Arrivano i nostri!

Eroi e miti del cinema western

Se il cinema nasce nel 1896 con il cortometraggio muto dei fratelli August e Luis Lumière L’arrivo di un treno alla stazione di Ciotat, il genere Western nasce pochi anni dopo, nel 1905, con una pellicola che immortala, anch’essa, un convoglio ferroviario, questa volta preso d’assalto da una banda di fuorilegge. Inquadrature statiche, niente montaggio e breve durata, The Great Train Robbery (Assalto al treno), diretto da Edwin S. Porter e interpretato da Max “Broncho Billy” Anderson, è il primo film western ad essere considerato tale ma la sua importanza nella storia del cinema risiede soprattutto nel suo valore simbolico: la vicenda che racconta è vera e il bandito autore dell’assalto era ancora latitante. I produttori dunque sapevano che la vicinanza temporale ai fatti avrebbe stimolato la curiosità del pubblico facendolo precipitare nelle sale.
Nell’epoca del muto, fino al 1928, vengono prodotti migliaia di film western con trame molto simili tra di loro: il protagonista – un cowboy – è un supereroe integerrimo dai poteri sovrumani. Spesso gli scintilla sul petto la stella di sceriffo, protegge i deboli, uccide i selvaggi e trionfa sempre. 
Uno schema narrativo che si interrompe solo con John Ford (1894 – 1973) che nel 1939, con Ombre Rosse (Stagecoach), amplia e affina alcuni elementi cardine del genere. L’eroe (in questo caso un giovane John Wayne) non ha più superpoteri, è un uomo come gli altri e la sua caratteristica più spiccata, oltre al coraggio, è l’amore incondizionato per la giustizia. Resta la contrapposizione bianchi-buoni/indiani-cattivi che nel futuro del genere verrà addirittura ribaltata ma Ford costruisce comunque le fondamenta, introducendo elementi che diventeranno archetipi indiscussi e universali: la diligenza, il saloon, la Monument Valley, la carica della cavalleria contro gli indiani, il duello finale. 
Dopo capolavori indiscussi come Sfida infernale del 1946 (My Darling Clementine), che racconta l’episodio della Sfida all’Ok Corral, nel 1956 Ford gira Sentieri Selvaggi (The Searchers) in cui getta le basi per quello che negli anni ’60 sarà definito il western revisionista, che capovolge la prospettiva stereotipata di bene/male. L’Ovest oramai è stato conquistato, gli indiani ridotti a poche centinaia e confinati nelle riserve. Ora la società americana ha bisogno di ripulirsi la coscienza: la violenza di ieri deve lasciare il posto al politically correct, a valori di pacifica convivenza e umanità. 
Un altro regista americano che non si può non citare parlando di western è Haward Hawks, artista poliedrico ma autore di due pietre miliari dell’intero genere: Il Fiume Rosso (Red River, 1948) e Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959). 
Struttura narrativa originale, grande suspense e forte potere simbolico caratterizzano l’unico western firmato da Fred Zinnemann: Mezzogiorno di fuoco (High moon, 1959) interpretato da Gary Cooper che veste i panni di uno sceriffo lasciato solo dai suoi concittadini a combattere una gang di spietati malviventi. I critici lo hanno definito un “western politico”, metafora del tradimento che, in pieno maccartismo, il mondo del cinema fece nei confronti di attori, sceneggiatori e registi, accusati di nutrire pericolose simpatie per l’ideologia comunista.
Nel 1964 Sergio Leone porta nelle sale italiane Per un pugno di dollari, il primo western all’italiana. Seguono, negli anni successivi, altri due capolavori a completamento della cosiddetta trilogia del dollaro: Per qualche dollaro in più del 1965 e Il buono, il brutto e il cattivo del 1966. Un unico protagonista, l’attore statunitense Clint Eastwood, e colonne sonore composte ad hoc dal maestro Ennio Morricone. Il successo è grande ma per niente scontato. Spariscono gli indiani e scompaiono le frontiere, Leone punta sulla caratterizzazione dei personaggi “inquinando” gli elementi più espliciti del genere con citazioni e rimandi cari ai suoi connazionali, ispirati dalla commedia all’italiana. Il cinismo e la pura volontà di prevalere sull’altro prendono il posto degli atti di eroismo individuali e dell’arrivano i nostri del western d’oltre oceano. 
Nel grande affresco storico di C’era una volta il West del 1968, considerato il capolavoro del regista romano, torna a riecheggiare l’epopea dei film di Ford ma, allo stesso tempo, Leone introduce elementi nuovi e dirompenti: al centro della storia, questa volta, c’è un personaggio femminile (Claudia Cardinale), caso rarissimo nei film western (ad esempio Johnny Guitar, 1954 di Nicholas Rey). 
Con il western “politico” Giù la testa (1971) e Il mio nome è nessuno, girato a quattro mani con Tonino Valerii, Sergio Leone rafforza uno stile registico già consolidato, aprendo la porta delle sale cinematografiche a tutta una serie di imitatori non certo alla sua altezza ma che confezionano prodotti standard che il pubblico non disprezza. I critici italiani ribattezzano il genere spaghetti western.
Il ’68 cinematografico impone anche al genere western i suoi valori e le sue battaglie. Soldato Blu (Blu Soldier) di Ralph Nelson, uscito nel 1970, ribalta completamente lo stereotipo dell’indiano cattivo e, prendendo lo spunto dalla cronaca del massacro di Sand Creek, diventa il manifesto delle ragioni dei nativi americani, sterminati da un manipolo di europei avanzi di galera, assetati di terra e di oro.
Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970 di Arthur Penn), in cui il protagonista è addirittura un bianco adottato dai nativi, Un uomo chiamato cavallo (A man called horse, 1970 Elliot Silverstein), Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson, Sydney Pollack) fino a Balla coi lupi (Dances with Wolves, 1993) di Kevin Costner, sono i film che segnano il percorso che porta i bianchi, senza se e senza ma, dalla parte dei cattivi.
A proposito di cinema “revisionista” bisogna ricordare il regista Sam Peckinpah (1925 – 1984) che con La morte cavalca a Rio Bravo (The Deadly Companions, 1961), Sfida nell’Alta Sierra (Ride the High Country, 1962) e soprattutto Mucchio Selvaggio (The Wild Bunch, 1969), descrive la società americana del ‘900 come un’accozzaglia di ubriaconi bari e disonesti, ben lontani dagli ideali romantici delle storie narrate dall’epica yenkee.