Aldo Moro. Il fine è l'uomo

Dialogo con Giuseppe De Mita 

Nel video Giuseppe De Mita, intervistato a Napoli il 14 marzo 2024 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici parla del pensiero politico di Aldo Moro (Maglie 1916 - Roma 1978), partendo da un discorso in Assemblea Costituente del 1947, contenuto nel volume Il fine è l’uomo, pubblicato nel 2018 da Edizioni di Comunità.

C’è una coscienza collettiva nuova, dove vive la sensazione che ingiustizie e condizioni d’insufficiente dignità non siano più tollerabili e che il diritto di altri, anche dei più lontani, sia da tutelare non meno del proprio. La ragione di Stato e la ragione della forza dovranno cedere, alla fine, a questa incontenibile logica della fraternità dei popoli che si lega al destino di un’umanità davvero rinnovata. 
Aldo Moro

Bisognerebbe fare lo sforzo non solo per ragioni politiche ma anche per ragioni di rispetto umano di togliere Moro dalla lettura dei soli cinquantacinque giorni della prigionia perché è come se lo tenessimo ancora imprigionato senza dargli un respiro più ampio mentre la sua è stata e resta una riflessione importante che arriva fino ai nostri giorni. Il suo pensiero era dentro la storia, rifletteva sui fatti storici, collocando il contingente nel processo storico


Nel suo intervento in Assemblea Costituente sull’articolo 3, Moro fissa alcuni punti che definiscono il senso dell’organizzazione dell’istituzione rispetto alle istanze delle persone. 
Moro sottolinea come la nostra Costituzione debba caratterizzarsi come antifascista e non “afascista”, perché nasce da un fatto storico, che è l’opposizione ad un regime totalitario, e senza questo riferimento storico non avrebbe la stessa forza. 

Il nostro potrebbe apparire un richiamo ideologico ma in realtà l’ideologia alla quale facciamo riferimento è la libertà dell’uomo, che non è un’ideologia ma un valore.  

Moro parla di tre pilastri che sono a fondamento della nostra organizzazione istituzionale. Il primo è il riconoscimento dei diritti di libertà della persona, il secondo è costituito dalle istanze di giustizia sociale. Il terzo pilastro Moro lo fonda nell’esigenza che le istituzioni abbiano un volto largamente umano e questa considerazione introduce un elemento valoriale nella prospettiva che devono avere l’istituzione e l’organizzazione della vita politica, che è la tutela della dignità delle persone.  

Quando aprirà all’interlocuzione con il partito comunista Moro ha in mente la competizione tra due umanesimi, perché non nega la circostanza che, pur con alcuni limiti, anche la posizione comunista fa riferimento alle istanze dell’uomo.  

Il fine delle istituzioni e della democrazia è l’uomo, nel momento in cui i sistemi democratici dovessero perdere questa finalità perdono la partecipazione delle persone. Oggi la progressiva distanza delle persone dalla vita democratica, resa evidente dalla sempre crescente astensione dell’elettorato, è legata alla circostanza che le istituzioni non vengono più percepite come lo strumento che si preoccupa di rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione della dignità della persona umana. 

Moro è propriamente un popolare e il popolarismo non è un’ideologia, ma uno sforzo di lettura della storia orientato a comprendere come l’organizzazione politica e quella istituzionale siano in grado di dare risposte adeguate alle istanze di libertà e di giustizia delle persone in un dato tempo storico. 
Ed è su questo movimento di ricerca che si fonda la democrazia, un movimento che non ha un punto di arrivo ma che è una ricerca progressiva, non ideologica, ma volta alla costruzione di passi successivi.

L’ispirazione di Moro è una filosofia della storia più che un’ideologia, è la collocazione della nostra vicenda umana del tempo e del luogo in cui stiamo vivendo, all’interno di un percorso molto più ampio che è il percorso di riconoscimento, di accrescimento e di realizzazione delle istanze di libertà delle persone. Il popolarismo è questo sforzo di lettura della storia. 


Alcide De Gasperi e Moro costruiscono un partito che raccoglieva una parte di elettorato nel mondo reazionario, e non solo per ragioni di convenienza politica, ma per mantenere integro l’equilibrio elettorale nel nostro Paese. Quando non c’è stato più un partito in grado di raccogliere consenso in questo mondo per portarlo verso l’orizzonte democratico, quella parte di società si è sbandata ed ha iniziato a rincorrere suggestioni demagogiche e populiste. 

Interpretando il metodo popolare e proseguendo la strategia di De Gasperi, Moro  apre al Partito socialista all’interno di un disegno di progressivo allargamento della base democratica e costruisce il primo centrosinistra, diventandone il principale interprete, anche per l’attitudine alla mediazione, che era uno sforzo di ricerca di un punto di equilibrio più avanzato, per convincere persone che avevano posizioni diverse a far sì che questa diversità diventasse un elemento di ricchezza e di equilibrio nel contesto politico e sociale. 
Moro è attento alle posizioni del movimento studentesco e femminista e coglie il fatto che tali posizioni segnalavano l’introduzione di nuovi diritti di libertà, che in quel momento sembrava riguardassero solo parti marginali della società e che invece erano l’avamposto di un accrescimento della coscienza delle persone nella conquista di nuovi diritti, che poi avrebbe finito per riguardare la pluralità delle persone. 

Moro era consapevole del fatto che l’articolazione burocratica a volte era orientata all’organizzazione dei favori più che alla tutela dei diritti, ma capiva che questo era un problema secondario, perché la questione, come si è potuto vedere in seguito, non poteva essere risolta né con il moralismo, né con l’azione della magistratura ma solo con il rafforzamento delle istituzioni democratiche. 


Nel colloquio avvenuto a fine febbraio 1978 con Eugenio Scalfari e pubblicato postumo, Moro dice:

Molti ci dileggiano quando noi parliamo di spirito di servizio nella gestione del potere, perché pensano che sia un’ipocrisia, ma io ritengo un male il fatto che la Dc sia l’unico pilastro per il mantenimento della democrazia nel nostro Paese. Il nostro sistema incomincia ad avere del marcio e nel mio partito io so che ci sono persone che dicono la verità quando parlano di spirito di servizio e so pure che ci sono persone che utilizzano questa circostanza per continuare in una gestione del potere che diventa sempre più opaca, ma non lo ritengo il problema principale, perché noi dobbiamo costruire le condizioni per un cambiamento. 

Il compromesso storico è la posizione di Enrico Berlinguer, non quella di Moro, per il quale questo compromesso avrebbe un sapore consociativo, che non appartiene alla cultura municipalista del nostro Paese, che è un Paese di diversità, di distinzioni. Per Moro il compromesso sarebbe un pasticcio, mentre lui intendeva passare attraverso una fase di solidarietà nazionale tra forze politiche diverse, che avevano come orizzonte il mantenimento della democrazia in Italia, con un’estrema attenzione alle condizioni di praticabilità di questo percorso. 

Noi dobbiamo legittimare i comunisti alla guida del Paese e quindi dovremo fare un governo insieme a loro anche solo per alcuni mesi, quello diventa simbolicamente un reciproco riconoscimento tra i due partiti, che non c’è uno scontro irriducibile tra le loro diverse posizioni, ma che ci sono due umanesimi che si confrontano all’interno del gioco della democrazia parlamentare. 

Per certi versi siamo ancora lì: l’alternanza non è una competizione tra buoni e cattivi, come secondo l’attuale manicheismo moralista e demagogico ma è una competizione tra umanesimi, è il riconoscimento che l’altro ha un punto di vista diverso dal nostro, che può essere migliore e che l’importante non è la conquista del potere ma garantire la rappresentanza, per non escludere parti della società.  

Noi abbiamo un po’ smarrito questo senso della storia, questa complessità delle cose, questa esigenza di vivere la democrazia come ricerca, come lettura della storia, come attenzione nei confronti della persona umana e non come posizione di verità. 


Moro, che aveva un forte sentimento religioso, era altrettanto consapevole del fatto che il sentimento religioso doveva restare su una sfera distinta e non potesse trovare realizzazione nella norma giuridica. Una visione ispirata da Sturzo e De Gasperi ma ancora più moderna.

Il precetto religioso non può diventare legge, perché nel momento in cui diventa legge non è più una libera scelta della persona. Un conto è il canone religioso e un conto è la regola civile, che il credente è chiamato ad interpretare, ma sul piano delle libertà civili e non su quello dell’oppressione, perché qualunque precesso religioso, anche il più puro, nel momento in cui si traducesse in  norma diventerebbe coazione. Si può essere allo stesso tempo fedeli ad un precetto religioso, ma liberi sul piano politico. 

L’ispirazione religiosa, per chi ce l’ha, è un arricchimento nello sforzo di ricerca delle soluzioni che garantiscono la libertà a tutte le persone e c’è un punto di congiunzione tra il volto largamente umano della Repubblica del discorso del 1947 in Costituente e il contenuto delle lettere, nelle quali Moro dice che se la Repubblica non si fa carico della difesa della vita di un uomo e la linea della fermezza non si materializza nella difesa della vita umana, ma in un’astrazione, allora crolla tutto, anche la difesa di un principio diventa una sconfitta, perché quando quel principio non coincide con la vita dell’uomo, di qualunque uomo, le istituzioni perdono di significato. 


Luigi Sturzo da prete aveva fondato questa posizione di laicità quando nelle campagne siciliane, all’inizio Novecento, solidarizzava con i socialisti nella battaglia contro il latifondo, fissando un formidabile punto di distinzione tra il modo di essere popolari e il modo di essere ideologici. In un comizio disse: “Io solidarizzo con voi socialisti, perché anche io ritengo che la terra debba essere tolta ai latifondisti, ma mentre voi volete darla allo Stato, che non si sa chi sia, noi vogliamo darla ai singoli contadini, perché non si tratta della proprietà in quanto tale, ma della proprietà come strumento di realizzazione della persona. 
  
Giuseppe De Mita è nato ad Avellino, dove ha studiato presso il locale liceo classico.  Si è poi trasferito a Milano laureandosi in giurisprudenza presso l'università cattolica del sacro Cuore. Ha anche conseguito un master presso il Dipartimento di scienze sociali dell'università Federico II di Napoli. È stato prima consigliere e poi vice presidente della provincia di Avellino, vice presidente della giunta della regione Campania e deputato nella XXVII Legislatura. Ha scritto per Rubettino, con Mario Mauro e Rossella Daverio, il libro intervista "POP, La bellezza della politica popolare". È tra i promotori di Base Popolare.