Le note di sala del concerto n. 3 stagione 2025/2026

Le note di sala del concerto n. 3 stagione 2025/2026

30 e 31 ottobre novembre 2025, Auditorium Rai Torino

Le note di sala del concerto n. 3 stagione 2025/2026
Maurice Ravel
Alborada del gracioso
(orchestrazione del n. 4 di Miroirs per pianoforte) 
Una raccolta che segna una profonda evoluzione del mio ideale armonico
così Ravel definiva i suoi Miroirs per pianoforte: uno sfavillante ventaglio di cinque immagini sonore, dove tendenze visionarie ed esotizzanti si confrontano alla luce di un rinnovato linguaggio musicale. Era il 1905; Parigi era al centro della vita culturale europea. La nascita del Novecento stava maturando in ogni ambiente della città, nei luoghi in cui passavano Stravinskij, Picasso, Rodin, Proust, Gide. Ogni quartiere pulsava di vitalità artistica; ogni luogo era un’occasione di incontro tra intelligenze rivoluzionarie, un’esperienza che poteva maturare nel foyer dell’Opéra comique, nelle sale dei Concerts Lamoureux, alle mostre del Salon d’Automne, ma anche nelle chiassose brasseries della rive-gauche o nei fumosi caffè di Montmartre. 

Anche Ravel, dopo aver raggiunto la notorietà con Jeux d’eau, stava pensando al modo di rivoluzionare il suo linguaggio. Ben presto si sarebbe accorto che l’originalità della sua natura musicale non avrebbe richiesto un deciso sforzo verso l’avanguardia. Ma i Miroirs per pianoforte riflettono l’esigenza di cercare nuovi orizzonti linguistici. Ravel in realtà non era riuscito a conquistare gli ambienti accademici, ma aveva ottenuto il successo del pubblico, fin dalle sue prime composizioni; e in particolare i cinque brani che compongono Miroirs lasciarono un segno per la loro originale concezione poetica: non delle Images (come avrebbe fatto Debussy), ma dei Miroirs, vale a dire specchi che cercano di riflettere la realtà senza passare attraverso il filtro soggettivo e deformante dell’immaginazione.  

L’Alborada del gracioso fu la pagina della raccolta che suscitò da subito maggiore entusiasmo (il titolo rimanda a quelle variopinte riflessioni musicali che l’antica cultura spagnola amava raccontare durante le prime ore dell’alba). Certo, il legame genetico di Mamma Marie non poteva che avvantaggiare Ravel alle prese con un soggetto iberico; ma la composizione colpisce soprattutto per una straordinaria capacità di inventare la Spagna, mescolando fantasia e realismo.
Le sonorità pizzicate dell’apertura sono un rimando assolutamente esplicito al suono della chitarra andalusa; le terzine ribattute alludono senza troppe reticenze a un vocabolo tipico della tradizione nata al di sotto dei Pirenei; e anche l’episodio in tempo lento materializza il mondo magico della notte spagnola, tra echi di serenate e languidi pensieri d’amore
Ma l’orchestrazione sfavillante, continuamente cangiante, e i ritmi ossessivi, che sembrano ipnotizzare l’ascoltatore, sono un marchio di fabbrica di “casa Ravel”: un ritratto del folclore spagnolo che si fa ora scheletrico, ora nerboruto, ora leggero come un soffio di vento; proprio come una visione che scorre al confine tra il sogno e la realtà. 

Andrea Malvano
(dagli archivi Rai – programma di sala del 10 marzo 2011)

William Walton
Concerto per viola e orchestra

Quando negli anni Venti del nostro secolo, ancora giovanissimo, William Walton incominciò ad imporsi all'attenzione internazionale nelle sedi privilegiate dei festival della Società Internazionale di Musica Contemporanea, nel breve volgere di qualche anno, offrì di sé due diverse immagini: da una parte quella "modernistica" di Façade, attinta al clima parigino e stravinskiano dell'epoca; dall'altra quella equilibrata di chi si mantiene estraneo agli estremismi del rinnovamento linguistico novecentesco del Concerto per viola. Ma il vero ritratto di Walton, quale allora incominciava a delinearsi, era dato dall'unità di quelle diverse immagini ed era quello di un musicista eclettico e disponibile a qualsiasi esperienza, insofferente delle specializzazioni (negli anni Venti strumentava musica per un'orchestra jazz di Londra, in seguito avrebbe scritto anche musica per cerimonie politiche ufficiali, per spettacoli e film).

Il Concerto per viola (primo lavoro di una serie concertistica per archi che proseguirà poi col violino e il violoncello) è brano di grande chiarezza ed omogeneità discorsiva. Di quest'opera e sistono due diverse versioni: la prima fu realizzata tra il 1928 e il 1929 ed eseguita con Paul Hindemith come solista; la seconda è invece una nuova orchestrazione del 1961. Tra la prima e la seconda versione intervengono varianti di strumentazione, con riduzione dei legni, eliminazione di controfagotto e tuba, e con aggiunta dell'arpa; ma tra le due stesure non si segnalano varianti significative nella sostanza musicale. In ogni caso i tre movimenti di questo Concerto procedono senza scarti, serrati e concisi verso il finale, che è anche il brano più cospicuo di una partitura che manca del tradizionale tempo d'attacco rapido. Sia nell'Andante comodo sia nel Vivo dalle movenze di scherzo, che nell'Allegro moderato conclusivo, si incontrano alcuni dei tratti più tipici dello stile di Walton: la tendenza alla libertà episodica, alla successione caleidoscopica di motivi all'interno dei singoli brani (tipico l'inserimento di una sezione con ritmi jazz nel secondo movimento), la tendenza a cementare l'unità discorsiva del tutto con una serie di rimandi e di citazioni, talvolta tematiche, talvolta soltanto di colore armonico o timbriche.
L'impressione che se ne ricava all'ascolto è quella di una musica che, pur costruita nel solco della tradizione, rifugge dalle affermazioni perentorie e dai toni stentorei, consapevole di offrire poco più che fuggevole ed evanescente divertimento

Virgilio Bernardoni
(dagli archivi Rai – programma di sala del 1° febbraio 1990, 
Orchestra e Coro Di Milano della Rai Radiotelevisione Italiana)


Dmitrij Šostakovič
Sinfonia n. 9 in mi bemolle maggiore, op. 70

Quando si sente parlare di Nona Sinfonia, si pensa immediatamente a Beethoven. La retorica legata alla Nona di Beethoven, infatti, attraversa la musica e la cultura occidentale almeno fino alla caduta del Muro, con la storica esecuzione a Berlino diretta da Leonard Bernstein il giorno di Natale del 1989. La mistica del numero nove si è sviluppata anche grazie all’esempio della Nona di Schubert, eseguita postuma, della Nona di Bruckner, rimasta incompiuta, e della Nona di Mahler, altro grande testamento spirituale eseguito solo dopo la morte dell’autore, alimentando la leggenda del limite invalicabile di questo numero per i maestri della sinfonia. La retorica del numero nove, nel caso di Šostakovič, era accentuata inoltre dal dramma della guerra, che spinge ogni essere umano di fronte al tragico dilemma della vita e della morte, specie dopo un conflitto spaventoso come quello che si era appena concluso.
La Nona di Šostakovič, infatti, fu terminata nell’estate del 1945 nella casa per compositori di Ivanovo, trecento chilometri a nord di Mosca.
Sin dalla primavera del 1944 – ricorda il musicologo e critico musicale Daniil Zitomirskij – Šostakovič aveva detto a un musicologo di Mosca, ‘Sì, sto pensando alla mia prossima Sinfonia, la Nona. Mi piacerebbe impiegare non solo la grande orchestra ma anche un coro e dei solisti, se trovassi un testo adatto; in ogni caso, non voglio essere accusato di cercare presuntuose analogie
Il riferimento è ovviamente a Beethoven, che oltre un secolo dopo continuava a esercitare la propria influenza sulla musica sinfonica. Ma non era l’unico peso che Šostakovič portava sulle spalle scrivendo una nuova sinfonia. Secondo il musicologo russo Genrich A. Orlov, «Nell’inverno 1944/1945 si sapeva che Šostakovič aveva cominciato a lavorare alla sua Nona Sinfonia. Alcuni musicisti ebbero l’opportunità di ascoltare le prime pagine della nuova partitura – un trionfale ed eroico maggiore che sorgeva con energia. Molto presto, letteralmente in pochi giorni, l’esposizione del primo movimento era terminata, e dopo un’altra settimana lo sviluppo. Poi all’improvviso il compositore interruppe il lavoro. Non diede alcuna spiegazione, e in generale evitò qualsiasi commento su questo argomento. In seguito, più di un anno dopo, egli raccontò che, dopo questa prima versione, aveva iniziato a lavorare su un’altra, anche questa rimasta incompleta» . Šostakovič, l’autore dell’eroica Settima Sinfonia dedicata a Leningrado assediata, si sentiva schiacciato non solo dal peso del confronto con Beethoven, ma anche dalle aspettative sul lavoro che avrebbe dovuto salutare la vittoria dell’Armata Rossa nella «grande guerra patriottica». Nell’estate del 1945 l’agenzia TASS riferiva la notizia che la nuova Sinfonia di Šostakovič «dedicata alla celebrazione della nostra grande Vittoria» era di imminente esecuzione.
 
Ben diversa, invece, fu la partitura che il pubblico si trovò davanti il 3 novembre 1945, nel concerto inaugurale della stagione dell’Orchestra Filarmonica di Leningrado diretta da Evgenij Mravinskij. La Nona di Šostakovič, infatti, è un lavoro ironico piuttosto che serio, melanconico più che tragico, parodistico invece che retorico, cameristico anziché magniloquente. In altre parole, la nuova sinfonia del compositore sovietico per eccellenza era tutto tranne che una «celebrazione della nostra grande Vittoria», e certamente non poteva essere accusata d’imitare la Nona di Beethoven.

L’Allegro iniziale è puro Haydn, il compositore più ironico, arguto e antieroico mai esistito, e in questo caso lo è non solo per quanto riguarda il carattere parodistico e scherzoso del movimento, ma anche sotto l’aspetto formale. Šostakovič, infatti, disegna una perfetta forma sonata di stile classico, con tanto di ritornello dell’esposizione, sviluppo, ripresa dell’esposizione e coda. Le sorprese non mancano, e sono legate soprattutto al secondo tema. Mentre il primo è un tema schietto e aperto in mi bemolle maggiore, il secondo si presenta come una parodistica marcetta circense in si bemolle maggiore introdotta da un beffardo levare del trombone, sul quale il flauto piccolo si arrampica come un topolino sulle spalle di un elefante. Sembra incredibile parlare di tonica (mi bemolle maggiore) e di dominante (si bemolle maggiore) nel 1945, ma anche questo fa parte del carattere ironico di questo lavoro. La clownerie del secondo tema si esalta addirittura nella ripresa, quando il trombone cerca per ben sei volte di avviare la marcia senza riuscirci, come un attore che entrasse sempre in scena al momento sbagliato, e solo alla settima riesce ad azzeccare il punto giusto.

Il secondo movimento, Moderato, è completamente diverso, in primo luogo per la tonalità molto lontana di si minore. La melodia solitaria di un clarinetto in la si staglia nel vuoto, accompagnata soltanto da sporadici pizzicati dei bassi.
Se cercate un eroe, sembra dire Šostakovič, quello non sono io
Un secondo clarinetto in la si aggiunge alla voce del primo per sostenerlo in questo monologo introspettivo, degno di un personaggio di Anton Cechov, uno degli scrittori più amati da Šostakovič. Dopo questa prima parte affidata quasi esclusivamente agli strumenti a fiato, il Moderato diventa un melanconico valzer in fa minore, con gli archi in sordina e un tema discendente dei corni di accentuato carattere cromatico. Questi due elementi si alternano e si intrecciano fino alla coda conclusiva, dove l’esile suono del flauto piccolo riprende per l’ultima volta il tema principale che svanisce morendo su una lunga nota tenuta di fa diesis. Gli ultimi tre movimenti sono legati assieme, formando una sorta di unico torso grottesco dove emerge il mondo sonoro particolare di Šostakovič, che dalla giovanile ed esuberante Prima Sinfonia irrompe come un barbaro nella tradizione sinfonica giocando con gli stili, mescolando alto e basso, miseria e nobiltà, in un amalgama che ricorda il realismo poetico di Mahler, secondo il quale una sinfonia deve comprendere il mondo intero.

Lo sfrenato spirito dionisiaco del terzo movimento, Presto, è contrapposto al solenne e terribile richiamo del sacro, con la fanfara dei tromboni che squarcia l’inizio del Largo. A questo appello supremo risponde l’umile voce di un fagotto, che si piega nella dolorosa compassione per i mali del mondo. Forse in questo transitorio quarto movimento riecheggia il ricordo del Boris Godunov di Musorgskij, che Šostakovič aveva riorchestrato nel 1939.
Il secondo solo del fagotto trapassa nell’Allegretto finale, che ristabilisce la tonalità di mi bemolle maggiore con un tema energico alla Haydn, da fischiettare con le mani in tasca
Anche qui, come nel primo movimento, si torna alla forma classica del rondo sonata, con una scrittura brillantissima che mette in luce il virtuosismo di tutte le sezioni dell’orchestra. Le irregolarità e le sorprese sono sparse su tutto il finale, che si trasforma, come spesso avviene in Šostakovič, in una frenetica parata dell’assurdo. Il neoclassicismo di Šostakovič, infatti, non si accontenta di calcare sulla testa la parrucca di Haydn, ma stravolge le forme in un ghigno sarcastico attraverso il filtro della parodia e della clownerie grottesca.

Oreste Bossini
(dagli archivi Rai – programma di sala del 9 marzo 2023)

Maurice Ravel
La valse 
Poema coreografico

Completa il dittico ispirato alla danza La valse, che però nel 1906 Maurice Ravel aveva solo pensato come poema sinfonico ispirato a Vienna e agli Strauss:
un grande valzer, una sorta di omaggio alla memoria del grande Strauss, non Richard, l’altro, Johann […]. Conoscete la mia intensa simpatia per questi ritmi adorabili. E quanto stimi la gioia di vivere espressa dalla danza
Johann Strauss junior era morto da sette anni soltanto, Francesco Giuseppe regnava tranquillamente sul suo impero e nessuno pensava possibile una fine dell’equilibrio politico che aveva dato all’Europa decenni di pace.  Il progetto sembrò rinascere nel 1914 con un titolo significativo: Wien, Vienna. Ma il 28 giugno di quell’anno le pistolettate di Sarajevo resero intempestivo qualsiasi omaggio al valzer viennese. Solo dopo la guerra un suggerimento di Sergej Djagilev, impresario dei Ballets Russes, produsse nel 1920 La Valse, “poema coreografico”. 

“Mouvement de Valse viennoise”, è l’indicazione di tempo; il tema principale cita in un contesto armonico e timbrico deformato un valzer di Johann Strass junior, O schöner Mai. «Nuvole turbinose lasciano intravedere a tratti alcune coppie che danzano il valzer. Le nuvole poco a poco si dissipano: si scorge una sala immensa, popolata da una folla volteggiante. Al 'fortissimo' risplende la luce dei lampadari. Una corte imperiale, intorno al 1855».  Una traccia quasi cinematografica: un precisarsi progressivo dell’immagine, fino a un culmine sonoro e visivo; così la musica grazie a un pensiero strumentale di genialità inarrivabile parte da un percorso ritmico indistinto per identificarsi sempre più con lo schema metrico del valzer fino a esplodere in frenesia motoria. Ironia ed eleganza evitano sentimentalismi e nostalgie. Djagilev respinse la partitura: «Caro Ravel, è un capolavoro, ma non è un balletto». Rottura totale, più tardi addirittura una sfida a duello: La Valse dovette accontentarsi di un battesimo in concerto, il 12 dicembre 1920.

Daniele Spini
(dagli archivi Rai – programma di sala dell’11 maggio 2022)


I biglietti del concerto del 30 e 31 ottobre 2025 sono disponibili anche online