Giulio Aristide Sartorio: un dittico, Diana e la Gorgone
Ottocento alla GNAMC di Roma
La sua formazione, dunque, avvenne in un ambito familiare stimolante, consono a far emergere precocemente una straordinaria padronanza del disegno e delle tecniche artistiche.Pittore, scultore, incisore, decoratore, scrittore ed anche autore di ben tre pellicole che realizzò e interpretò in età matura, Sartorio era figlio d’arte, cresciuto in una famiglia dove sia il nonno, sia il padre erano artisti
Il dittico qui presentato è un’opera della piena maturità dell’artista e si pone come una sorta di manifesto programmatico delle tendenze idealistiche ed estetizzanti di fine secolo radunate intorno al grande amico del pittore, Gabriele D'Annunzio e alle riviste "Cronaca bizantina" e il "Convito" di Adolfo De Bosis.
In linea con le tendenze europee fin de siècle, negli anni in cui realizzava il grande dittico, Sartorio coltivava una pittura intrisa di cultura letteraria, nonché supportata da un vastissimo supporto di immagini erudite o più comuni, derivate dalla fotografia. Nelle sue ricostruzioni di ambienti all’antica, infatti, accostava, talvolta arbitrariamente, motivi d’ispirazione greco-romana, medievali e “primitive” quattrocentesche con suggestioni moderne, preraffaellite e simboliste.
Dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, inoltre, l’artista rafforzava proprio il sodalizio con D’Annunzio, firmando per gioco un’acquaforte con il nome di Andrea Sperelli, protagonista del nuovo romanzo del letterato abruzzese, “Il piacere” (1889).
“Diana di Efeso e gli schiavi” e “La Gorgone e gli eroi” venne presentato alla terza Biennale di Venezia (1899), nell’ambito di una mostra personale di circa cinquanta opere di Sartorio e subito acquistato per le collezioni della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma. Nel catalogo della Biennale, l’artista affermava di aver raffigurato "due aspetti della profonda vanità dell'esistenza umana", incarnati dalle forme ammalianti e oniriche della Gorgone, bellezza fatale e annientatrice e dalla Diana di Efeso, nutrice degli uomini e delle loro chimere.Questo cortocircuito tra finzione e realtà, incarnava alla perfezione il binomio “arte e vita” condiviso sia da D’Annunzio, sia da Sartorio
Inizialmente, il dittico era stato concepito come una grande tela di oltre otto metri, il cui tema gli era stato suggerito dal noto brano della “Tempesta” di Shakespeare, citato da D'Annunzio in un passo del” Trionfo della morte” (1889).
Per capirne a fondo le molteplici suggestioni del dittico è interessante ripercorrere alcune tappe peculiari di un artista complesso, capace di cogliere e far sue influenze moderne divenendo un riferimento ineludibile del nascente Simbolismo italiano.Gli uomini, dichiarava l'artista nel catalogo della Biennale, "sono fatti della sostanza medesima dei loro sogni ed essi vengono qui rappresentati come dormienti, che stringono nelle mani i simboli delle proprie ambizioni"
Giulio Aristide Sartorio, 1899
A sedici anni, dopo aver frequentato per un breve periodo e senza continuità, l’Accademia di San Luca, per necessità economiche Sartorio iniziò a lavorare con architetti e pittori già affermati. In particolare, il giovane prestò la sua opera nello studio romano del pittore spagnolo Luis Álvarez Catalá (1836–1901) che, sull’onda del successo di Mariano Fortuny, doveva la sua fama a dipinti di carattere spagnoleggiante. Questa prima produzione di carattere commerciale, molto richiesta e redditizia, nel 1879, consentì a Sartorio di aprire un proprio studio e di avviare così la sua carriera personale.
Nella prima maniera, il giovane artista oscilla tra il genere neo-settecentesco e reminiscenze classiche, provenienti dall’educazione familiare, rivisitate attraverso una progressiva adesione al “Verismo”, allora in auge, nel tentativo di individuare una propria linea di ricerca originale. Determinante, fu l’impressione ricevuta dalle tele di Domenico Morelli (1823–1901) del quale, più volte, visitò lo studio a Napoli rafforzando nel tempo un rapporto di reciproca stima (Domenico Morelli: Le Tentazioni di Sant’Antonio).
Negli anni Ottanta, Sartorio partecipava al vivace clima culturale romano in cui coesistevano diverse correnti che aspiravano ad individuarne lo stile di un’arte “nazionale” e allo stesso tempo, aggiornata sulle ricerche europee.
Nel 1882, iniziava la collaborazione a “Cronaca bizantina” (1881-1886), diretta da Angelo Sommaruga, intorno alla quale gravitavano Edoardo Scarfoglio, Giosue Carducci, Francesco Paolo Michetti, Giuseppe Cellini e D’Annunzio.
L’anno seguente, presentava all’Esposizione Internazionale di Belle Arti di Roma, “Malaria”, dipinto che lo segnalò alla critica e al pubblico. La tela doveva essere acquistata per la nuova Galleria d’Arte Moderna, da poco istituita, ma venne prelevato dal giovane editore Angelo Sommaruga, che a sua volta lo vendette in America.
Giulio Aristide Sartorio, Malaria, 1883, olio su tela, 125x223cm., Museo Nacional de Bellas Artes, Buenos AiresCon “Malaria”, pur mantenendo qualche vezzo pittorico spagnoleggiante, Sartorio s’ispirava al naturalismo di ascendenza caravaggesca, memore di Jusepe de Ribera nel crudo trattamento dei corpi e nell’atmosfera livida del paesaggio. Il dramma, ambientato in un desolato paesaggio dell’Agro Pontino romano, mostra in primo piano una madre che piange il figlio morto, un fatto di attualità, una denuncia sociale che accompagnava le inchieste in corso sulle condizioni sanitarie di poveri lavoratori vittime dell’ampia diffusione del morbo.
“Cronaca Bizantina”, dal 1885 diretta da D’Annunzio, negli stessi anni incitava gli artisti al superamento di concetti umanitari, teologici e patriottici della corrente Verista, per inalzare l’arte a un’estetica di bellezza superiore. La nuova figura dell’artista, intellettuale militante e difensore della propria autonomia doveva quindi indirizzare la ricerca a un’ideale di bellezza spirituale, affine a quella dei Preraffaelliti inglesi. La corrente anglofona, che ebbe fortuna in Italia proprio in questi anni, fu propagata soprattutto dal paesaggista Nino Costa (1826–1903) che, nel 1883, aveva captato il cambiamento di registro dando vita alla “Scuola etrusca” romana. In nome dell’analogia, della metafora preziosa e di un arcaismo dai risvolti spirituali che accompagnava il “paesaggio dell’anima” di assonanza Simbolista, un gruppo di artisti italiani e stranieri seguirono il pittore nel superamento del “vero”. Costa, pochi anni dopo, per naturale evoluzione dell’associazione “Etrusca”, fondava “In Arte Libertas” (1886-1903), un vero e proprio movimento per la diffusione delle istanze preraffaellite in Italia.“Tutti siamo veristi, poiché queste linee, questi colori non si comprendono astrattamente: e noi, accozzando, ordinando insieme cose vere, perveniamo a ridare quell’armonia che ci balenò nella mente”
Giuseppe Cellini, Cronaca Bizantina, 1884
Con l’intento di studiare dal vero le decorazioni settecentesche di Versailles e Fontainebleau, nel 1884, Sartorio si reca a Parigi, un’occasione per visitare il Salon, ma soprattutto un viaggio nel quale sviluppa una sua riflessione teorica oltre che su questioni squisitamente stilistiche, anche sulle dinamiche del sistema dell’arte contemporanea in rapporto alle aspirazioni ideali dell’artista.Sartorio, che diventerà subito socio di Costa, ricorderà queste battaglie “intese a scuoter il torpore intellettuale romano” e ad inalzare l’opera d’arte dalla praticità del grigiore quotidiano di tante esposizioni, ad uno stile colto ed estetizzante
Nel periodo tra il 1885 e il 1890, Sartorio è già parte di un milieu artistico romano esclusivo: frequenta via Margutta, stringe relazioni con amatori e collezionisti, conosce D’Annunzio partecipando ad un’opera collettiva di illustrazione per “Isaotta Guttadauro” (1886), nonché, Francesco Paolo Michetti (1851–1929), autore de “Il Voto” (1883), un dipinto di rottura nel panorama cristallizzato dell’arte ufficiale italiana che costituirà un notevole stimolo per l’evoluzione stilistica dell’artista (Francesco Paolo Michetti: Il Voto).
Nel 1887, grazie all’incontro con l’architetto Ernesto Basile che stava progettando un villino per Villegas ai Parioli, Sartorio intraprende anche l’attività di decoratore di interni, un mestiere che diverrà fecondo e duraturo.
Giulio Aristide Sartorio, I figli di Caino, 1885-1888, olio su tela, Istituto romano di San Michele, RomaNel 1889, all’Esposizione Universale di Parigi, Sartorio presenta “I figli di Caino”: è un successo generale che gli vale una Medaglia d’Oro ex aequo con Giovanni Segantini.
La tela di lunga gestazione fu concepita con le caratteristiche della pittura da Salon dunque, inizialmente, misurava circa sei metri di lunghezza. Ancora nelle sue dimensioni originarie, il dipinto fu proposto allo Stato per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ma senza successo per cui, nel 1893, l’artista lo tagliò in quattro frammenti donati poi ad amici.
Sartorio s’ispirava ai “Poemi barbari” (1862) del poeta e critico letterario Leconte de Lisle; capofila dei “parnassiani”, questi proclamava il distacco dall’arte di impegno sociale e politico per la ricerca di un “Bello” che, in quanto tale, sanciva un’arte fine a sé stessa. Sartorio, che voleva proporre un’opera di alto valore simbolico, scelse tra le diverse furie devastatrici e sanguinarie, di cui l’uomo si era dimostrato prodigo, quella d’origine, la più drammatica di tutte le violenze di sangue della storia. Infatti, a detta di Sartorio, “I figli di Caino” era un “quadro antistorico e aneddotico per eccellenza”, non a caso poi smembrato come farà, successivamente, anche per il dittico di Diana e la Gorgone. L’artista, inoltre, superava la poetica verista riferita a Caravaggio e Rubens, con modalità pittoriche sperimentali; il forte chiaroscuro viene reso con colori stesi a grumi, effetti a rilievo che danno corpo alla superficie pittorica.
Giulio Aristide Sartorio, Grotte di Nerone, Anzio, tecnica mista su cartone, 28x59cm., 1891, Collezione privataIl viaggio a Parigi fu una tappa importante per l’approdo di Sartorio alla poetica Simbolista; in compagnia con Michetti visitò la retrospettiva sui “paesaggisti di Barbizon”. Al ritorno, ospite dell’amico a Francavilla al Mare, inizia a realizzare paesaggi, un genere finora trascurato al quale presto si appassiona coltivando un fertile terreno per la sperimentazione e la ricerca. Risalgono agli anni Novanta dell’Ottocento i primi pastelli dal vero della campagna romana nei quali emerge un nuovo sentimento per un “paesaggio interiore”, percepito nell’universale e inscindibile rapporto con l’uomo e la sua memoria. Sono dipinti studiati a partire da una primitiva impressione colta dal vero e poi rielaborata in un processo interpretativo di selezione e astrazione con una tecnica sperimentale attenta agli effetti prodotti, anche grazie all’ausilio della fotografia che suggeriva nuovi tagli visivi, una monumentalità concentrata in piccoli formati e una peculiare luminosità.
Nel 1889, un altro incontro cruciale fu quello con il conte, fotografo e collezionista Giuseppe Primoli (1851–1927), animatore della vita intellettuale e mondana della “Roma bizantina” che gravitava attorno al critico e scrittore Angelo Conti (1860–1930). Nel 1890, Primoli, commissiona a Sartorio il trittico ispirato alla parabola evangelica, “Le vergini savie e le vergini folli” da donare alla sua futura sposa. Ma le nozze non ebbero luogo e i rapporti con Primoli si guastarono nel 1894, a causa di una vertenza fatta dall’artista per il pagamento dell’opera.
Giulio Aristide Sartorio, Le vergini savie e le vergini folli, 1890-91, olio su tavola, parte centrale, 47x133cm. e laterali, 64x91cm., Galleria Comunale d’Arte Moderna, RomaSecondo il modello preraffaellita, l’opera propone ritratti di donne con le sembianze delle dame amiche del conte, modelle che posarono per Sartorio secondo la moda del tableau vivant. Maria di Gallese, moglie di D'Annunzio, fu ritratta nelle vesti di "vergine folle" nell'ultima figura a destra, un'identificazione confermata dalle fotografie scattate alla donna dallo stesso Primoli.
La pittura di Sartorio di questi anni, intrisa di cultura estetica letteraria, a volte sovraccarica e opulenta e alimentata da un vastissimo supporto d’immagini, viene dedicata alla donna, simbolo e protagonista dell’ambiguità nella cultura fin de siècle. È un femminile solitario, sospeso in atmosfere oscure o in fondali di accentuato decorativismo.
Mentre Sartorio approfondiva le fonti in ripetuti viaggi lungo la penisola, dagli inizi degli anni Novanta con l’intensificarsi dell’attività espositiva, tornava a Parigi, spingendosi poi a Londra, Manchester, Liverpool, Berlino Anversa e Monaco. La conoscenza profonda della cultura Preraffaellita, fino ad ora superficiale e mediata attraverso le riproduzioni di Dante Gabriele Rossetti mostrategli da D’Annunzio, avviene tra il 1893 e il ’94 quando, in Inghilterra, vede le tele dal vero e conosce personalmente Edward Burne-Jones, William Morris e Charles Fairfax Murray. Da questi soggiorni, nascono diversi articoli dedicati a Burne-Jones (1894) e a Rossetti (1895), da considerarsi tra le prime testimonianze critiche della ricezione dei Preraffaelliti in Italia. Nel 1896, inoltre, è chiamato a insegnare alla Scuola d’Arte di Weimar dal granduca Carlo Alessandro di Sassonia, immergendosi nell’ambiente cosmopolita degli archeologi e dei cultori di antichità gravitante intorno a figure come Arnold Böcklin, Franz von Lenbach.
Nel 1895, mentre partecipa alla prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, con un’opera d’ispirazione botticelliana che esprime la piena adesione all’arte inglese, inizia a lavorare a “Diana di Efeso e gli Schiavi”. La complessa elaborazione della tela contempla una prima composizione di ampie dimensioni: “Gli uomini e le chimere”, sul modello de “I figli di Caino”. Ma la sola “Diana di Efeso”, raffigurata come un idolo primitivo, circondato da uomini e donne nudi immersi nel sonno appare all’artista troppo sbilanciata e così, tra il 1895 e il ’96, Sartorio elabora la figura della “Gorgone”, che diviene un nuovo centro compositivo e tematico, speculare al primo.
Il riferimento archeologico della “Diana di Efeso” deriva da l'”Artemide Efesina”, replica romana di età imperiale, conservata al “Museo Archeologico Nazionale” di Napoli, mentre le fonti iconografiche della “Gorgone”, oltre a richiamarsi a modelli pittorici botticelliani e alla “Ninfa di Fontainebleau” di Nino Costa (Roma, Galleria Comunale d'Arte Moderna), affonda le sue origini nelle tematiche del Simbolismo tedesco, conosciute da Sartorio durante il suo soggiorno a Weimar.Sarà proprio questo nuovo inserto a far decidere al pittore di dividere in due la grande tela
Il rapporto, subito burrascoso, s’interruppe presto, anche se trascorsero molti anni prima dell’annullamento del matrimonio; la vicenda segnò dolorosamente Sartorio, che fino al 1925 non ebbe più notizie della figlia.Nel 1901, Sartorio sposava la pittrice di Francoforte Julia Bonn, conosciuta a Roma, da cui nacque, nel 1903, la figlia Angiola
Tuttavia, nel 1918, dopo essere uscito quasi illeso dalla Prima Guerra Mondiale, sposava l’attrice italo-spagnola Margherita Sevilla, detta Marga, dalla quale nascevano Lidia (1919) e Lucio Aristide (1923). A partire da ora, abitò in una villa già dei principi Orsini sull’Appia Antica che aveva acquistato, ristrutturato e arredato, denominandola “Horti Galateae” in omaggio alla giovane moglie. Risalgono a questa fase appagante e serena della vita dell’artista le opere ambientate sulla spiaggia di Fregene realizzate fra il 1924 e il ‘29.
Sartorio torna all’Esposizione Universale di Parigi (1900), di Saint Louis (1903) e in più tappe a quella Internazionale di Venezia (1901, 1903, 1907, 1914), nella quale, oltre ad esporre in sezioni anche personali, si cimenta in fregi e grandi tele decorative per i diversi spazi. Nel 1908, tiene una personale alla Fine Art Society di Londra e nel 1913, a Monaco.Dai primi anni del Novecento l’attività, gli impegni e i riconoscimenti ufficiali s’intensificano
Proprio nel 1913, Sartorio ultimava l’incarico per un’impresa monumentale, la decorazione, per la nuova Aula di Montecitorio progettata dall’amico Basile. Il fregio allegorico che celebrava la storia d’Italia, dai Comuni al Risorgimento, fu realizzato con una nuova tecnica sperimentale che consentiva, grazie all’uso della cera, oltre a effetti di luminosità e trasparenza, una rapida stesura. Le tonalità sobrie, smorzate e come attutite, si armonizzano con il contesto architettonico e con gli arredi lignei, e bassorilievi e le vetrate. Per ingrandire i disegni, Sartorio proiettava la diapositiva del disegno su grandi superfici, forte del convincimento circa le potenzialità della fotografia come strumento di supporto nella realizzazione dell’opera.
Nel 1919, Sartorio fu invitato dal sultano ad esporre in Egitto, visitò anche il Libano, la Giordania, la Palestina e la Siria. Nel 1924, fu a bordo della Regia nave Italia diretta in Sudamerica e nel 1928 approdò in Giappone.Con quest’opera, Sartorio dona un nuovo senso epico alla decorazione e promuove il rinnovamento di un’arte ridefinita attraverso il mito classico, il culto di Michelangelo e del Rinascimento, in uno stile moderno e contemporaneo
Tra la fine del 1918 e il ’19, l’artista aveva anche diretto il film “Il mistero di Galatea”, interpretato dalla moglie. Per la pellicola, non destinata alle sale ma a un pubblico ristretto di amici, adottò tecniche sperimentali, come il viraggio a due colori. Scrisse e diresse anche “Il sacco di Roma” (1920), assieme a Enrico Guazzoni e “San Giorgio” (1921).
Tra le principali mostre, degli ultimi anni, la personale alla galleria “Pesaro” di Milano (1921), la partecipazione ad ”Exhibition of Modern Italian Art” di New York (1926) e due personali sempre a New York, nel 1927 e nel 1931, anno in cui espone alla prima Quadriennale di Roma. Partecipò inoltre a tutte le edizioni della Biennale di Venezia dal 1922 al ‘30.
Sartorio muore nella sua casa di Roma nel 1932.
FOTO DI COPERTINA
Dettagli del dittico di Giulio Aristide Sartorio, Diana di Efeso e gli schiavi e La Gorgone e gli eroi 1895-1899, olio su tela 304×421cm. e 305×420cm., Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea (GNAMC), Roma