Alpi 2020: la settima e ultima tappa

Dalle Alpi Giulie al Gran Sasso per scoprire gli impressionanti cambiamenti avvenuti in un secolo, soprattutto nel massiccio del Gran Sasso


4-5 settembre 2020

Terminato il lavoro sul campo nel gruppo della Marmolada, riprendiamo il nostro viaggio verso il Friuli Venezia-Giulia. Avvicinandoci al Passo Falzarego, attraversiamo le valli più colpite dalla tempesta Vaia, l’evento meteorologico estremo, causato dalla tropicalizzazione del clima mediterraneo, che con la sua potenza distruttiva ha abbattuto milioni di abeti in soli 4 giorni nell’ottobre del 2018. Lo scenario dal vivo è impressionante e anche in questo caso ai nostri occhi risaltano in maniera inequivocabile gli effetti distruttivi del cambiamento climatico. 

Passando per la valle di Cortina d’Ampezzo riusciamo a ritrovare il punto fotografico da cui Emilio Gallo, nel 1909, aveva scattato una veduta dell’allora piccolo paese di Cortina d’Ampezzo, al tempo contornata de grandi estensioni di pascoli. Infatti, ai tempi di Gallo l'economia montana era ancora in larga parte basata su agricoltura e pastorizia con la conseguente forte necessità di aree destinate a pascolo; dopo decenni di sviluppo turistico ed abbandono dei pascoli, da un lato i boschi hanno riguadagnato terreno, dall'altro è evidente la notevole espansione urbana della cittadina.

Arrivati in serata nella zona del monte Canin, raggiungiamo l’amico Renato Colucci, ricercatore e glaciologo del CNR, per pianificare insieme le attività dei giorni successivi in cui Renato sarà la nostra preziosa guida.
La mattina ci svegliamo presto e, con l’aiuto di una cabinovia, saliamo al rifugio Celso Gilberti, a 1800 metri di quota, da cui ci incamminiamo verso la Bila Pec, un contrafforte con uno straordinario affaccio verso il Canin. Da qui Arturo Ferrucci, alla fine del 1800, aveva scattato una fotografia panoramica della catena e dei ghiacciai del Canin e dell’Ursich, formati allora da due piccoli corpi glaciali con una superficie poco al di sotto del chilometro quadrato. Oggi troviamo una situazione molto diversa: il ghiacciaio si è smembrato in piccoli corpi glaciali, definiti dai glaciologi “glacionevati”. Dal confronto con l’immagine storica verifichiamo visivamente l’estinzione dei ghiacciai, come ci conferma Renato esponendoci le accurate misurazioni frutto del suo lavoro di ricerca decennale.
Nel pomeriggio ci spostiamo sul versante opposto della valle per raggiungere gli altipiani del Montasio e ripetere un’altra panoramica, sempre della catena del Canin, scattata dalla squadra fotografica dell’Istituto Geografico Militare negli anni ‘20.
Il giorno successivo, avendo ormai raggiunto l’ultima tappa del nostro itinerario alpino, ci mettiamo in marcia per far ritorno a casa dopo oltre 45 giorni ininterrotti di spedizione: qualche giorno di riposo prima di ripartire per l’ultima tappa di “Alpi 2020” che si svolgerà sul Gran Sasso - in Appennino Centrale - il fine settimana successivo.


11-12-13 settembre 2020

L’appuntamento per l’ultima tappa della spedizione è a Prati di Tivo, punto d’accesso al versante settentrionale del Gran Sasso. Queste montagne sono la mia seconda casa, le ho frequentate e vissute in ogni stagione per gli ultimi 30 anni. Sono emozionato di trovarmi in un luogo per me così importante con gli altri membri della spedizione, tutti proveniente da altre zone d’Italia, e di concludere qui questa lunga e affascinante avventura sulle montagne italiane. 

Il ghiacciaio del Calderone - situato sotto la cima del Gran Sasso - è uno straordinario luogo di osservazione degli effetti del cambiamento climatico a causa della sua bassa latitudine e, nonostante dal 2007 sia stato declassato a “glacionevato”, continua a riscuotere l’interesse della comunità scientifica per le sue peculiarità: su questo piccola struttura appenninica è infatti possibile studiare cosa accade ai ghiacciai al momento dell’estinzione e poter fare delle previsioni più accurate sul futuro e l’evoluzione dei ghiacciai alpini.
In questa missione saremo accompagnati da numerosi ricercatori, oltre che da una troupe di Sky TG24, e questo ha richiesto l’organizzazione di una logistica particolarmente flessibile per poter garantire il lavoro di tutti.

Nel tardo pomeriggio dell’11 settembre siamo in marcia verso il rifugio Franchetti in compagnia di Alberto Cina e Paolo Maschio, i due ricercatori del Politecnico di Torino che ci hanno accompagnato in varie tappe della spedizione per realizzare modelli tridimensionali dei ghiacciai con sofisticate tecniche di rilevamento aereo. Per l’indomani abbiamo in programma di cercare i punti di ripresa da cui ripetere le foto storiche ed effettuare voli con i droni per la produzione dei modelli 3D del ghiacciaio.
La mattina successiva saliamo di buon’ora lungo il ripido sentiero che dal Franchetti porta alla morena frontale del ghiacciaio e, appena svalicato, ci immergiamo nella grande conca detritica che solo 20 anni fa era colma di ghiaccio. Mentre Paolo e Alberto cominciano a posizionare i marker per i rilevamenti col drone, con Dario saliamo lungo la morena sulla destra idrografica del ghiacciaio - lungo il sentiero attrezzato che conduce alla vetta Orientale del Gran Sasso - per cercare il punto di ripresa utilizzato da G. Zanon nel 1963. Dopo una lunga attesa dovuta ai repentini cambi di luce causati dall’inarrestabile movimento delle nuvole, finalmente ripetiamo le due immagini.
Di lì a poco ci hanno raggiunto sul ghiacciaio la troupe di Sky TG24 con cui avevamo pianificato un’intervista per la trasmissione IMPACT e, nel primo pomeriggio, la squadra composta da Roberto Ambrosini, Davide Fugazza e Arianna Crosta dell’Università Statale di Milano, con Francesca Pittino dell’Università di Milano-Bicocca, arrivati direttamente dal capoluogo lombardo per effettuare dei prelievi organici sugli ultimi lembi del Calderone, proseguire lo studio sulla biodiversità in ambiente glaciale e capire quanto la presenza di materiale organico incida sul fenomeno di ablazione.
Nel pomeriggio, infine, abbiamo ricevuto la visita di Massimo Frezzotti, presidente del Comitato Glaciologico Italiano, e Massimo Pecci, glaciologo dello stesso istituto, entrambi impegnati da molti anni nello studio dell’evoluzione del Calderone. Dopo averci aggiornato sulle più recenti ricerche legate a questa zona, ci hanno accompagnato verso la Vetta Orientale per ripetere alcune fotografie storiche.

L’alba del mattino seguente ci accoglie con colori meravigliosi e la parete est del Corno Piccolo illuminata da un intenso rosso fuoco. Nonostante la velocità repentina con cui cambia la luce in questa fase della giornata, riesco a realizzare una sequenza di scatti per comporre una grande panoramica della parete e della valle sottostante.
Partiamo di buon’ora in compagnia di Alberto e Paolo che hanno in programma di raggiungere nuovamente la morena frontale e continuare le riprese con laser scanner e drone. Il nostro programma prevede invece di proseguire verso la Vetta Occidentale, lungo il percorso del Passo del Cannone, per ripetere alcune immagini della parte superiore del ghiacciaio.
Una breve ferrata con affaccio sulla meravigliosa Val Maone e i Pilastri d’Intermesoli ci porta rapidamente sulla via normale al Corno Grande. In breve tempo raggiungiamo l’anticima e troviamo il punto da cui Enrico Abbate realizzò una delle prime fotografie del ghiacciaio il 19 settembre del 1886. Ho in mano l’immagine, mi trovo con certezza nel punto della ripresa storica, ma la morfologia della montagna è cambiata totalmente: 134 anni fa solo qualche decina di metri sotto la Vetta Occidentale iniziava il ghiacciaio che scendeva ampio e costante lungo tutto il vallone sottostante; oggi, invece, la parete precipita verticalmente per un centinaio di metri per raggiungere un ripido pendio composto da sole pietraie instabili che scivolano verso il profondo della conca. Il confronto è come sempre sconvolgente, pensando a come sia cambiata la morfologia della montagna, non solo a livello paesaggistico ma anche per quanto riguarda la fruizione: solo 20 o 30 anni fa si poteva scendere con gli sci lungo il vallone anche nei mesi estivi, mentre ora quello che anticamente era il bacino di un piccolo ma rigoglioso ghiacciaio è una pietraia non praticabile per il rischio di caduta massi.
Ripetuto lo scatto con la folding Linhof su pellicola 4x5 pollici, ripartiamo alla ricerca di altri punti fotografici sulla cresta sommitale. Lungo il cammino incontriamo una fila interminabile di turisti, molti dei quali, arrancando con una certa precarietà e improvvisazione, si accalcaono per raggiungere la vetta. È uno scenario inusuale per un ambiente di montagna e questa presenza così massiccia ci porta a riflettere ancora volta sul delicato rapporto che lega uomo e ambiente: se da una parte è bello vedere molte persone avvicinarsi alla montagna e a ciò che essa rappresenta, dall’altra parte questo affollamento inusuale ci obbliga ancora una volta a riflettere sull’impatto dell’uomo sull’ambiente.
Raggiunta la sommità vengo avvicinato da un gruppetto di ragazzi di giovane età, incuriositi dai nostri strani materiali di ripresa. Alla visione delle fotografie storiche che avevo in mano, i ragazzi hanno reagito con grande stupore, misto a una certa tristezza: non potevano credere che il paesaggio fosse cambiato così drasticamente in così poco tempo e che pochi metri sotto la cima solo pochi anni fa giaceva un piccolo, ma florido ghiacciaio. 
Dopo aver realizzato alcune immagini dalla cresta sommitale, abbiamo iniziato la nostra discesa verso il rifugio Franchetti. Lungo il percorso abbiamo incontrato nuovamente il gruppo dei ragazzi conosciuti in cima i quali, visti nostri zaini carichi di materiali pesanti, si sono offerti di aiutarci a trasportarli fino alla funivia. Sono rimasto molto colpito da questo slancio di generosità e partecipazione, uno splendido sipario ricco di speranza sull’ultima tappa di un lungo progetto nato proprio dal desiderio di sensibilizzare le nuove generazioni sul grande tema delle problematiche ambientali.