques Offenbach ne era stato l’equivalente più brillante e paradossale nella Parigi del Secondo impero, così come quella del Singspiel, a cavallo fra diciannovesimo e ventesimo secolo il teatro musicale leggero, misto di commedia e di canto, conobbe grande fortuna appunto con l’operetta viennese e quella italiana. Mentre in Spagna, con caratteristiche tutte sue, anzitutto per la forte componente etnica che la nutriva di melodie e danze popolari, fioriva la tradizione della zarzuela; in Inghilterra William Gilbert e Arthur Sullivan movimentavano l’età vittoriana con capolavori come HMS Pinafore e Il Mikado; e di là dall’Atlantico Broadway scaldava i muscoli in attesa di portare a questo filone il suo contributo straordinario e inconfondibile: il musical.
Dell’operetta viennese fu il re indiscusso Johann Strauss junior. Superiore per fama e per qualità artistica, se non per importanza storica, all’omonimo padre, che aveva sostanzialmente iniziato la tradizione tutta ottocentesca del valzer, si confrontò un numero quasi incalcolabile di volte con questa danza, come con la sua sorella più spigliata, la polka, nutrendone tanto il repertorio delle orchestre da ballo, e in primo luogo della sua, famosissima, quanto le partiture delle sue molte operette.
Dell’operetta viennese fu il re indiscusso Johann Strauss junior. Superiore per fama e per qualità artistica, se non per importanza storica, all’omonimo padre, che aveva sostanzialmente iniziato la tradizione tutta ottocentesca del valzer, si confrontò un numero quasi incalcolabile di volte con questa danza, come con la sua sorella più spigliata, la polka, nutrendone tanto il repertorio delle orchestre da ballo, e in primo luogo della sua, famosissima, quanto le partiture delle sue molte operette.
Una delle più felici è senz’altro Lo zingaro barone, rappresentata per la prima volta il 24 ottobre 1885 al Theater an der Wien: il libretto di Ignaz Schnitzer, ricavato da un romanzo del grande scrittore ungherese Mór Jókai, racconta su uno sfondo tipicamente magiaro, le storie intrecciate - tema abituale di tante operette - di due coppie, destinate da ultimo a trovare la giusta conclusione e la felicità. L’ouverture anticipa alcuni dei motivi più importanti della partitura, alternando melodie fascinose e danze travolgenti, in una scrittura orchestrale raffinata ed efficace
Fratello minore di Johann jr., Josef Strauss aggiunse felicemente il suo nome a un albero genealogico già ricco. Sembra rendere omaggio all’immagine forse appena un po’ dolciastra di una Vienna spensierata che forse non è mai esistita la polka veloce intitolata Senza preoccupazioni!: in realtà il riferimento è autobiografico, dato che Josef Strauss la scrisse nel 1869, durante un soggiorno in Russia, dopo essersi ripreso da una malattia grave. L’euforia che ne sprizza si esprime anche nella risata ritmata richiesta ai musicisti dell’orchestra.
Con Voci di primavera, del 1882-1883, torniamo al maggiore degli Strauss; scritto in origine per la voce di un soprano allora celebre, Bianca Bianchi (al secolo Bertha Schwartz), ed eseguito da Johann nel 1883, fu subito dopo arrangiato per sola orchestra da un altro fratello di lui, Eduard, e da allora è quasi sempre eseguito in questa veste.
Sempre di Johann jr. è la polka veloce Tuoni e fulmini, del 1868: pagina vivacissima, che rende ampiamente ragione del suo titolo, come le altre di questo programma eseguita praticamente ogni Capodanno dai Filarmonici di Vienna e dai massimi direttori nel più che tradizionale Neujahrskonzert.
Ci congediamo da lui con quella che forse è la sua composizione più bella e affascinante, l’ouverture dal Pipistrello, un’operetta che sa essere al tempo stesso divertente e malinconica. Nel libretto di Carl Haffner e Richard Genée, rielaborazione di un testo francese di Henri Meilhac e Ludovic Halévy (gli autori di Carmen) una trama di equivoci, con al centro un costume da pipistrello getta una luce un po’ mesta sugli amori clandestini e sulle baldorie una luce meno brillante, fino a mettere un po’ in dubbio la sincerità stessa di tanta gioia di vivere.
Con Voci di primavera, del 1882-1883, torniamo al maggiore degli Strauss; scritto in origine per la voce di un soprano allora celebre, Bianca Bianchi (al secolo Bertha Schwartz), ed eseguito da Johann nel 1883, fu subito dopo arrangiato per sola orchestra da un altro fratello di lui, Eduard, e da allora è quasi sempre eseguito in questa veste.
Sempre di Johann jr. è la polka veloce Tuoni e fulmini, del 1868: pagina vivacissima, che rende ampiamente ragione del suo titolo, come le altre di questo programma eseguita praticamente ogni Capodanno dai Filarmonici di Vienna e dai massimi direttori nel più che tradizionale Neujahrskonzert.
Ci congediamo da lui con quella che forse è la sua composizione più bella e affascinante, l’ouverture dal Pipistrello, un’operetta che sa essere al tempo stesso divertente e malinconica. Nel libretto di Carl Haffner e Richard Genée, rielaborazione di un testo francese di Henri Meilhac e Ludovic Halévy (gli autori di Carmen) una trama di equivoci, con al centro un costume da pipistrello getta una luce un po’ mesta sugli amori clandestini e sulle baldorie una luce meno brillante, fino a mettere un po’ in dubbio la sincerità stessa di tanta gioia di vivere.
Ma tra i temi indimenticabili che sfilano nell’ouverture domina quello, travolgente, che nell’operetta esplode durante un veglione di carnevale, intonato dal coro: Ha, welch ein Fest, welche Nacht voll Freud'! (Ah, che festa, che notte di gioia!)
E lasciamo anche Vienna con l’ultima grande operetta della sua tradizione, La vedova allegra: scritta da Franz Léhar nel 1905, una manciata di anni prima che le pistolettate di Sarajevo avviassero il grande macello della Prima guerra mondiale, mettendo fino alla belle-époque (che per qualche milione di persone fu un po’ meno bella di quanto non ci sembri oggi) e al mondo che i valzer degli Strauss avevano dipinto o fatto immaginare. La vicenda della bella e ricchissima Hanna Glavari e del conte Danilo, l’avventuriero che la corteggia dapprima per ragion di stato ma poi innamorandosene davvero, a suo tempo era riuscita un po’ imbarazzante per gli italiani, che riconoscevano in lui il fratello scapestrato della regina Elena, e nel regno balcanico immaginario di Pontevedro la patria dei due il Montenegro, dipinto come un tipico reame da operetta.
Ma anche da noi come nel resto del mondo il fascino delle melodie e dei valzer che costellano questo capolavoro intramontabile ha fatto presa nei cuori di tutti
La storia della zarzuela affonda le sue radici ben indietro nel tempo, in quello stesso Seicento che in Italia e altrove vide la musica accorgersi di poter essere anche teatro, e dar vita a tante diverse culture operistiche, tragiche o comiche. E a un certo punto ci si mescolò, indirettamente, anche la politica, quando la Spagna - come altri paesi, Inghilterra e Francia in testa - cominciò a reagire al dominio dilagante dell’opera italiana, arrivata al seguito di Carlo III di Borbone venuto a Madrid dopo essere stato re di Napoli, opponendole un genere di teatro che era e voleva essere nazionale per lingua e stile, anche qui passando per un universo leggero, popolato da figure magari paradossali ma pur sempre credibili, anziché da eroi più grandi del vero; e raccontato da una musica nutrita delle tradizioni più diverse, dal folclore andaluso al mondo misterioso dei gitani.
Fra Ottocento e Novecento, fiancheggiando la rinascita nazionale portata avanti in campo colto da un musicista raffinato ma attentissimo al folclore spagnolo come Isaac Albéniz, nel mondo della zarzuela si misero in luce tanti compositori. Fra i più fortunati Federico Chueca, autore nel 1901 con El Bateo, su libretto di Antonio Domínguez e Antonio Paso:
Fra Ottocento e Novecento, fiancheggiando la rinascita nazionale portata avanti in campo colto da un musicista raffinato ma attentissimo al folclore spagnolo come Isaac Albéniz, nel mondo della zarzuela si misero in luce tanti compositori. Fra i più fortunati Federico Chueca, autore nel 1901 con El Bateo, su libretto di Antonio Domínguez e Antonio Paso:
vicenda grottesca e piccante al punto giusto, costruita intorno al battesimo di un bambino e ai dubbi su chi sia il suo vero padre, aperta da un Preludio brillantissimo
Ma il più famoso fra compositori di zarzuelas fu sicuramente Gerónimo Giménez: un musicista capace non solo di mieter successi nel suo campo ma anche di farsi prender sul serio da colleghi colti e illustri, che seppero trarre ispirazione dal suo teatro nutrito di canto popolare e di folclore. Nel 1896 Giménez ottenne un successo memorabile con El mundo comedia es, oggi meglio noto con il sottotitolo El baile de Luis Alonso:
un sainete (zarzuela in un atto unico) su libretto di Javier de Burgos, su un soggetto popolaresco e brillante, dal quale si ricava la morale che il mondo sia tutta una commedia. Momenti tipici di questo genere di teatro musicale sono gli intermezzi sinfonici: quello del Ballo di Luis Alonso è specialmente ricco di colori e di ritmi
Grande ammiratore di Giménez, Manuel de Falla trattò da par suo argomenti e sfondi non dissimili nei grandi balletti che restano fra le sue opere più amate, e nei quali una modernità cosmopolita convive con le suggestioni di suoni e ritmi inconfondibilmente spagnoli; in primo luogo L’amore stregone, del 1915, un dramma di ambientazione gitana, qui rappresentato dal suo numero più famoso, la Danza rituale del fuoco, quadro quasi ossessivo di sensualità e tensione ritmica
Sempre sul fronte colto si schiera l’Intermezzo da Goyescas, l’opera che Enrique Granados, pianista e compositore raffinatissimo, ricavò da sei pezzi per pianoforte ispirati ai quadri di Francisco Goya, elaborandoli per rivestire di suoni un libretto di Fernando Periquet sulla vita del grande pittore. L’esito felicissimo della prima, diretta da Gaetano Bavagnoli al Metropolitan di New York il 28 gennaio 1916 in una serata completata da Pagliacci con Enrico Caruso, provocò indirettamente la morte di Granados, certo la vittima musicale più illustre della Prima guerra mondiale: invitato dal presidente Woodrow Wilson a tenere un concerto, pospose il rientro in Spagna imbarcandosi su una nave diversa da quella prevista, e che fu colata a picco il 24 marzo 1916 nel canale della Manica dal siluro di un U-Boot tedesco.
Sempre sul fronte colto si schiera l’Intermezzo da Goyescas, l’opera che Enrique Granados, pianista e compositore raffinatissimo, ricavò da sei pezzi per pianoforte ispirati ai quadri di Francisco Goya, elaborandoli per rivestire di suoni un libretto di Fernando Periquet sulla vita del grande pittore. L’esito felicissimo della prima, diretta da Gaetano Bavagnoli al Metropolitan di New York il 28 gennaio 1916 in una serata completata da Pagliacci con Enrico Caruso, provocò indirettamente la morte di Granados, certo la vittima musicale più illustre della Prima guerra mondiale: invitato dal presidente Woodrow Wilson a tenere un concerto, pospose il rientro in Spagna imbarcandosi su una nave diversa da quella prevista, e che fu colata a picco il 24 marzo 1916 nel canale della Manica dal siluro di un U-Boot tedesco.
Molti ascoltatori riconosceranno in questa pagina superba, introdotta nell’opera da Granados giusto a New York, uno dei bis prediletti da Rafael Frühbeck de Burgos, per sei importanti stagioni direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai; che lo faceva spesso seguire, come succede adesso, da uno dei pezzi più esplosivi di Giménez, l’Intermezzo da Le nozze di Luis Alonso, il sainete su testo sempre di Javier de Burgos che nel 1897 fu rappresentato come sequel del Baile
- Daniele Spini
Biglietti per il concerto disponibili online