Le note di sala del concerto n. 17 stagione 2024/2025
10 e 11 aprile 2025. Auditorium Rai Torino
Édouard Lalo
Symphonie espagnole op. 21, per violino e orchestra
Il primo successo a 51 anni
Édouard Lalo dovette attendere il cinquantunesimo anno di età per potersi godere il primo vero successo. La sua carriera artistica fu prima osteggiata dalla famiglia, poi da una serie di scelte infelici, che non gli consentirono di ottenere il favore dell’ambiente musicale del suo tempo. La fortuna bussò per la prima volta alla porta di Lalo nel 1875, grazie a un lavoro destinato a rimanere stabilmente presente nel grande repertorio violinistico: la Symphonie espagnole op. 21.
Symphonie espagnole op. 21, per violino e orchestra
Il primo successo a 51 anni
Édouard Lalo dovette attendere il cinquantunesimo anno di età per potersi godere il primo vero successo. La sua carriera artistica fu prima osteggiata dalla famiglia, poi da una serie di scelte infelici, che non gli consentirono di ottenere il favore dell’ambiente musicale del suo tempo. La fortuna bussò per la prima volta alla porta di Lalo nel 1875, grazie a un lavoro destinato a rimanere stabilmente presente nel grande repertorio violinistico: la Symphonie espagnole op. 21.
La scelta vincente fu quella di dedicare l’opera a Pablo de Sarasate, un virtuoso all’apice della fama, che trovò un’immediata corrispondenza tra la sua tecnica sbalorditiva a la scrittura del brano strumentale
Fu lui il primo interprete della Symphonie espagnole, e l’evento destò subito una risonanza sconosciuta alle abitudini di Lalo. Solo a partire da quel momento la sua produzione cominciò a ottenere i dovuti riconoscimenti, garantendogli una posizione privilegiata nel panorama musicale di fine Ottocento.
La Symphonie espagnole conquistò immediatamente il pubblico, ma lasciò perplessa la critica a causa dell’ambiguità del titolo, che allude alla sinfonia, senza trovare esplicite corrispondenze in partitura. Lalo, fiero del suo primo vero trionfo, non si lasciò scalfire da questa critica e rispose lapidariamente: “Le critiche e i critici passano, o passeranno, ma il titolo resterà”.
L’opera è difficile da analizzare sotto il profilo della forma, perché presenta un’ibrida commistione tra le strutture della suite, della sonata e del concerto solistico.
La Symphonie espagnole conquistò immediatamente il pubblico, ma lasciò perplessa la critica a causa dell’ambiguità del titolo, che allude alla sinfonia, senza trovare esplicite corrispondenze in partitura. Lalo, fiero del suo primo vero trionfo, non si lasciò scalfire da questa critica e rispose lapidariamente: “Le critiche e i critici passano, o passeranno, ma il titolo resterà”.
L’opera è difficile da analizzare sotto il profilo della forma, perché presenta un’ibrida commistione tra le strutture della suite, della sonata e del concerto solistico.
Ma ciò che resta vivido nell’immaginazione di chi ascolta non sono certo le logiche formali; nella Symphonie espagnole colpisce il colore abbagliante del mondo spagnolo
A Parigi, alla fine dell’Ottocento, la Spagna era di casa. Il 1875 è anche l’anno della Carmen di Bizet.
L’esotismo iberico, filtrato attraverso le manipolazioni della cultura francese contaminava un po’ tutte le arti
La Symphonie espagnole di Lalo raccoglie con lucidità quegli stimoli culturali, esibendo una raffinatezza timbrica e ritmica, che la avvicina al Capriccio spagnolo di Rimskij-Korsakov e España di Chabrier.
Andrea Malvano (dagli Archivi Rai)
Felix Mendelssohn-Bartholdy
Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 Scozzese
Nel 1974 il caposcuola della nuova musicologia tedesca, Carl Dahlhaus, pubblicò una raccolta di saggi su Mendelssohn intitolata Das Problem Mendelssohn, parafrasando il famoso Der Fall Wagner, il caso Wagner, di Nietzsche. La figura di Mendelssohn continuava infatti a rappresentare un problema per la cultura tedesca, a quasi un secolo e mezzo dalla sua scomparsa. Ma qual era il problema? Il “problema” in realtà non era Mendelssohn, bensì l’ascesa e la caduta in Germania di un intero sistema culturale fondato sull’odio, sul pregiudizio e sul razzismo. L’antisemitismo era il vero problema, che la figura di Mendelssohn rendeva ancora di bruciante attualità nel dopoguerra.
Andrea Malvano (dagli Archivi Rai)
Felix Mendelssohn-Bartholdy
Sinfonia n. 3 in la minore op. 56 Scozzese
Nel 1974 il caposcuola della nuova musicologia tedesca, Carl Dahlhaus, pubblicò una raccolta di saggi su Mendelssohn intitolata Das Problem Mendelssohn, parafrasando il famoso Der Fall Wagner, il caso Wagner, di Nietzsche. La figura di Mendelssohn continuava infatti a rappresentare un problema per la cultura tedesca, a quasi un secolo e mezzo dalla sua scomparsa. Ma qual era il problema? Il “problema” in realtà non era Mendelssohn, bensì l’ascesa e la caduta in Germania di un intero sistema culturale fondato sull’odio, sul pregiudizio e sul razzismo. L’antisemitismo era il vero problema, che la figura di Mendelssohn rendeva ancora di bruciante attualità nel dopoguerra.
Nessun altro musicista tedesco aveva suscitato tanta ammirazione e goduto di tanta stima in vita quanto Mendelssohn, forse nemmeno Beethoven
Il suo prestigio sulla scena musicale tedesca e internazionale del primo Ottocento è indiscutibile, tanto che il Re di Prussia fu quasi costretto a implorarlo di accettare una carica ufficiale a corte. Pianista idolatrato nei salotti, direttore d’orchestra moderno e innovativo, Mendelssohn fu il fondatore del primo Conservatorio tedesco a Lipsia, e soprattutto restituì ai cristiani, lui ebreo, la loro musica più profonda, riportando in vita, a distanza di un secolo, la Passione secondo Matteo di Bach. Nemmeno il più fanatico degli antisemiti avrebbe osato attaccare Mendelssohn da vivo, ma subito dopo la sua scomparsa iniziò una lenta e corrosiva azione per scalzare dal piedistallo il monumento eretto di fronte al Conservatorio di Lipsia, abbattuto finalmente dai nazisti nel 1936.
I guasti di un secolo di menzogne e d’ingiustizie non si riparano dall’oggi al domani. La figura di Mendelssohn è ancor oggi illuminata da una luce incerta, malgrado siano stati compiuti passi importanti per restituire alla sua musica il rango che le compete nella storia. Il carattere di Mendelssohn appare col passar del tempo sempre più lontano dall’immagine superficiale e un po’ frivola che la critica del tardo Ottocento ci ha tramandato. In realtà, Mendelssohn sembra l’unico artista adulto in un mondo di adolescenti romantici, totalmente concentrati sulle proprie ossessioni e insicurezze. La sua missione principale, negli anni della maturità, è stata quella di salvaguardare la civiltà della ragione in un mondo sempre più dominato dalle passioni e da sentimenti irrazionali, alimentati da un patriottismo fanatico che aveva trasformato i campi di battaglia in macelli umani di violenza inaudita.
La vicenda della Sinfonia n. 3 in la minore, conosciuta con il titolo Scozzese, è abbastanza significativa.
I guasti di un secolo di menzogne e d’ingiustizie non si riparano dall’oggi al domani. La figura di Mendelssohn è ancor oggi illuminata da una luce incerta, malgrado siano stati compiuti passi importanti per restituire alla sua musica il rango che le compete nella storia. Il carattere di Mendelssohn appare col passar del tempo sempre più lontano dall’immagine superficiale e un po’ frivola che la critica del tardo Ottocento ci ha tramandato. In realtà, Mendelssohn sembra l’unico artista adulto in un mondo di adolescenti romantici, totalmente concentrati sulle proprie ossessioni e insicurezze. La sua missione principale, negli anni della maturità, è stata quella di salvaguardare la civiltà della ragione in un mondo sempre più dominato dalle passioni e da sentimenti irrazionali, alimentati da un patriottismo fanatico che aveva trasformato i campi di battaglia in macelli umani di violenza inaudita.
La vicenda della Sinfonia n. 3 in la minore, conosciuta con il titolo Scozzese, è abbastanza significativa.
Mendelssohn, come molti giovani intellettuali della sua generazione, coltivava con passione la pittura e la letteratura contemporanea
Accanto a queste suggestioni culturali, le impressioni ricevute dal lungo viaggio di formazione europeo, compiuto attorno al 1830, hanno lasciato vari segni nella sua musica. Il pellegrinaggio in Scozia, la patria del Romanticismo di Ossian, ha prodotto una delle più belle composizioni orchestrali di Mendelssohn, l’Ouverture della Grotta di Fingal, e ha gettato il seme del suo più importante lavoro sinfonico della maturità, la Sinfonia Scozzese, scritta in realtà alla fine degli anni Trenta ed eseguita per la prima volta a Lipsia nel 1842.
L’idea iniziale era nata infatti durante una visita al Castello di Holyrood a Edimburgo, l’antica sede della monarchia scozzese:
L’idea iniziale era nata infatti durante una visita al Castello di Holyrood a Edimburgo, l’antica sede della monarchia scozzese:
Oggi, al crepuscolo, siamo andati al palazzo dove la Regina Maria visse e amò; si vede là una piccola camera con una scala tortuosa che conduce alla porta; su per questa strada hanno fatto irruzione e hanno trovato Rizzio nella stanza, l’hanno trascinato via, e tre stanze più in là c’è un angolo buio, dove l’hanno assassinato. La cappella è scoperchiata, ricoperta di erba e di edera, e su quell’altare rotto Maria fu incoronata Regina di Scozia. Tutto è in rovina e decadente, e il cielo chiaro illumina l’interno. Credo di aver trovato oggi l’inizio della mia Sinfonia scozzese
Ma di tutto questo i primi ascoltatori della Sinfonia non sapevano niente. Questa lettera, infatti, fu pubblicata però solo molti anni dopo la scomparsa di Mendelssohn dal nipote, Sebastian Hensel. A parte qualche riferimento privato alle origini scozzesi del lavoro, Mendelssohn evitò nella maniera più accurata di conferire alla Sinfonia qualsiasi carattere extra-musicale, e per molto tempo il lavoro fu conosciuto semplicemente come Terza Sinfonia.
Ancora nel 1875, la partitura pubblicata nell’opera completa non reca alcun riferimento alla Scozia. Solo nella lettera in cui offriva la dedica alla regina Vittoria, Mendelssohn allude all’origine scozzese della Sinfonia: «Essa appartiene a Vostra Maestà sotto ogni riguardo, dal momento che la prima idea mi venne durante il mio precedente viaggio in Scozia». Il giovane Mendelssohn, infatuato all’inizio dall’idea romantica di comporre musica sulle rovine delle antiche civiltà nordiche cantate da Ossian, ha invece ben presto abbandonato il progetto di un lavoro a programma, per ritornare molti anni dopo sull’idea di una Sinfonia, seguendo una strategia poetica del tutto diversa. In effetti, il pittoricismo della Grotta di Fingal e dell’Ouverture Calma di mare e felice viaggio, due lavori scritti attorno al 1830, segnano il punto di maggior vicinanza di Mendelssohn alla musica a programma, una direzione che il giovane compositore alla fine decise di non imboccare. La lunga e tormentata vicenda della Sinfonia Italiana, iniziata nello stesso periodo e portata a termine in una prima stesura ben prima della Scozzese, ma mai pubblicata in vita, sta a testimoniare il controverso rapporto di Mendelssohn con il genere della Sinfonia. L’idea di conferire a un lavoro sinfonico un sottotesto narrativo, un telaio letterario o pittorico, non convinceva Mendelssohn, che voleva scrivere della musica retta solamente dalla logica dei suoi rapporti interni. Una Sinfonia tuttavia, a differenza di un lavoro di musica da camera, si rivolge idealmente alla comunità, e ha la necessità di manifestare in qualche misura anche un significato “poetico” più generale. Questa contraddizione rappresenta lo scoglio più infido per gli autori venuti dopo Beethoven.
Ancora nel 1875, la partitura pubblicata nell’opera completa non reca alcun riferimento alla Scozia. Solo nella lettera in cui offriva la dedica alla regina Vittoria, Mendelssohn allude all’origine scozzese della Sinfonia: «Essa appartiene a Vostra Maestà sotto ogni riguardo, dal momento che la prima idea mi venne durante il mio precedente viaggio in Scozia». Il giovane Mendelssohn, infatuato all’inizio dall’idea romantica di comporre musica sulle rovine delle antiche civiltà nordiche cantate da Ossian, ha invece ben presto abbandonato il progetto di un lavoro a programma, per ritornare molti anni dopo sull’idea di una Sinfonia, seguendo una strategia poetica del tutto diversa. In effetti, il pittoricismo della Grotta di Fingal e dell’Ouverture Calma di mare e felice viaggio, due lavori scritti attorno al 1830, segnano il punto di maggior vicinanza di Mendelssohn alla musica a programma, una direzione che il giovane compositore alla fine decise di non imboccare. La lunga e tormentata vicenda della Sinfonia Italiana, iniziata nello stesso periodo e portata a termine in una prima stesura ben prima della Scozzese, ma mai pubblicata in vita, sta a testimoniare il controverso rapporto di Mendelssohn con il genere della Sinfonia. L’idea di conferire a un lavoro sinfonico un sottotesto narrativo, un telaio letterario o pittorico, non convinceva Mendelssohn, che voleva scrivere della musica retta solamente dalla logica dei suoi rapporti interni. Una Sinfonia tuttavia, a differenza di un lavoro di musica da camera, si rivolge idealmente alla comunità, e ha la necessità di manifestare in qualche misura anche un significato “poetico” più generale. Questa contraddizione rappresenta lo scoglio più infido per gli autori venuti dopo Beethoven.
La Sinfonia in la minore non contiene alcun riferimento specifico a un carattere scozzese, ma tuttavia esprime una narrazione musicale legata all’idea di conflitto e riconciliazione tra Scozia e Inghilterra, tra Highlander e Lowlander, come implicitamente dichiara la dedica alla Königin von England alludendo alla totale proprietà di una sinfonia nata sul suolo scozzese
L’idea iniziale dell’Introduzione, che rappresenta anche l’unico frammento sopravvissuto della famosa visita a Holyrood del 1829, esprime senz’altro un esempio di quella Nebelstimme, la voce della nebbia, di cui Mendelssohn parla nelle sue lettere dalla Scozia. La melodia infatti è strumentata con un impasto di timbri scuri e vellutati (oboi, clarinetti in la, corni in do e viole divise), il cui colore avvolge sicuramente il lavoro in un’aura romantica. Un altro topos riconoscibile per il pubblico dell’epoca è per esempio la tempesta che si scatena verso la fine dell’Allegro. Un altro elemento caratteristico consiste nell’inflessione popolare e contadina del successivo Vivace non troppo, scritto nella tonalità di fa maggiore, la stessa della Sinfonia Pastorale di Beethoven. L’aspetto folkloristico di questa pagina è messo in luce subito dal gruppo tematico principale, formato da una serie di frasi ben squadrate affidate alla voce di uno strumento tipico della musica popolare come il clarinetto.
L’immagine pastorale evocata da questo Scherzo, per niente convenzionale nella forma, ha una connotazione tutta intellettuale, con episodi di scrittura raffinatissima come il magistrale intreccio contrappuntistico intessuto dagli strumenti a fiato in quella che potrebbe essere considerata la sezione dello sviluppo. I movimenti sono annodati assieme, malgrado la loro articolazione segua uno schema fondamentalmente classico. Allo Scherzo infatti segue senza soluzione di continuità l’Adagio cantabile, che trova poco alla volta la strada per passare dal fa maggiore dell’episodio pastorale al la maggiore di questa incantevole oasi lirica. Ma la quiete religiosa della melodia principale è turbata dal tragico eroismo dei corni, che col loro richiamo minaccioso introducono un episodio in la minore di carattere marziale. Questo gesto, perfettamente comprensibile al pubblico del primo Ottocento, spiega l’inedito titolo del movimento successivo, Allegro guerriero, che Mendelssohn fa seguire da un Allegro maestoso assai conclusivo.
La prima parte del Finale, nella tonalità di la minore, dipinge una sorta di battaglia, come risultava evidente a ogni spettatore abituato ad assistere in teatro agli impeti guerrieri dell’opera romantica. Ma invece di spegnersi nel silenzio e nella nebbia, il furore della battaglia si stempera in un solenne episodio in la maggiore, che un critico come Greg Vitercik ha recentemenete paragonato a «un ammasso di bouquets vittoriani». Un indizio di come si debba interpretare questo pomposo finale si trova in una lettera di Mendelssohn (12 marzo 1842), che raccomanda al direttore d’orchestra Ferdinand David di trovare per l’inizio dell’Allegro maestoso assai un suono «chiaro e forte come un coro maschile». L’intonazione corale della melodia, affidata alle voci scure di clarinetti, corni in re e viole divise, non lascia dubbi sul carattere maschile e conciliatorio del Finale, ma sparge molti punti interrogativi sul rapporto controverso di Mendelssohn con la pesante eredità della musica sinfonica di Beethoven.
Oreste Bossini (dagli Archivi Rai)
L’immagine pastorale evocata da questo Scherzo, per niente convenzionale nella forma, ha una connotazione tutta intellettuale, con episodi di scrittura raffinatissima come il magistrale intreccio contrappuntistico intessuto dagli strumenti a fiato in quella che potrebbe essere considerata la sezione dello sviluppo. I movimenti sono annodati assieme, malgrado la loro articolazione segua uno schema fondamentalmente classico. Allo Scherzo infatti segue senza soluzione di continuità l’Adagio cantabile, che trova poco alla volta la strada per passare dal fa maggiore dell’episodio pastorale al la maggiore di questa incantevole oasi lirica. Ma la quiete religiosa della melodia principale è turbata dal tragico eroismo dei corni, che col loro richiamo minaccioso introducono un episodio in la minore di carattere marziale. Questo gesto, perfettamente comprensibile al pubblico del primo Ottocento, spiega l’inedito titolo del movimento successivo, Allegro guerriero, che Mendelssohn fa seguire da un Allegro maestoso assai conclusivo.
La prima parte del Finale, nella tonalità di la minore, dipinge una sorta di battaglia, come risultava evidente a ogni spettatore abituato ad assistere in teatro agli impeti guerrieri dell’opera romantica. Ma invece di spegnersi nel silenzio e nella nebbia, il furore della battaglia si stempera in un solenne episodio in la maggiore, che un critico come Greg Vitercik ha recentemenete paragonato a «un ammasso di bouquets vittoriani». Un indizio di come si debba interpretare questo pomposo finale si trova in una lettera di Mendelssohn (12 marzo 1842), che raccomanda al direttore d’orchestra Ferdinand David di trovare per l’inizio dell’Allegro maestoso assai un suono «chiaro e forte come un coro maschile». L’intonazione corale della melodia, affidata alle voci scure di clarinetti, corni in re e viole divise, non lascia dubbi sul carattere maschile e conciliatorio del Finale, ma sparge molti punti interrogativi sul rapporto controverso di Mendelssohn con la pesante eredità della musica sinfonica di Beethoven.
Oreste Bossini (dagli Archivi Rai)