New York stories di Paul Auster

New York stories di Paul Auster

Approfondimento di Claudia Bonadonna

New York stories di Paul Auster
Si dice di Paul Auster che sia l’ultimo dei classici americani. A chiederglielo, negherà con la calma fermezza dei grandi, ammettendo tutt’al più una vicinanza sentimentale al romanticismo obliquo di Poe e Hawthorne, “i primi – ha scritto – con l’intento consapevole di costruire una voce letteraria autenticamente americana”. Eppure la narrativa di Auster ha il respiro ampio della tradizione, con cui condivide il gusto per la misura e la placida sicurezza della quotidianità – venata di malinconia e musica il tanto che basta a non renderla scontata.

Auster riscopre la propensione (molto pragmatica e molto americana) allo storytelling. Già da metà anni Ottanta, quando impera il minimalismo e il memoir, difende il piacere dell’invenzione narrativa e del racconto. E lo fa secondo dettami bizzarri, sfuggenti, ineguali: lingua elementare e scetticismo metropolitano, trame avvincenti (la ricerca delle origini, la relazione col padre) e allusioni metafisiche (l'etica del casuale); piccoli scenari patriottici (il baseball: lo sport dell'integrazione sociale e della memoria collettiva) ed enormi enigmi esistenziali (la solitudine e l’abbandono).

Si respira un’aria acculturata - europea - tra le pagine di questo newyorkese di origini ebraiche che ha conquistato la fama celebrando la quintessenza dell’americanità. I lunghi soggiorni giovanili a Parigi e nel Sud della Francia hanno lasciato suggestioni e forse qualche debito affettivo. Non è una novità del resto che i suoi lavori godano di una maggiore popolarità in Europa che in patria e che le calde lodi dell’ex ministro della cultura francese Jack Lang generino più sconcerto che ammirazione al di là dell’Atlantico.

Paul Auster scrittore a suo modo sentimentale, illanguidito da una poetica dell’imprevedibilità che coniuga il realismo del dettaglio con l’afflato fiabesco della sua visione interiore: la finzione è una menzogna, sì, ma secondo lui:

Una menzogna che rasenta la verità


Nei suoi romanzi vive un mondo in frantumi in cui risuona “la musica del caso” e gli “slittamenti dell'esistenza” sono causati da “strani fatterelli” basati su coincidenze, casualità, circostanze marginali “che non vogliono dire niente” ma fanno capire tutto, eterni inspiegabili ritorni. I suoi protagonisti (molti detective privati, molti scomparsi, molti personaggi in cerca di nome più che d’autore) sono di volta in volta messi alla prova dell’assurdo quotidiano, costretti a giocare il gioco rituale dell’identità, a "decifrare il proprio caos" attraverso quello altrui.

Paul Auster scrittore a suo modo seriale, innamorato di schemi e figure ricorrenti che si inseguono da una storia all’altra in una catena di feconda autoreferenzialità. Secondo l’amico ed estimatore Salman Rushdie questa attitudine produrrebbe un’ulteriore coerenza interna:

Certe ripetizioni: la distorsione temporale, il fascino per il mistero accidentale, l’indagine ossessiva sugli effetti della casualità, rendono i romanzi di Auster volutamente identificabili. È come se l’autore si impegnasse a creare un corpus compatto e lo consegnasse al lettore mettendo in bella mostra le chiavi per decifrarlo - Salman Rushdie


Paul Auster letterato per caso: “Diventare scrittori significa essere scelti e non aver più scelta", scrive in Sbarcare il lunario. La vocazione, giovanile e caparbia, passa come tradizione vuole attraverso un massacrante decennio di autoformazione. Via da New York, in lungo e in largo per l’Europa senza il becco di un quattrino (“La mancanza di denaro era diventata una vera e propria ossessione. Ho vissuto per anni nel più totale panico”, scrive più avanti), Auster colleziona città: Parigi, Dublino, Roma, Madrid… e mestieri improbabili. S’imbarca come mozzo su un convoglio mercantile, lavora come ghost writer per un’ereditiera americana in Messico; compone piece teatrali e soggetti per film muti (gli stessi che fanno bella mostra di sé nell’ultima prova de Il libro delle illusioni); pubblica romanzi di serie B (gialli chandleriani sotto lo pseudonimo di Paul Benjamin), scrive traduzioni, poesie e articoli di critica letteraria. Ha giusto il tempo di far naufragare il proprio matrimonio e di scoprire l’improvvisa morte del padre (trasposta come misteriosa saga familiare ne L’invenzione della solitudine) prima di ritrovarsi a metà anni Ottanta nuovamente a New York, nuovamente squattrinato.

Quando nel 1985 esce Città di vetro, primo capitolo di quella che con Fantasmi e La stanza chiusa costituisce l’ormai celebre Trilogia di New York, Auster è scagliato agli onori della cronaca letteraria. Dal romanzo affiora una città diversa: enigmatica, fantastica, atemporale; una sorta di un “nessun luogo” capace di dissolvere nel proprio labirinto l’identità di chi la abita. Persi in un continuo gioco di simulazione e svelamento, coinvolti in eccentriche investigazioni metafisiche dagli esiti imprevedibili, consumati nell'invenzione di questa solitudine, i personaggi della Trilogia misurano il proprio io e scoprono il loro vero destino.
 
Tutto comincia con una telefonata nel cuore della notte. Il giallista Daniel Quinn accetta la sfida lanciata dallo sconosciuto all’altro capo del filo e si cala nei panni di un fantomatico detective di nome Paul Auster andando a caccia del figlio pazzo di un folle profeta che cerca la Torre di Babele a New York. In Ghosts, Bianco incarica Blue di spiare Nero; l'indagine si protrae negli anni senza approdare a nulla, ma ad ogni giro aumenta il numero dei personaggi-colori coinvolti secondo una vorticosa spirale di reciproci pedinamenti. In Locked Room chi investiga finisce per immedesimarsi nell’oggetto delle sue indagini: un amico scomparso e invidiato al punto da sposarne la sconcertata consorte e adottarne il figlio.

Detective stories atipiche, si diceva, in cui l’intreccio giallo è poco più che una scusa per andare alla ricerca di verità arcane e pacificazioni psicologiche. Risolvere il mistero è la conseguenza accessoria, non fondamentale. Il caos dell’esistenza e della città travolgono i singoli come un magma tentacolare e gridano il loro bisogno di essere interpretati. L’ordine dell’indagine sembra essere per autore lo strumento meno intellettuale e più efficiente a portata di mano. Paul Auster viene incoronato “maestro indiscusso del giallo filosofico”. Di lui si dice che è “una sorta di Samuel Beckett lunare e metropolitano alle prese con una trama di Poe”.

Dieci romanzi, due sceneggiature (Smoke e Blue in the face) e un film dopo (il controverso esordio alla regia di Lulu on the bridge), Auster rimane una star universalmente nota che ha definitivamente risolto i suoi problemi di budget – al punto da permettersi di sponsorizzare What I loved, il debutto letterario della colta consorte in ombra, Siri Hustvedt. Ancora incontrastato cantore di un mondo inesplicabile immerso in una solitudine trascendente e dominato dal caso, il Nostro ha anche provato a seguire altri percorsi meno metaforici e più archetipi. Tali almeno sono le deliziose favolette morali di Mr. Vertigo e Timbuctù, che raccontano attraverso un bambino prodigio d’inizio secolo capace di volare e un cane parlante pieno di saggezza new age (molto meno emotivamente convincente, ad esser sinceri) il candore degli ultimi in resistenza passiva alla vita. 
 

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